sabato 28 maggio 2011

BENTORNATI RAGAZZE E RAGAZZI!



“Quel che rimprovero all’uguaglianza non è di spingere gli uomini alla ricerca dei piaceri proibiti, ma di assorbirli interamente nella ricerca dei godimenti permessi. Si corre, così, il rischio di lasciare che si stabilisca nel mondo una specie di materialismo onesto che non corromperebbe le anime ma le rammollirebbe finendo per scaricare impercettibilmente tutte le loro motivazioni”.

Traduzione dal francese di Alexis de Tocqueville, La democrazia in America.
(De la démocratie en Amérique (1840), Œuvres, tome 2, Paris, Gallimard, La Pléiade, 1992, p.646.)



Come i suoi guitti più gettonati, costretti dallo specchio delle loro sordide brame a rifarsi quotidianamente il trucco mostruoso del loro apparire, la società spettacolare mercantile non smette di ritoccare ossessivamente il suo apparato propagandistico coi ferri di un lifting ideologico che non fa che accentuare la mostruosità del suo invecchiamento ormai appariscente e ripetuto nel quotidiano urlo di Munch dell’uomo e della natura.

Nel delirio generale, è confortante, però, avvertire, diffusa nell’aria impestata della società dello spettacolo, la voglia sempre più collettiva di ridare significato a una vita individuale e sociale ridotta a sopravvivenza e sottoposta da tempo a un ricatto economico vampiresco.
Ovunque, dei giovani di ogni età, allevati fin dal biberon a credere che il lavoro renda liberi, sembrano cominciare a risorgere spontaneamente dall’ipnosi che li obbligava a perseguire un salario e ad arricchirsi di cose inutili e nocive anziché tendere alla felicità.
Incitati a guadagnare denaro al prezzo della propria vita confiscata e costretti a elemosinare le briciole di una ricchezza soltanto virtuale, molti giovani denunciano ormai la truffa che il “Gota” capitalista chiama spudoratamente crisi.
Sempre di più si fa largo la coscienza che non manca per niente la ricchezza ma che è inesistente la sua giusta distribuzione.

Eppure il tabù fondatore dello schiavismo moderno continua a funzionare come un riflesso condizionato.
Invece di pretendere almeno un salario minimo garantito per tutti, in attesa di rovesciare un sistema produttivistico che produce ricchezza astratta e miseria reale, delle processioni macabre scendono ancora in strada chiedendo spasmodicamente “lavoro, lavoro, lavoro!”.
In questa contraddizione, l’impasse che per mezzo secolo ha fatto del proletariato un fantasma che non spaventa più i suoi sfruttatori si conferma, ma annuncia, al contempo, che i tempi della coscienza e della rivolta stanno per tornare.
Dietro alla bandiera sciolta al vento dell’indignazione e oltre la rivendicazione rabbiosa e ambigua del diritto al lavoro, affiorano, infatti, potenti, i desideri di costituire una società solidale in cui faccia piacere vivere.
Tra le rughe incartapecorite di uno spettacolo invecchiato malissimo e intento a raschiare i fondi del barile, si sta rifacendo vivo il soggetto sempre giovane di un proletariato spasmodicamente in cerca di una coscienza perduta. Ritrovarla e rinnovarla, questo è quanto manca per fare di questo sogno rimosso una realtà concreta.

Un rigetto della corruzione su cui si fonda tutta l’economia mercantile affiora come un distinguo radicale dalle vecchie opposizioni politiche invischiate nella gestione della società produttivistica.
Nel vecchio mondo che avanza sulle stampelle dello sfruttamento e dell’alienazione, ci si veste di Adidas o Nike per fingere un’autonomia soggettiva inesistente, mentre si copre la miseria impotente di corpi umiliati da falsi bisogni che non sono mai stati desideri autentici.
Lo stesso avviene per le idee, catalogate tramite differenze ideologiche accomunate dal rispetto sacrale degli stessi dogmi economicisti.
Le arcaiche differenze ideologiche sono diventate ininfluenti quanto la marca che distingue merci assolutamente interscambiabili per valore d’uso ma personalizzate e rese uniche dal feticismo che le rappresenta e ne giustifica il prezzo stabilito al di fuori di ogni concreta logica di utilità.

Il dogma del PIL supera gli opposti schieramenti di una democrazia spettacolare, unendoli in un unico progetto di valorizzazione economica, ma sarebbe a dir poco frettoloso concluderne che lo spettacolo di destra e quello di sinistra sono assolutamente identici.
Laddove tutto deve sembrare in perpetuo mutamento per mettere in scena la magia nera necessaria a far sì che niente cambi mai dell’essenziale, il ruolo di chi incarna l’autorità lugubre e immutabile di un’ingiustizia ineluttabile e severa e quello di chi vuole addolcirne gli spigoli per farla penetrare più agevolmente e più a fondo, non è affatto identico.
Come confondere chi, per interesse, stabilisce cinicamente la pena e mette in esecuzione la crudele condanna di una vita confiscata dall’economia, con i secondini premurosi che vigilano sui detenuti e si occupano, alternando paternalismo e fermezza, di rinchiudere alle spalle di coloro che non hanno da vendere che la loro forza lavoro la porta che li separa dalla libertà?
Il tribunale della Storia saprà distinguere tra aguzzini e kapò, tra proprietari dei mezzi di produzione e decisionisti, tra picchiatori e demagoghi, ma non mancherà di accomunarli in un pubblico ludibrio da destra a sinistra e viceversa.

