sabato 29 ottobre 2011

Da Genova, destinazione Nuovo Mondo 14) - P. Ranieri

ILLUSIONI RIGUARDO ALLO SPAZIO E AL TEMPO


«Tutto lo spazio è già occupato dal nemico... Il momento di apparizione dell'urbanismo autentico consisterà nel creare, in certe zone, il vuoto da questa occupazione. Quello che noi chiamiamo costruzione comincia lì. Può essere compreso con l'ausilio del concetto di buco positivo forgiato dalla fisica moderna.»

(Programma elementare di urbanismo unitario,
Internazionale Situazionista #6)

Kafka appariva sempre stupefatto quando gli dicevo che ero andato al cinema. Una volta vedendolo mutar faccia gli rivolsi questa domanda: "Lei non ama il cinema?" Kafka rispose dopo breve riflessione: "A dire il vero, non ci ho mai pensato. Si tratta di un giocattolo grandioso, ma io non lo tollero, forse perché sono troppo visivo. Io vivo con gli occhi, e il cinema impedisce di guardare. La velocità dei movimenti e il rapido mutare delle immagini ci costringono continuamente a passar oltre. Lo sguardo non si impadronisce delle immagini, ma queste si impadroniscono dello sguardo, e allagano la coscienza. Il cinema mette l'uniforme all'occhio che finora era svestito." "E' un'affermazione terribile" osservai. "L'occhio è la finestra dell'anima, dice un proverbio ceco."

Kafka annuì. "I film sono persiane di ferro." (Gustav Janouc, Colloqui con Kafka)

“Molta gente potrebbe aver scoperto a Genova un modo significativo di riappropriarsi degli spazi urbani, generalmente destinati alla mortificazione globale...”

(Alfredo Passadore)

Se il potere del mercato e' una forma di potere complesso che comprende a un tempo tecniche di individuazione e procedure totalizzanti,per Ilardi la " libertà e' godere il tempo presente senza guardare ad altro all'infuori di esso.

Il sogno degli ideologi -scrive Ilardi - e' di rinchiudere la libertà entro uno spazio sociale e simbolico.

Ma il tentativo di rinchiuderla s'infrange ripetutamente contro le pratiche della libertà negativa che si dispiegano sul territorio metropolitano.

(Dalla presentazione del libro di Massimo Ilardi - In nome della strada - Libertà e violenza

nell'incontro di almeno due grandi ristrutturazioni: quella della espressività della partecipazione personale (si sono praticamente dissolte le organizzazioni della voce, del canto, dei cori a favore dell'uso dei cellulari che invece di dare espressività alla folla creano circuiti di espressività all'interno della folla) e quella della gestione della retorica sindacale.

Technologies of Perception and the Cultures of Globalization di Arwind Rajgopal (Social Text n°68): "sia le imprese che i partiti politici cercano di centrare le persone piuttosto che le masse, accrescendo una nuova intimità referenziale rinforzata da sensuali evocazioni di immagini nella sfera pubblica che ovattano e diffondendo le forme dell'autorità' patriarcale e rielaborano le vecchie distinzioni tra pubblico e privato".

non che precedentemente mancasse il rapporto tra potere ed intimità del singolo solo che oggi, dissoltasi quest'organizzazione politica tipica delle società disciplinari, questo rapporto e' affidato alle tecnologie nuove o ristrutturate della comunicazione

Da: mcsilvan Lista Movimento

Data: venerdì 29 marzo 2002 22.35

composto e rivisto in treno, primavera 2002

L'orologio è lo stereotipo fatto realtà

(Meyrink, L'orologiaio)

Mi viene in mente un brano di Primo Levi che, raccontando del lager nazista, ricordava di un particolare tormento psichico, costituito dalla combinazione fra il gesto automatico di guardare l'ora e il numero tatuato proprio al posto dell'orologio, sul polso sinistro: un continuo rammentarsi della propria condizione. Mi sono chiesto che effetto gli avrà fatto, negli anni successivi, una volta reindossata la manetta cronografica, guardarsi il tatuaggio.

Volin – Lista Libertari

RAPPRESENTAZIONE DI UN CONFLITTO:

CIAK, SI FILMA!

