mercoledì 19 gennaio 2011

Mare nostrum: alle frontiere della Tunisia, il mondo





In certe situazioni, lo spettacolo può anche includere il burqa, ma è ormai sempre più spesso senza veli.

Non è più solo il re di turno - sempre più virtuale, effimero e interscambiabile - a essere nudo. I suoi servitori volontari, sempre più volgari e impotenti, lo superano nello striptease “hardentemente” iniziato al ritmo del refrain repubblicano.

Da una parte la Tunisia (e non solo, poiché tutta l’antica civiltà araba sembra voler cominciare a emanciparsi dalla doppia repressione che l’ha aggredita da secoli: il colonialismo occidentale giudeocristiano e l’oscurantismo islamista delle sue radici religiose monoteiste) sembra riaprire il discorso di rivolte popolari laiche che i più credevano sepolte insieme al conflitto tra le classi sociali, vero e proprio marchio di fabbrica di tutta la storia dei popoli lavoratori fino all’avvento recente della società dello spettacolo.

Sull’altra costa dello stesso mare la situazione italiana offre un caso esemplare dello scadimento e dell’alterazione del nuovo rapporto di sottomissione che il superamento capitalistico della lotta di classe ha instaurato al quotidiano tra dominatori e dominati nella società dello spettacolo integrato. L’Italia è dunque all’avanguardia almeno in una modernità: quella della barbarie.

Si sa che, oltre ogni ideologia, quando un modo di produzione non è più in grado di evolvere, è destinato a sparire. Per ragioni che la critica dell’economia politica ha spiegato da secoli, il capitalismo è stato in grado di fare di questa ineluttabile condanna planetaria un’ultima disperata occasione di profitto, allungando i tempi della sua sparizione al prezzo del rischio di estinzione dell’intera specie e provocando danni catastrofici a quanti si trovano a vivere una tale tremenda transizione. Siamo in bilico tra un mondo che non c’è più e un mondo che non c’è ancora; tra la barbarie di una civiltà del lavoro che viene a mancare e l’utopia di una società del tempo libero che non può essere riconosciuta come progresso, come tempo creativo e come emancipazione collettiva dal lavoro salariato. La forza di lavoro altrui è la miniera inesauribile di chi si arricchisce, appunto, attraverso l’appropriazione e lo sfruttamento del tempo di lavoro astratto degli esseri umani.

Il passaggio possibile e auspicabile dall’economia della catastrofe alla società del dono è davanti a noi, inebetiti all’idea di una rivoluzione che ci hanno talmente insegnato a temere da farci rischiare di morire di sete a un passo dalla fontana che l’esplorazione soggettiva del vivente - forte di millenni di storia - ha messo dinanzi al nostro destino di primati dall’umanità deficiente. Siamo diventati scimmie i cui occhi non sanno vedere la realtà ma solo l’apparenza; le cui orecchie non percepiscono il gaio gorgogliare dell’acqua che scorre, ma solo il tintinnio ossessivo del denaro di chi ha fatto dell’acqua una proprietà privata; le cui bocche non sanno più parlare liberamente dopo aver pensato con l’intelligenza sensibile di un corpo gaudente, ma solo reagire da consumatori frustrati e nevrotici di fronte a un qualunque spot pubblicitario che solletichi il feticismo della merce o il narcisismo politico.

Warhol era ancora ottimista: quindici secondi di anonima celebrità a sparare cazzate su un blog, dove si può apparire “confortevolmente”, in un mondo altrettanto virtuale dei propri desideri. Ecco l’aspirazione massima degli zombi che odiano un leader mentre già se ne scelgono un altro che odieranno domani.

Mai come in questo momento, la realtà italiana è stata più utile per spiegare la teoria di tutto un sistema sociale planetario arroccato attorno a un unico modo di produzione globale: il capitalismo.

A quest’oggi grottesco l’Italia è arrivata da lontano.

