giovedì 26 aprile 2012

LE TRAPPOLE del 25 Aprile e del 1° maggio


 Il nostro 25 aprile di Paolo Flores d'Arcais | 25 aprile 2012

L’antifascismo non è un optional. La convivenza civile si basa sulle leggi, le leggi sulla Costituzione, la Costituzione solo su un fatto storico che la legittima e che regge dunque l’intero ordinamento. Per l’Italia democratica questo fatto si chiama Resistenza antifascista. Se viene meno il riconoscimento della Resistenza crolla l’intero castello di legittimità. Per questo il 25 aprile è festa nazionale: perché l’identità dell’Italia democratica, della nostra Patria, ha il suo ultimo fondamento nella vittoria della Resistenza antifascista, nella frase “Aldo dice 26×1”, con cui il Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia dà l’ordine dell’insurrezione generale e i partigiani liberano le grandi città del nord da nazisti e fascisti prima dell’arrivo delle truppe alleate.
Patriottismo costituzionale e antifascismo fanno dunque tutt’uno. I funzionari pubblici che giurano sulla Costituzione compiono spergiuro ogni volta che non sono coerenti con i valori della Resistenza. E anche il semplice a-fascismo segnala drastica indigenza di patriottismo. Chi non è antifascista non è un autentico italiano. Chi poi è anti-antifascista è semplicemente un nemico della Patria.
Oggi purtroppo l’antifascismo è in minoranza, maggioritaria è la morta gora dell’indifferenza. I giovani nulla sanno dell’epopea della Resistenza a cui devono la libertà di cui godono. Colpa delle generazioni che avrebbero dovuto educarli, di un establishment che ha seppellito l’antifascismo nella retorica di celebrazioni bolse ed ipocrite, o peggio.
I governi democristiani, da perfetti sepolcri imbiancati, commemoravano il 25 aprile mentre trescavano con ogni risma di neofascisti e rottami repubblichini. Il regime berlusconiano ha voluto azzerare ogni memoria antifascista, portando “risma e rottami” al governo, in un progetto coerente di sovversione della Costituzione. La nostra convivenza civile poggia oggi sul vuoto. Ricostruire quel supremo “bene comune” che è l’identità della Patria repubblicana è perciò un compito morale, culturale e politico prioritario e di lunga lena. Che deve bandire la retorica, restituire ai giovani l’epos di rivolta che è stata la Resistenza e sopratutto la sua attualità in ogni lotta odierna per “giustizia e libertà”.

Commento di Sergio Ghirardi :