Nell’epoca della realizzazione della separazione, della separazione compiuta dell’uomo dalla vita e della conseguente perdita del senso dell’esistenza stessa, l’immagine funge da schermo protettivo rispetto all’agghiacciante realtà.

Foto, filmati e documenti visivi riempiono la testa e le mani non più solo di birri e magistrati ma anche, se non di più, degli attori nella scenografia delle manifestazioni del falso dissenso.

Già si è detto e ripetuto, peraltro inutilmente, quanto l’uso nei cortei della macchina fotografica e delle sue consorelle tecnologicamente più avanzate sia una pericolosa arma boomerang utile per la repressione; viene la nausea a doverci tornare sopra. Non si comprende perché si debba collaborare a raccogliere materiale utilizzabile per autoimbrigliarci nella strangolante rete delle maglie dei procedimenti giudiziari. Una foto fa da prova, e non c’è bisogno d’altro. La pratica irresponsabile della raccolta ossessiva di immagini diviene collaborazionismo, e proprio da parte di chi pretende di manifestare dissenso.

Ora non ci si venga a raccontare che le riprese vengono effettuate per incastrare gli sbirri quando esagerano nell’adempimento del loro empio dovere, davvero si pensa che possa bastare una immagine per portare alla galera un poliziotto? e poi soprattutto è nostro compito rivoluzionario fare le veci di un magistrato o i portavoce di chi è assetato di giustizia giudiziaria? quale passo avremo mai fatto in avanti una volta affidata la nostra libertà nelle mani di un magistrato, di un politico o di una nuova, e non se ne sente proprio il bisogno, legge?

Nella gara per la raccolta e diffusione di immagini si finisce poi per rivaleggiare con l’altra bella categoria, quella dei giornalisti.

La frenesia di comunicare l’evento prende il sopravvento sull’evento stesso, tanto che non è necessario nemmeno più che accada, basta che venga simulato per quei pochi istanti richiesti e dettati dai tempi televisivi. Questa smania del giorno dopo sui giornali, o meglio del giorno stesso sui TG ha preso talmente la mano da far perdere l’esserci e il fare nel momento poiché si è già proiettati verso l’immagine da proiettare.

Da questo vortice risucchiante si pensa di uscirne con le autoproduzioni da far girare nei circuiti presunti antagonisti dei centri sociali. Quale modo più semplice per dare ampiezza e risonanza ad un movimento nato morto di quello di farlo vivere internandolo nel neomoderno carcere mediatico?

Sciocchi imitatori, quali schemi rompono, che cosa portano di dirompente se non la loro rappresentazione autocelebrativa? “Contro la guerra dei potenti ora e sempre disobbedienti!” Ah… beh!

Con obiettivi che si intrecciano in un tripudio di scatti incrociati, come a costruire il set di una stanza degli specchi in cui le immagini, di cui godere narcisisticamente, rimbalzano dall’uno all’altro. In un gioco di infiniti rimandi, si allarga a piacimento la situazione fino ad alludere a uno spettacolo per forti emozioni. In scena va la tensione di una guerriglia urbana che pare sempre sul punto di esplodere… ma quel momento non verrà mai.

Basta l’accenno: un casco in testa, il volto coperto, qualche fumogeno e lo spazio predisposto per la finta ritirata. Tutti gli attori in campo conoscono bene il copione ma le comparse inconsapevoli rimangono lì con la loro rabbia in gola, ignare di ciò che realmente è accaduto, assediate, chiuse dai due lati da sbirri e bravi.

L’azione è falsa e l’impotenza cresce.

Le mani morbosamente afferrano lo strumento di ripresa, non c’è ora modo di utilizzarle per altri scopi. La mente occupata dall’ansia di carpire l’attimo che al meglio esprima lo spettacolo. Gli occhi fissi nell’obiettivo ed ecco che la separazione dal vivere e dal concentrarsi su ciò che si sta facendo si concretizza nell’essere assenti nel momento in cui occorrerebbe essere presenti.

Con questo corpo in tutte le sue parti appesantito da protesi tecnologiche che cosa si vuol manifestare? contro chi si vuole andare? come si può pretendere di cacciare dai cortei poliziotti mascherati da umani e giornalisti avvoltoi quando non si riesce a vedere la differenza tra loro e gli altri?