Dagli albori, alla fine dell’Impero romano, con i barbari che s’instaurano nel vuoto di potere di una Roma decaduta e sopravvissuta con le stampelle del cristianesimo, fino al ventesimo secolo, con l’epopea di una resistenza dai tanti volti ideologici e della ricostruzione di una società liberaloide ben più cristiana che democratica, confusamente risorta, con l’accompagnamento di un coro sorridente e caciaresco di Don Camillo e Peppone, dalle ceneri di un fascismo che non si è mai assunto nessuna delle sue responsabilità, né durante né dopo un ventennio di narcisismi beceri e distruttori. Tuttavia, si può sempre provare a far peggio, visto che il fascismo è innanzitutto una struttura caratteriale che può appoggiarsi su qualunque ideologia.

Tutti i fascismi producono necessariamente una smodata rappresentazione di “grandeur” provinciale, con rituali e mitologie sacralizzanti le più banali idiozie, dal sacro Graal a un’ampolla d’inquinatissima acqua di fiume, perché sono strutturati e sospinti dall’intima e segreta convinzione del nulla interiore che riunisce duci e adepti. I fascismi nascono per esorcizzare con l’odio la paura di vivere, favorendo la tendenza compulsiva a digrignare i denti prima di morire soffocati nel ridicolo, annegati nell’olio di ricino che ci si affretta a far bere alle vittime al momento effimero di un qualche barbaro trionfo.

Nemmeno i masochisti più inveterati possono amare a lungo le dittature. Sono sempre troppo stupide e sanguinarie per non diventare insopportabili, prima o poi, agli utili idioti che non hanno potuto o saputo accedere alla cassa e servirsi.

Il riflesso di morte sospinge facilmente i servitori volontari all’esorcismo autoritario, alla sottomissione di fronte al protettore demagogico e paternalista, ma una tale immensa stupidità finisce sempre per infrangersi sull’istinto roccioso della volontà di vivere, ogni volta che il castello di carte sostenuto da fucili, manganelli e propaganda incontra la minima resistenza di un’autentica poesia.

Il superuomo, con o senza tacchi finti, è sempre l’immagine rovesciata del piccolo uomo sfigato che non sopporta di vedersi allo specchio.

Da un lato, in Tunisia, l’ennesimo Ceausescu di servizio, cerbero vigliacco e miserabile oltre le ideologie, ha approfittato della retorica demagogica di una politica affaristica per arraffare e terrorizzare, sorvegliare e punire con l’avvallo di tutte le democrazie spettacolari di un occidente sempre più in preda alle coliche di un economicismo totalitario in crisi di profitto. Risultato: kaputt Alì e i quaranta ladroni.

Dall’altro lato dello stesso mare, in un clima di disfacimento dei valori fondanti della volontà di vivere collettiva, due episodi della tragedia dell’arte che attraversa l’Italia contemporanea (le disavventure della Fiat e di Berlusconi) offrono lo spunto per opporsi al totalitarismo spettacolare mercantile che inquina il pianeta intero.

A forza di iniettarsi delle dosi di guadagni finanziari sempre più importanti, i drogati dell’economia politica sono ormai dovunque in crisi di astinenza. Hanno un bel indebitare, ai quattro angoli del pianeta, popoli e individui per assuefarli al loro vizio e coinvolgerli nel loro disastro. Per soddisfare il metabolismo alterato dell’economia capitalista ci vogliono ormai diversi pianeti, proprio quando il solo a disposizione comincia a dare evidenti segni di necrosi da sfruttamento intensivo.

Per la prima volta nella storia, si profila come ineluttabile l’alleanza tra la natura e la volontà di emancipazione di donne e uomini liberi.

Per la prima volta non si potranno sfruttare più a lungo gli esseri umani in nome del progresso quando, con evidenza crescente, il solo progresso ipotizzabile diventa la fine dello sfruttamento della terra e dell’essere umano.