Ho difficolta a posizionarmi di fronte a questo articolo di cui condivido lo spirito ma non l'antiretorica.
Mio padre fu di Giustizia e libertà. Alla sua morte  abbiamo ritrovato il suo fazzoletto tricolore e un tesserino probabilmente postbellico di appartenenza, una specie di carta d'identità resistenziale. Era stata la sua giovinezza e la sua fierezza di cui non ha mai fatto commercio. Sono dunque stato nutrito fin dalla culla dalle canzoni della resistenza che il mio vecchio usava come ninne nanne. Fischia il vento, e la versione ligure e partigiana di una famosa canzone alpina che faceva...Sui monti di Valtrebbia c'è il partigiano che marcia alla riscossa col suo Bisagno... Compagno di banco di Walter Fillack al liceo prima che questi ne fosse espulso e di Giacomo Buranello all'università, per fortuna non è finito come loro se no non sarei qui.
Preciso questo background a cui resto affettivamente legato, per non essere frainteso nella mia reticenza di fronte a ogni sacralizzazione foriera di servitù volontaria e di nuovi signori dominanti.
Per chi come me si rivendica cittadino del mondo, parlare di patria antifascista non può confondersi con uno Stato, semmai con una nazione senza frontiere.
Il maggio sessantotto, questa resistenza finalmente gioiosa in nome della vita e del rifiuto del lavoro salariato non aveva un'anima nazionale e questa è stata la forza che rende ancor oggi quegli avvenimenti una realtà storica che la società dominante non riesce a integrare e continua a falsare, recuperare, esorcizzare nella speranza di farli dimenticare e dimenticare soprattutto l'esigenza di un'insurrezione gioiosa della specie in nome della felicità. Neppure questo è un optional e i suoi fragili segni risorgenti sono la sola nota lieta di questo macabro presente.
Sono ancora colpito, quarant'anni dopo il "joli mai", dall'orgia di interpretazioni ideologiche, false e riduttive, portate sia da chi se n'è appropriato che da chi lo osteggia ancora. I servitori volontari più volgari ne parlano ormai come qualcosa di sepolto nel cimitero della storia perché temono ancora, senza saperlo chiaramente, l'essenziale di quello spettro che rode in Europa e nel mondo e che resterà vivo e testardo finché non tramonterà la volonta di vivere degli esseri umani.
Il maggio è stato, per un momento, la continuità pratica e il superamento teorico della resistenza del periodo bellico, ma la società dello spettacolo è riuscita a ridurlo a tutto e al contrario di tutto nelle teste di lavoratori e intellettuali ridotti a risalire sempre alla vecchia resistenza per ritrovare una parvenza di valori sostenibili.
Il maggio ha desacralizzato la sua propria resistenza al capitalismo proponendo di seppellire il vecchio mondo con una risata mentre l'anti retorica che riporta ogni resistenza alla resistenza contro il fascismo arcaico permette al fascismo caratteriale di rinnovarsi costantemente e impunemente.
Le Santanché, i Sallusti e gli Alemanno, insieme ai resti di squadristi mediatici e non che bazzicano ancora tra la politica e la vita quotidiana (hooligans, militanti neri, razzisti, integralisti, picchiatori e nazisti vari) sono solo mostruosi - e puntualmente pericolosi - specchietti per le allodole che il fascismo in profondo divenire ha usato e usa per banalizzarsi e infiltrarsi nelle istituzioni antifasciste. Se Tambroni fu un tentativo prematuro, la Lega, grazie alla mafiosità dilagante nelle istituzioni,  ne è stato un esempio concreto di franco successo che oggi, in maniera meno paesana e dunque più pericolosa, riprende Marine Le Pen. La quale ha commentato il suo trionfo elettorale evocando perversamente sulle sue barricate elettorali quelle del maggio francese. La Giovanna d’Arco dei talk show ha così poco innocentemente concluso: “Ce n’est qu’un début, continuons le combat”.
Nessun fascista ormai si rivendica di un passato invendibile e pochi ammettono di esserlo, tra negazionismo e pellegrinaggi in Israele. Il fenomeno francese di Marine Le Pen che ha femministizzato la barbarie del padre trovando consenso e accettazione, pur se ancora misti a sinistra di un disgusto di facciata, indica la via che la banalità del male prende nello spettacolo per sembrare ancora più banale e portare i germi di un male sempre più profondo perché greffato nel comportamento quotidiano degli individui.
Il fascismo avanza ormai drappeggiato nei valori democratici perché la democrazia non esiste. I vecchi dittatori hanno lasciato il posto a beceri burocrati, magari in gonnella per non lasciare fuori dalle adunate oceaniche di consumatori frustrati e impoveriti l'altra metà del cielo.
Nessuna costituzione potrà difendere una volontà di vivere svenduta in saldo sul mercato del lavoro che non c'è più.
Dovunque, contro il fascismo che sale ci vuole una " costituzione " davvero nuova che osi avere come primo articolo: L’Italia (la Francia, la Grecia o il Perù...ecc.) è una nazione fondata sulla solidarietà e quindi (finché esiste il denaro) su un salario di esistenza cui ogni cittadino ha diritto indipendentemente dal lavoro che può svolgere in più se lo vuole.
La costituzione italiana invece è all'immagine del presidente che ne è il garante: vecchia, incartapecorita, statalista e insufficiente a garantire dei valori che il nemico totalitario ha ormai aggirato.
Si può resistere sui simboli, come l'articolo 18, ma il vero problema è che il capitalismo ha fatto prima e al contrario quello che avremmo voluto e dovuto fare noi al dritto.

Invece di smettere di lavorare per inventare un altro mondo possibile, ci siamo così ritrovati a subire il ricatto di un lavoro assente e totalmente manipolabile dai proprietari dei mezzi di produzione; un lavoro che il capitalismo ha eliminato delocalizzandolo. Questa combine ormai planetaria ha il grande pregio di far durare il vecchio mondo impossibile da vivere per quegli esseri umani che il capitalismo amerebbe abolire ma di cui ha bisogno.
Certo, oggi c'è poco da ridere, con la CRISI come progetto strutturale del capitalismo finanziario e bancario, una politica ridotta a corrutela, il fascismo banalizzato come un male folclorico, Petain che riappare in Sarkozy e le sinistre che nascondono dietro le ultime bandiere rosse sbiadite e sgualcite, il loro becero liberalismo d'accatto o un irreale bolscevismo da zombi.
Quando l'antifascismo si riduce a fondamento di una sacralità, si rischia di dar ragione alla provocazione di Bordiga - “l’antifascismo è il peggior prodotto del fascismo” -, ponendo un limite al processo di emancipazione sociale di cui l'antifascismo è stato una piccola pur se importante parte.
Ritornare ora all'antifascismo per difendersi dal putridume mafioso dei repubblichini che riempiono da destra a sinistra il parlamento italiano è un riflesso comprensibile ma pericolosamente regressivo.
La storia non sopporta le regressioni e rischia di essere una nuova forma di fascismo banalizzato e integrato a ricordarcelo e a obbligarci a un'ennesima resistenza tardiva e insufficiente.