È uno scontro tra telecamere quello che ammorba le coscienze ed i coglioni.

Allora la repressione non è solo quella che viene dai fantocci in divisa o dalle prove incautamente raccolte per loro, ma anche quella che dall’interno si produce. L’istinto ricondotto a ragione, imbrigliato e annientato dall’ideologia dell’immagine, impedisce il realizzarsi dell’atto autentico della rivolta.

L’immagine svuota l’azione mentre il feticcio succhia il sangue dell’uomo.

Mentre si stava completando la stesura di queste osservazioni è arrivata notizia di alcuni provvedimenti pesantemente restrittivi contro quattro compagni relativi ai fatti accaduti a Ferrara il 22 febbraio scorso. In occasione di una manifestazione contro la guerra e contro la preparazione di alloggi per militari NATO in quella città, si sono verificati atti di “salute pubblica” da cui alcuni zelanti servitori dell’ordine democratico sono usciti piuttosto malconci nonché alleggeriti di una telecamera di servizio.

Scrive Benjamin (“L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica”, nota 32) che “alla riproduzione in massa è particolarmente propizia la riproduzione di masse. Nei grandi cortei, nelle adunate oceaniche, nelle manifestazioni a carattere sportivo, nella guerra – che vengono tutte registrate oggi dagli apparecchi di ripresa – la massa vede in volto sé stessa.” Ma, nota Rocco Ronchi, “la psicologia delle masse diverge da quella individuale perché le folle, a differenza dei singoli, non smettono mai di sognare.”La massa deve dunque vedere nel proprio volto un sogno passivo: se, per qualche ragione, questa passività è incrinata, lo specchio moltiplica la fine della passività

Grazie al’impiego da parte dei dimostranti, non solo di un numero sterminato di mezzi di riproduzione audio e video, ma di telefoni cellulari, chi era presente, ha vissuto la sensazione innaturale di « trovarsi dappertutto », chi era lontano ha potuto contrastare l’ipnosi maligna dei media asserviti. Ma essere dappertutto è pericolosamente contiguo al non trovarsi davvero in alcun luogo; e vedere tutto in diretta crea l’illusione perniciosa di essere presente, mentre non esiste vera presenza senza azione e interazione, che a loro volta non sono possibili dove il corpo non è materialmente chiamato in gioco. Per le medesime ragioni per cui chi non era in piazza a Genova finisce per sentirsi come se ci fosse stato, chi c’era finisce per scoprire il senso della propria esperienza non nella memoria unica del direttamente vissuto ma nella memoria collettiva delle ricostruzioni filmate e scritte

Questi strumenti, che si vanno affermando come vere e proprie protesi che modificano le capacità del singolo, trasmutandone la percezione dello spazio e del tempo, rendono visibile in tempo reale la manifestazione non solo al mondo ma a sé stessa, suggerendo una mutazione profondissima del modo di stare nel mondo, che travalica la presente fase del conflitto e si proietta minacciosamente nel futuro. Una forza, senza dubbio, ma anche un addio forse definitivo - a un modo di vivere la libertà, « senza orario senza bandiera ».

Potranno i compagni che si davano appuntamento col telefonino da una piazza all’altra fra il fumo degli incendi e la pioggia di lacrimogeni, affermare, come Bakunin ebbe a scrivere della Parigi del Quarantotto, che Genova « fu una festa senza principio e senza fine » ? Negli anni sessanta Gill Scott Heron cantava “The Revolution will not be televised"(la rivoluzione non la vedremo alla televisione).

Ritmato dallo squillo dei cellulari, filmato in una perenne autopsia in tempo reale, il tempo cui siamo oggi condannati è quello di un’antideriva, su cui il lavoro e il consumo, anni – se presi soggettivamente – secoli – se guardati come specie, di lavoro e di consumo hanno lasciato la loro labile ma incancellabile impronta. Che emerge mostruosa, proprio allorché, per una volta, non c’è né lavoro da erogare, né merci da consumare. Si vede infine che oggetto del lavoro e oggetto del consumo siamo noi stessi. E che sollevare il coperchio della rivolta non è il traguardo di un percorso di liberazione, ma piuttosto un primo sguardo gettato su un percorso tutto ancora da inventare, una semplice occhiata gettata sull’immensità del progetto del nostro partito, quello della vita autentica.