Le prime avvisaglie dello sciopero della natura educano allo sciopero generale contro un’ideologia del lavoro che pretende di risolvere il problema della disoccupazione producendo milioni di automobili-gadget di lusso - l’esempio di Fiat Mirafiori è solo un esempio tra i tanti nei quali il serpente del profitto si morde la coda - che nessuno comprerà se non al prezzo di un inquinamento ormai comunemente denunciato come insostenibile.

L’Italia di Mirafiori è una tragedia annunciata per tutti i paesi del mondo. Il produttivismo è disumano e senza avvenire, ma gli ultimi padroni delle ferriere chiedono ai loro schiavi - qui con dei referendum bidone, là facendo rimborsare alle loro famiglie le pallottole con cui li fucilano, ma sempre “democraticamente”, beninteso - di autoimporsi la sofferenza necessaria per far continuare il sistema.

Lo sviluppo sostenibile consiste, dunque, in un doppio trucco: operare all’opposto di tutta la sensibilità ecologica che ormai condiziona il mercato globale (ecosensibilità della quale ci si riempie ideologicamente la bocca ed economicamente le tasche), producendo con la mano di destra quel che si predica di dover abolire con la mano di sinistra.

La società dei consumi non è ecologicamente né energeticamente sostenibile. Continuare in questa direzione in Italia come in Francia, in Cina come negli USA, vuole dire andare oggettivamente verso la catastrofe.

Chi ha votato no a Mirafiori è all’incirca la metà degli operai coinvolti nello psicodramma, ma quei proletari hanno un alleato ben più forte della Fiom: il sindacato spontaneo della natura non prevede contratti ma solo scioperi generali.

Dove conta di spostare la Fiat, Marchionne, di fronte a una tale intollerabile assenza di democrazia partecipativa da parte della natura? Su Marte o più modestamente sulla Luna? Ci pensi mentre conta le sue stock options.

Il problema, però, non è tanto dei Marchionne, quanto e soprattutto il nostro.

Ben peggio degli ultimi zombi terroristi religiosi o politici, gli uomini d’affare sono i più pericolosi nichilisti del presente. Ognuno di loro sa bene quel che innescano le loro bombe produttivistiche in agricoltura, nei trasporti, nella medicina, ecc., e se ne fottono. Hanno fatto del mondo un deserto emozionale e sociale e continuano a chiamarlo progresso. Sono pronti a calcolare i morti del nucleare, dell’amianto, degli inceneritori e delle Tav come costi, piangendo ufficialmente sui cadaveri ancora caldi mentre intascano il loro immenso salario della paura come dei sopravvissuti contenti di un’ultima vittoria prima di crepare a loro volta.

Il sì a Marchionne, e lo dico considerandolo un tragico destino, con totale assenza di moralismo e colpevolizzazione, è un atto di prostituzione collettiva in una società italiana che di queste cose ha sempre mostrato d’intendersene.

Chi mai, se non un demagogo oscurantista, potrebbe condannare la prostituzione di chiunque voglia sopravvivere un po’ meglio, far mangiare i figli, riuscire a pagare il mutuo nella cui trappola micro finanziaria è caduto come tantissimi?

Lo stesso vale per chi la prostituta la fa nel modo più tradizionale, non da salariato ma da cortigiano. Ogni epoca barbarica ha i suoi sfruttati, i suoi ricatti economici, le sue miserie e i suoi cortigiani. Chi subisce il ricatto è miserevole, ma chi ne approfitta è uno sfruttatore disumano.

Io non voglio giudicare chi sia peggio tra l’operaio che accetta di votare sì a Marchionne e la velina che si fa sodomizzare per un salario certo più consistente ma non meno umiliante. In una società di caste dove si nasconde la coscienza di classe?

L’alienazione riguarda ogni lavoro e la sessualità separata dall’amore sensuale - le cui caratteristiche sono la gratuità, il dono e il gioco reciproco dell’affettività - ha costituito nei tempi la materia del più vecchio mestiere del mondo.

