martedì 20 settembre 2011

Undici tesi sulla società dello spettacolo





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La critica è per ogni teoria l’unica verifica storica della sua qualità e mi chiedo se l’autore de La Società dello spettacolo non fosse più debordista di quanto sia stato marxista Marx quando affermava di non esserlo.
Probabilmente un po’ di più, suvvia, poiché il narcisismo assai poco autoironico del Panegirico con cui Guy Debord ha scritto la parola fine sulla sua generosa avventura di vita non conferma in maniera eclatante il trionfo dell’intelligenza sensibile sulla volontà di potenza. Ciononostante, quelli che hanno passato una vita a mangiare del Debord per sputarlo poi con una foga ben più passionale che appassionante, sono mal piazzati per declamare al mondo la vacuità dell’ex-maestro situazionista da loro reietto e la sua assoluta incompetenza.
Che coraggio, del resto, nel trattare ossessivamente da alcolizzato un morto che da vivo si stupiva del fatto che i suoi molteplici nemici non denunciassero con maggior risonanza il tasso alcolico delle sue pratiche!

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Lo spettacolo non è che l’involucro del redditizio, ma un involucro necessario alla gestione del potere sociale del feticismo della merce durante la fase del dominio reale del Capitale sul lavoro astratto e sui lavoratori concreti (disoccupati, spettatori e turisti inclusi beninteso).
Lo spettacolo è la religione profana di una materialità asservita al mercantilismo. Si presenta come una propaganda dell’esistente, ma la realtà non è tutta spettacolo e tutto lo spettacolo non è soltanto propaganda. Esso si deposita nella struttura caratteriale dei soggetti come una voluttà artificiale avvolta nel cellofan della sopravvivenza. Inquinando la creatività e i desideri reali dei soggetti, esso è capace di trasformare ogni potenzialità umana incompiuta in una disumanità riuscita.

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Unificando il coacervo dei desideri di godimento in un godimento fittizio, monomaniaco e redditizio, lo spettacolo svia la parte di perversione spontanea, giocosa e naturale trasmutandola in perversione guidata e coatta. Per il suo tramite si compie l’invasione intima e sociale del feticismo della merce.
Lo spettacolo è il rapporto sociale concreto risultante da un metodo scientifico di propaganda politica derivata per mimetismo dalla pubblicità della merce. Esso è la forma precisa della passività prodotta dalla propaganda del potere dominante all’epoca della materializzazione dell’ideologia.

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Quella servitù volontaria che La Boétie denunciava già qualche secolo fa come una manifestazione spontanea della stupidità superstiziosa di molti dei suoi contemporanei, aggredisce ormai tutti gli odierni sopravvissuti grazie a una pedagogia che lo spettacolo diffonde avvalendosi di mezzi tecnici praticamente illimitati.
Lo spettacolo è la propaganda dell’esistente in quanto volontà servile inculcata negli schiavi attraverso la rappresentazione di una felicità miserabile infiltrata per effrazione, essenzialmente mass-mediatica, nel loro universo immaginario. Una tale rappresentazione è la messa in scena ripetuta del superamento magico e illusorio della noia di sopravvivenza travestita da «dépense» edonista e manifestazione di potenza.
Il concetto di spettacolo risulta essenziale per capire la fase terminale del capitalismo, anche se quest’ultimo non ha certo atteso lo spettacolo per mettere in scena il suo grado radicale di sfruttamento e di alienazione.

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Il pensiero profano, descritto e definito come amore della conoscenza, è nato nel solco di una società mercantile alla quale la filosofia ha sempre dovuto mostrare un rispetto più o meno cosciente.
Ci si avvicina qui alla preistoria dello spettacolo, poiché la filosofia, ancilla theologiae, non si è mai interamente sottratta all’infiltrazione del pensiero religioso, universo dogmatico classico in cui affondano le radici dello spettacolo.

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Essendosi affermato attraverso la laicizzazione ideologica delle società mercantili, il capitalismo ha dovuto attendere la società dello spettacolo per osare presentare la sua essenza - la valorizzazione economica - come il dio grottesco di un’ultima religione.
La separazione del corpo e dello spirito che le religioni hanno sempre promesso di superare (re-ligo = riunisco quel che è separato) per meglio conservare, in realtà, il potere temporale derivato da questa separazione, domina il mondo da quando è apparso il lavoro, da quando il produttivismo è nato insieme alla proprietà privata e l’economia si è tramutata in economia politica.

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In seguito alla rivoluzione industriale e borghese, sotto la spinta di diritti dell’uomo che nascondevano assai maldestramente i diritti trionfanti della merce, il pensiero moderno osò attaccare l’arcaismo dell’alienazione religiosa senza preoccuparsi dell’inquietante conseguenza che si finiva in tal modo per favorire lo sviluppo dell’alienazione economica.
Il pensiero dialettico aprì una breccia importante nella continuità storica del potere dell’alienazione sociale, tuttavia, essendo il capitalismo assolutamente onnivoro, né Hegel né Marx hanno potuto sfuggire totalmente ai recuperi e ai danni provocati da questo modo di produzione cannibale.
Tutto quel che è reale è razionale, ma tutto quel che è razionale non è, invece, sempre reale. Questo è il limite insuperabile di ogni idealismo. Questo è anche lo zoccolo duro che unisce tutti coloro che s’impegnano per rimettere l’uomo sui propri piedi affinché possa finalmente godere di essere al mondo come desidera e merita.
Purtroppo il materialismo non ha mai saputo essere abbastanza storico e sufficientemente dialettico per non produrre anch’esso una struttura caratteriale autoritaria e fascista.
Una tale corazza orgasticamente ingorgata ha educato i cittadini di un popolo spettacolarmente sovrano alla rimozione sistematica, contribuendo all’avvento della società dello spettacolo, fase terminale dell’alienazione di un’epoca marcata dal trionfo degradante di un modo di produzione autonomizzatosi dall’uomo che l’ha creato.