Se una sconfitta riportiamo da quei giorni, è stata proprio il tempo ad infliggercela, indicandoci un futuro di appuntamenti e di orologi, fin dentro il cuore della sovversione.

Se non siamo stati capaci di signoreggiare il tempo che pure avevamo strappato alla ripetitività del lavoro e del consumo, non molto meglio è andata con lo spazio. La sensazione, forse difficile da credere per chi ha seguito da lontano i fatti, montati sapientemente secondo criteri spettacolari, ma percepita da tantissimi dei presenti, nei lunghi momenti di libertà conquistata, in quartieri dove ogni controllo, ogni potere statale erano stati estromessi e temporaneamente cancellati, è stata la noia.

La libertà negativa conquistata con le barricate e le controcariche, la libertà dall’oppressione, faticava – dopo qualche modesto e ripetitivo vandalismo – a convertirsi in libertà positiva, libertà di creare, di agire, di godere. Quelli che straparlano di riappropriazione del valore d’uso, non hanno evidentemente mai sperimentato quanto siano inutilizzabili, sostanzialmente improprie a qualsiasi uso, le merci di cui siamo circondati. Una poltroncina da bancario per riposare in mezzo al corso, un tubo dell’acqua tagliato per dissetarsi, qualche bottiglia di liquore per scambiarsi un segno di pace, e poi?

Riprendendo le parole famose di Vaneigem, ci eravamo conquistati il letto sontuoso di una rivoluzione, ma non abbiamo saputo donarcelo gli uni con le altre per farci l’amore. La libertà positiva, la capacità di vivere senza tempi morti realmente e non solo potenzialmente rimane ancora da ricomporre, giorno dopo giorno, in relazioni che Genova ha fatto solo balenare, intravedere, reclamare.

Le distruzioni operate nel levante genovese il 20 e il 21 luglio hanno dimostrato che la libertà di distruggere è desiderabile solo se ha la capacità di presentarsi insieme con la libertà di creare, di costruire, di inventare.

Ancor più prigionieri dei meccanismi obbligati dello spazio e del tempo prigioniero, sono apparsi tutti coloro – tanti nel corteo di anarchici e sindacalisti del 20, (molti dei quali erano a tal punto rigorosamente intenzionati a non mischiarsi con i riformisti e i modernisti delle piazze tematiche, da lasciarsi richiamare verso le località di provenienza, come da un invisibile elastico, anche dopo l’aggressione subita dalla celere, lungo via Cantore, e la notizia della battaglia in corso a Levante e dell’uccisione di un compagno – anzi, in quel momento si parlava di due) innumerevoli in quello del 21 – erano venuti a Genova così come si va a un corteo sindacale autorizzato, con i pullman speciali, i gonfaloni dei comuni, gli orari stabiliti, il cestino dei panini, i punti di raduno rigorosamente predeterminati.

A metà del pomeriggio di sabato, mentre impazzava la violenza di migliaia di celerini e appariva attuale la questione di salvare letteralmente la vita, essi parevano più di ogni cosa devastati dall’ansia di non ritrovare il loro pullman, come il protagonista della « Coscienza di Zeno », che nello scoppio della guerra mondiale distingueva soltanto l’impossibilità di raggiungere il proprio caffellatte. Una vittima poco rimpianta di Genova è senza alcun dubbio questo modo di fare politica, rituale podistico, consolatorio. E molto del livore profondo, non quello artificiale programmato a tavolino dai falsificatori professionali, verso i vandali in nero deriva dalla percezione, indubitabilmente fondata, che l’azione diretta è nemica prima di tutto di questa maniera di militare, che, come in certe foto eloquenti di quei giorni, dietro il sorriso ebete, il ballonzolare fra artisti di strada, bellaciao, comizi e salamine, cappellini e magliette e pagheretecaropagherettutto, si leva il fuoco dell’apocalisse.