Da questa coscienza proletaria, non ipocrita né trionfale, ma assolutamente radicale, può partire una critica della società del lavoro in via di estinzione relativa, la cui ideologia, però, è ancora fiera e radiosa come sacra barbarie collettiva.

Poiché ciò produce un aumento del valore economico astratto di cui si nutre il capitale, si continua a far marciare il cadavere di un mondo che non distribuisce le ricchezze per il piacere di tutti né l’attività necessaria a produrle in modo equo e fraterno; un mondo che, accessoriamente, è al servizio della necessità di quei malati che mettono in scena sotto forma di potere una potenza altrimenti drammaticamente insufficiente.

La vera impotenza è l’impotenza ad amare e il vero amore è la capacità di far funzionare orgasticamente il corpo individuale e sociale nella sua totalità poetica, alla larga dal materialismo meccanicista di grottesche macchine produttrici di orgasmi mercenari quanto dai discorsi misticheggianti e spiritualisti di un amore disincarnato, avido di rinunce, sofferenze e umiliazioni.

Tutto di bianco vestito come un’eiaculazione, anche il papa ha bisogno di educazione sessuale quando rivendica la fede come un tabù al godimento della conoscenza e alla conoscenza del godimento. Né più né meno di altre caricaturali maschere del potere, il suo rapporto con il corpo sessuale è un rapporto monco, castrato dai sensi di colpa e dalla volontà di potenza.

Potere e impotenza funzionano in coppia nel più riuscito dei matrimoni finché si cerca disperatamente di esorcizzare la propria castrazione inventandosi, come ogni fascista, degli untermenchen.

C’è ovunque, oggi, nell’aria ammorbata da un potere miserabile e da un’altrettanto miserabile opposizione fantasma, un’eccitazione voyeuristica attorno alla povera genitalità impotente di un individuo aggrappato al suo fallo come a un salvagente sgonfio. La maschera di Berlusconi è talmente vomitevole che m’invita a non entrare nel gioco, evitando di sparare sulle ambulanze pur senza privarsi, al di fuori dello spettacolo, dell’igienica pulizia sociale necessaria alla ricostituzione della potenza orgastica, della generosità, del dono, della gratuità scandalosamente offesi.

Capisco la rabbia di chi si è lasciato prendere per i fondelli ancora una volta e in modo sempre più ridicolo e vergognoso, ma non voglio comunque partecipare al sabba dell’impotenza né all’eccitato scandalo di un moralismo da sacrestia che unisce in una promiscuità ambigua e sessuofobica preti e chierichetti, poliziotti e moralizzatori, educatori ed educande, giovani e vecchi di una repubblica fondata sul lavoro alienato e sulla sua sacralizzazione forsennata.

Indigniamoci (e più se affinità) dell’impotenza a vivere che il totalitarismo dell’economia ha diffuso nel mondo, trasformandolo in un bordello collegato a una fabbrica globale guardata a vista da chiese, palazzi, cupole mafiose, moschee, sinagoghe e supermercati. Cominciamo a trasformare tutte queste cattedrali dell’alienazione salariata in bistrots, in luoghi conviviali, in case di un popolo che non vuole più leader né piccoli padri dei popoli.

La libertà, l’uguaglianza e la fraternità in un clima di sensuale armonia, mi rinviano attraverso le epoche verso un eterno presente. Quello della poesia di Fourier, di Lafargue, di Vaneigem laddove spariscono, finalmente, le orribili facce dei ricchi, incartapecorite dalle miserie, e quelle degli stakanovisti, avvizzite da dubbie ergoterapie.

Questi fantasmi del passato non contano più niente, ma anche il lavoratore se non è rivoluzionario non è nulla. Tutt’al più una funzione del capitale.

Sergio Ghirardi 18-1-2011