lunedì 25 aprile 2011

Felicità, qualcuno ha detto felicità?



La felicità è da sempre la questione centrale di un’umanità il cui superamento incompiuto dell’animalità tende, appunto, a una felicità altrettanto imperfetta e claudicante dell’umanità dell’uomo.

La felicità come la volontà di vivere che la secerne, non può essere davvero definita; la si avverte cercandola, come si cerca il cibo prima di avere fame, come il corpo ci chiede di poter bere ben prima di avere sete, spinto dal piacere di dissetarsi in compagnia e per amore. La socialità ruota infatti senza alcun dubbio attorno all’amicizia che esprime la nostra socievolezza naturale e all’amore che circonda come un’aura sempre presente pur se mai certa, i nostri incontri possibili in situazioni costruite o sul filo del caso delle derive della vita.

La felicità è lo scopo dei desideri che animano la volontà di vivere. I quali, però, cessano di essere autentici non appena si trasformano in bisogni insoddisfatti o quando si sforzano di soddisfare dei bisogni che non sono mai stati dei veri desideri.

La diffusione del lavoro al posto della creatività e delle capacità concrete di un essere umano liberamente occupato a ballare la danza dei generi attorno alla centralità femminile, ha ridotto il tema della felicità a un calcolo essenzialmente economico fondato sull’avere e non sull’essere, sulla quantità e non sulla qualità, sull’individualità alienata del produttore-consumatore anziché sulla soggettività esploratrice di poetesse e poeti sensuali dall’anima vagabonda.

Dopo millenni di inquinamento spirituale da parte della morale religiosa, i diversi ostensori e guru che dappertutto hanno invaso la società umana come piante velenose, hanno sempre operato al servizio della spada e del signore di turno per garantire i diritti di sfruttamento dell’uomo sull’uomo. Solo la poesia e la sua versione estrema e involontaria che è la follia sono riuscite a sottrarsi all’inquadramento produttivista salvaguardando il diritto alla diserzione di fronte al dovere del lavoro imposto dal ricatto economico.

Nell’etimologia stessa del termine “poesia”, il poeta non è affatto il contemplativo etereo e socialmente conforme dai nobili sentimenti che la società gerarchica dipinge, manipolando il senso delle parole secondo un’abitudine consolidata. Al contrario, il poeta è esattamente l’uomo del fare (dal greco poieo = io faccio), l’individuo creativo che costruisce a ogni passo un mondo nuovo, che inventa una nuova urbanistica unitaria e varia dove si prova piacere a vivere perché il corpo e lo spirito si trovano finalmente riuniti nella sensualità del vivente dalle pratiche dell’intelligenza sensibile.

La richiesta intima di ogni poesia resta la felicità di vivere, persino quando il mondo a rovescio dell’alienazione economica spinge le masse al consumo miserabile e alla decadenza e qualche poeta sperduto, frustrato e ferito cade nella trappola senza uscita di una risposta nichilista al sistema.

Il nichilismo non è altro che un canto disperato e disperante alla vita quando la morte ha vinto.

Da quando il meccanicismo opportunista del funzionamento economico riproduce in modo civilizzato il meccanismo naturale della bestia (l’animale primitivo), con il suo mors tua vita mea, con i suoi odiosi e meschini maschi dominanti e le sue intollerabili depredazioni di ogni tipo, l’ipotesi spontanea della felicità è stata massicciamente falsata e rimossa fino a diventare quasi indicibile.

Com’è castrata e infibulata la felicità ogni volta che il godimento si traduce nel possesso di cose anziché nella magia fusionale, puntuale e affettuosa dell’orgasmo reciproco di liberi soggetti !

Ecco, del resto, ancora una parola confiscata dal nemico dell’umano che si nasconde nell’uomo, acquattato nella corazza emozionale rigida e incapace di abbandoni generosi. Da qualunque ideologia sia generato, il pestiferato emozionale interpreta alternativamente l’orgasmo vitale - e quello genitale in particolare - come un mito o un tabù, una vergogna o una mania ossessiva mentre, invece, esso non è altro che la semplice espressione armoniosa di una “dépense” vitale gioiosa, opera d’arte spontanea che ci permette di risentire l’unità nella differenza, l’identità nell’autonomia, la solidarietà in un egoismo comunista che solo in apparenza è un ossimoro perché esprime perfettamente, in modo dialettico, la critica radicale di tutti gli altruismi sadomasochisti imposti dalle diverse morali eteronome. Un tale egoismo rivoluzionario, collettivo e individuale nello stesso tempo, denuncia con disgusto tutti gli egoismi ristretti e meschini che l’ideologia economicista impone tanto nei suoi archetipi autoritari che nella sua modernità liberale.

La rivoluzione sociale bussa dunque alla nostra porta nel nome di una felicità per tutti e non in quello di un qualunque risentimento corporativo di ruolo o di genere (operaismo, femminismo, per esempio).

L’umanità dell’essere umano è infatti il dono che ognuno fa a se stesso per il piacere di tutti. Il dono che include tutti gli altri.

Come direbbe qualcuno: “L’umanità soggettiva si nutre di un sogno che deve soltanto arrivare alla coscienza per diventare realtà”.

Sergio Ghirardi, 25 Aprile 2011