“Che se ne vadano tutti” è l’auspicio che riunisce in un unico sentire tutti i diversi movimenti che stanno scuotendo l’albero avvizzito del capitalismo planetario.
Una tale sollevazione auspica un cambiamento radicale di prospettiva nel ridefinirsi della questione sociale e non dobbiamo permettere a nessuno di recuperare ideologicamente un tale grido di rabbia, d’insofferenza e di dolore.
La sinistra è parte integrante del corpo sociale malato della società produttivistica perché non denuncia affatto la truffa ormai visibile di antiche sofferenze rimesse sul mercato della sopravvivenza sotto l’apparenza di nuovi piaceri.
Orfani di un’insostenibile ideologia rivoluzionaria, i vecchi oppositori scrupolosi di un capitalismo senza scrupoli difendono l’essenziale di quello che pretendono criticare perché sono ridotti a sottoscrivere un umanesimo capitalista fondato sul pessimismo interessato che esclude ogni superamento possibile della società spettacolare mercantile.

Rivendicare il lavoro anziché la distribuzione giusta delle ricchezze disponibili, significa fare dello sfruttamento subito un diritto rivendicato.
Quel che sarebbe stato impensabile al tempo di un proletariato ricco di una coscienza di classe, è diventato banale al tempo dello spettacolo che fa di ogni pecora il proprio cane.
Tra economia statalista ed economia di mercato, gli indignati hanno assoluto interesse a scegliere un’economia solidale. Ricollegandosi agli “arrabbiati” di un recente passato, tocca loro un compito prezioso da svolgere: approfondire il tema della transizione per tradurre in pratica sociale la loro riaffiorante sensibilità; riappropriarsi dell’utopia senza ridurla a chimera astratta, esplorandone, invece, nel presente, le possibilità concrete.
Questa voglia di rivoluzione che ritorna sarà tributaria soltanto della volontà di vivere dei suoi nuovi soggetti, giovani di tutte le età, refrattari alla violenza che il vecchio mondo senza scrupoli rovescerà su di loro per impedirne l’emergenza.
La terza via dialettica riappare, infatti, pacificamente sul cammino della storia da farsi, ma non potrà cullarsi nell’illusione pacifista senza finire nella pace dei cimiteri. Il pacifismo dovrà imparare a inventare le sue strategie di attacco perché il nemico è pronto a tutto, come il lupo di fronte all’agnello che beve, ignaro, a valle del predatore, l’acqua del fiume.

Si dovrà essere vigilanti di fronte alle inevitabili provocazioni: quelle militari, certo, ma anche quelle ideologiche perpetrate da falsi compagni di strada. Bisognerà allontanarsi dalla violenza - senza subirla, ma denunciandola - e ridicolizzare le cadute dialettiche dei falsi oppositori mondani che criticano il vecchio mondo nell’intento di salvarlo.
Molti falsi critici dell’ideologia si propongono, infatti, senza ridere, di tradurre nell’ossimoro di un’ideologia raddoppiata la loro ambigua impotenza a liberarsi dell’ideologia. Per un Cohn Bendit che ha inventato in politica il “liberalismo libertario”, ecco un Michel Onfray fondare nelle brume astratte della filosofia il “capitalismo libertario”. Entrambi tendono, coscienti o no, a mimetizzare la loro resa al sistema dominante dietro un aggettivo accattivante.
Nell’universo mondano dei servitori volontari, si consuma lo sgretolamento dell’etimo stesso della libertà, nel susseguirsi dei misfatti del capitalismo, sdoganato con uno spruzzo di anarchia formale al fine di tenere meglio sotto controllo la libertà imprigionata degli individui reali.
Da filosofi separati che sono, finora gli ideologi hanno interpretato il mondo, ora si tratta di cambiarlo per davvero e alla svelta, prima che sia troppo tardi.

Nessuna ideologia ci salverà dal crollo imminente del capitalismo ma solo l’alleanza ritrovata con una natura che sta declamando ad altissima voce i termini della contraddizione insormontabile della società produttivistica: non è possibile uno sfruttamento infinito di un mondo finito.
Non sarà dunque l’etica a salvare, eventualmente, la specie umana, ma il buon senso e il ritrovato uso dei sensi.
Quella voglia di felicità che ha abitato in filigrana tutti gli slanci rivoluzionari della specie umana sta tornando ad abitare, localmente e internazionalmente, i sogni concreti dell’eterna giovinezza di un’umanità senza età cui non resta che il meglio per opporsi in extremis al peggio che avanza minaccioso e oltraggioso.





Sergio Ghirardi





Qualche documento per la Storia a venire:
http://www.youtube.com/watch?v=Geg_6Xoy04s&feature=youtu.be
http://parallhlografos.wordpress.com/2011/05/26/25-%ce%bc%ce%ac%ce%b7-%ce%b4%ce%b9%ce%b1%ce%bc%ce%b1%cf%81%cf%84%cf%85%cf%81%ce%af%ce%b1-%ce%ba%ce%b1%ce%b9-%ce%bb%ce%b1%cf%8a%ce%ba%ce%ae-%cf%83%cf%85%ce%bd%ce%ad%ce%bb%ce%b5%cf%85%cf%83%ce%b7/