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In nome del comunismo, lo spettacolo ha fatto irruzione - in modo concentrato - nell’immaginario confiscato dei militanti stakanovisti di un capitalismo di Stato falsamente opposto alla società mercantile, a sua volta in via di spettacolarizzazione diffusa.
L’opposizione d’ideologie fasciste nere, brune o rosse, conflittuali e becere ma omogenee e funzionali alla società produttivista, ha costituito il brodo di coltura da cui è scaturita la società dello spettacolo. Questa si è presentata come un progresso collettivo e come l’incarnazione di una speranza umanitaria oltre e contro tutti gli orrori vissuti. Questa speranza spettacolare si è fatta carico di tutta la volontà di emancipazione riducendola a un meccanismo redditizio in un momento in cui la materialità dei bisogni accumulati rendeva i desideri particolarmente ottusi e primari. Cancellando la complessità creativa di esseri veramente liberi e facendo leva sul trauma di uomini appena restituiti a un minimo vitale di sopravvivenza, la società dello spettacolo ha fatto di una libertà da schiavi la sua insegna pubblicitaria. Non è certo un caso se la nuova Costituzione di un paese che stava appunto uscendo dall’incubo fascista, come l’Italia del 1946, ha scelto come suo fondamento rivendicato e consensualmente proclamato : “L’Italia è una repubblica fondata sul lavoro”. Un anno prima, gli internati di Auschwitz erano ancora accolti al loro arrivo dall’orribile spot pubblicitario inneggiante al lavoro che rende liberi!

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La società dello spettacolo secerne senza sosta e senza scrupoli tra i fattori ideologici quelli che privilegiano sempre la redditività e l’addomesticamento che la favorisce. Essa non include certamente tutto il mondo reale, ma rappresenta la materialità virtuale di un dominio reale del Capitale sugli esseri umani della nostra epoca infelice.
Da quando lo spettacolo ha realizzato l’amalgama delle sue due forme originarie (spettacolo concentrato e spettacolo diffuso) nella sintesi planetaria di un unico spettacolo integrato, i computers e altre diavolerie nanotecnologiche non hanno fatto altro che registrare questa integrazione, regolando a posteriori una virtualità dell’umano (la sua obsolescenza) intrinseca alla società dei consumi sorta come una weltanschauung (o come uno spot pubblicitario, se si preferisce) dalle rovine divenute radioattive della seconda guerra mondiale.

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La colonizzazione dell’immaginario da parte dello spettacolo è oggi lo stadio finale dell’imperialismo della merce e della diffusione capillare del suo feticismo. Il territorio psicogeografico dell’individuo sociale è l’ultima terra incognita in via di colonizzazione da parte del capitalismo planetario. La realizzazione di quest’ultima colonizzazione redditizia si mostra come il compito specifico dello spettacolo.
Su questo territorio si giocano e si giocheranno le battaglie decisive per l’emancipazione dell’uomo o per la sua definitiva sparizione in quanto essere umano.
La produzione di falsa coscienza delegata da mezzo secolo ai pedagoghi spettacolari (ognuno nel suo ruolo mercenario, filosofi, giornalisti, sociologi, psicologi, spin doctors, militari, burocrati, gendarmi, giudici, guru, stars del show-business, sportivi e terroristi veri o presunti, sono tutti invischiati nel reality show quotidiano patetico e perverso dove imperversano quei mendicanti del potere che sono gli uomini politici, sinistre alternative incluse) ha per obiettivo di cortocircuitare ogni autonomia di giudizio e d’azione degli individui sociali all’interno di un mondo reale in cui la coscienza soggettiva è manipolata e filtrata senza interruzione.

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Ci stiamo avvicinando sempre più all’inondazione o all’ineluttabile «incidente» nucleare che spazzerà via la vita al suo passaggio, come uno tsunami. E come uno tsunami della coscienza, la realtà non spettacolare, orgastica e solidale degli esseri umani rischia di riapparire in una lotta finale per rovesciare la prospettiva del mondo.
Non è che una scommessa, magari folle, del resto, agli occhi di coloro che, innumerevoli e maggioritari, hanno come unica rigida follia la normalità contemplativa e il consumo vampiresco della propria vita assente. Una scommessa vitale, però, perché non abbiamo più la scelta né il tempo per dei compromessi opportunistici o per riformismi redditizi, ora che anche la natura si è messa a scandire degli ultimatum indiscutibili.
Le maggioranze silenziose sono destinate a urlare di dolore e di rabbia sotto la frusta dei loro guardiani, mentre una democrazia ancora tutta da inventare passerà attraverso l’azione di minoranze coscienti della fine di una civiltà.
L’emancipazione dei lavoratori del proletariato assoluto che sopravvive nell’universo concentrazionario della società spettacolare mercantile non può più farsi illusioni. L’umanità incompiuta dell’uomo non ha che da perdere le proprie catene spettacolari per reinventare un mondo di godimenti diversi e soprattutto poetici perché materiali e spirituali nello stesso tempo. Una tale costruzione sarà l’opera dei lavoratori stessi, sbarazzati di ogni coscienza portata dall’esterno, di ogni avanguardia parassitaria e di ogni illusione di perfezione e di eternità; oppure non sarà e lo spettacolo scriverà la parola fine su un campo di rovine. Non abbiamo più scelta: ci siamo finora ridotti a spettatori del crollo di un mondo. Per sopravvivergli dobbiamo ormai diventare gli attori dell’abrogazione del mondo dello spettacolo e di tutti i suoi cortigiani.


Sergio Ghirardi, 20 settembre 2011