Come non è risultata facile la comunicazione fra i presenti, ancor più serio è il problema degli assenti. Nonostante la scelta di aprire la contestazione al G8, con un corteo di migranti, non solo questi erano pochissimi giovedì, e praticamente invisibili erano i pur numerosissimi immigrati residenti a Genova, minacciati vergognosamente da tutte le mille polizie di questo paese svergognato, ma sono stati praticamente assenti venerdì e sabato, fatta esclusione per un nutrito e coraggiosissimo drappello di partigiani curdi. Tuttora, e questa critica era già stata mossa ai BB negli Stati Uniti, la violenza dei giovani casseur delle periferie multietniche fatica a legarsi con quella – per tanti aspetti similare – dei loro coetanei dei gruppi d’affinità in azione a Genova e altrove. Questo innesco non facile, una volta conseguito, potrebbe rivelarsi foriero di infiniti mali per la sottile crosta di pace sociale in cui si cerca di mantenerci. Un valido ponte fra questi differenti approcci all’insopportabile pesantezza del non-essere, paiono edificarlo, in Italia e fuori, vari gruppi di ultras del calcio, parecchi dei quali presenti addirittura ufficialmente a Genova, molti comunque impegnati in una pratica di indagine della propria condizione (Oggi gli ultras, domani tutti quanti). In ogni caso a Ginevra, nel 2003, le varie anime della sommossa appaiono molto più saldate e solidali: a riprova anche di ciò che si era da un pezzo subodorato, che l’eredità della cosiddetta, e mai abbastanza vituperata, “ anomalia italiana” costituisce una pesante palla al piede per la parte italiana del movimento, disseminata com’è dei cascami di cento ideologie e di mille sconfitte. Non a caso fra i vari leaderini dei social forum, e delle altre anime no global troviamo un sacco di riciclati della lotta armata, riemersi dal pentimento, dalle varie dissociazioni, dalle mille delazioni per affondare una< volta di più speranze e passioni

Un altro aspetto che impone una profonda ridefinizione del modo di pensare non solo il presente sovversivo ma anche il futuro, è il ruolo crescente della tecnologia, non solo da parte del nemico, ma anche da parte nostra. Da una parte, mai una manifestazione di tali dimensioni aveva veduto in passato un bilancio così sbilanciato di morti e feriti fra i due contendenti (dopo le prime panzane sugli accoltellamenti, il governo ha dovuto ammettere che, già una settimana dopo i fatti, nessun poliziotto recava segni visibili dei colpi subiti), bilancio totalmente negativo che non può richiamare quelli analoghi delle precedenti guerre imperiali, nelle quali i “servitori della legge” riportano appena qualche graffio, e ci si premura di sottolineare che anche quello è dovuto a qualche errore tecnico, a qualche svista. Ai nemici della legge viene negata la possibilità di reagire visibilmente, salvo che nelle maniere preconfezionate di stampo terroristico. Da una parte è evidente la difficoltà di “far male” utilizzando gli strumenti a disposizione in strada, a disposizione di chiunque, senza ricorrere allo specialista o al kamikaze; d’altra parte è chiaro che ormai nessuna informazione proveniente dalle autorità è neutra, ogni singolo messaggio è il prodotto di un disegno consapevole (anche se spesso malcombinato e poco professionale) di costruzione di una pseudorealtà. Nello specifico, è essenziale che la violenza appaia sterile e velleitaria, impotente e isterica, infantile, futile. In questo modo anche la violenza dei ribelli viene reintegrata nel disegno di falsificazione sociale che prevede i singoli come dei perpetui minorenni rispetto alla maturità sociale che lo stato incarna. Se ai rivoltosi del Sessantotto si rimproverava la giovane età, promettendo e minacciando loro “crescerete anche voi”, oggi si afferma senz’altro che la condizione di immaturità è dimostrata dalla ribellione stessa e sarebbe costitutiva di ogni individuo “non adattato”, qualsiasi sia la sua età anagrafica. La maturità viene così fatta coincidere univocamente con l’alienazione civica, con la riduzione dell’individuo in elettore, in consumatore, in cittadino. La compiutezza cui il concetto di maturità allude viene identificata con il prosciugamento mortifero di ogni segno di vita autonoma