domenica 24 giugno 2012

La caduta degli idoli



Ubu Roi Enrico Baj
Non sappiamo se verrà mai un tempo in cui dei miti si sarà capaci di fare a meno.
Per quanto si scavi nel passato, parrebbe di scoprire che abbiano accompagnato sempre le primitive aggregazioni umane, le comunità, le nazioni e ora la società mondiale, in cui tutti siamo compressi e ammassati. Pare che sia sempre stato necessario disporre di una cornice di riferimento in cui inscrivere le pretese più o meno bizzarre di conferire un senso alla presenza umana sulla Terra.
Perché a questo sono sempre serviti i miti, a distrarre e a consolare e a sublimare esistenze confrontate con la profonda futilità dell’esserci e con la totale irrealtà dell’essere: ma questa pretesa di imporre un senso collettivo cui sottomettere le singole esistenze individuali, se forse risponde a una passione del singolo, che infantilmente cerca fuori di sé la cagione della propria presenza, risponde tuttavia sicuramente a una necessità di quella parte di società che desidera detenere il senso dell’esistenza collettiva, al fine di manipolarlo a proprio vantaggio.
Infatti, individui consapevoli della sostanziale impermanenza di tutto ciò che esiste, dell’inesistenza di qualsivoglia disegno indipendente da loro, che verrebbe da lontano e proseguirebbe dopo la loro morte, risulterebbero difficilmente disposti a sacrificare questo breve periodo di esistenza.
Uno dei sintomi più eloquenti dell'assunzione del potere da parte della borghesia, lo si può scorgere nella progressiva migrazione del mito dall'ambito religioso all'ambito economico.
L'affermarsi delle due moderne religioni del libro, il cristianesimo e l'Islam, aveva già provveduto a introdurre nelle società europee e mediterranee il concetto di popolo di Dio, e del suo procedere nel tempo dalla creazione verso il Paradiso. La vita del singolo percepita come percorso di esperienza, di purificazione, di messa alla prova, si trovava così inscritta in un percorso collettivo. La storia in questo modo cessa di essere la cronaca degli eventi, quale la si era ereditata dai pagani, per convertirsi in un grande disegno intelligente, il vero ambito dell'adesione del singolo al progetto divino.
Quando nel Settecento la borghesia rampante principia a configurare una propria filosofia della storia e una propria visione di progresso, affrancate dalla religione, agisce in ogni caso su una società già profondamente segnata dall'idea che esisterebbe un senso nelle umane vicende indipendente dalle decisioni e dal giudizio del singolo.
La storia come religione, il mito della storia come disegno dotato di una propria autonomia e di proprie leggi, è precisamente il ponte che fa transitare la vecchia mitologia della creazione, della valle di lacrime, del paradiso da meritare nella mitologia moderna del progresso illimitato e permanente.
Poiché la brevità stessa della vita mina la pretesa di costruire aggregazioni durevoli che da questa brevità possano prescindere, è precisamente il tempo l’ambito in cui l’alienazione deve radicarsi. Perché il mito è semplicemente questo: una fonte di alienazione.
Per conseguenza, i suoi territori di elezione sono tre: il passato, il futuro e non già il presente, che è esattamente ciò che di diabolico deve essere estromesso dall’esperienza, ma il processo che dal passato procede verso il futuro: é accaduto qualcosa, accadrà qualcosa, sta accadendo qualcosa: in ogni caso una forza esterna ci trasporta. Per la libertà non rimane posto.
Beninteso, molte religioni e moltissime filosofia della storia (due a caso: il cristianesimo e l’idealismo) parlano della libertà, come fondamento dell’azione umana. Peccato che, come in tutti monologhi del potere, la falsificazione risieda non tanto nella risposta ma nella domanda. In questi casi infatti, viene attribuita al singolo una fantomatica “libertà” semplicemente per poterlo incolpare di ciò che accade, e particolarmente di ciò che GLI accade. Poiché gli è concesso di scegliere senza costrizione alcuna fra i veleni che gli vengono offerti, allora quando muore, la colpa è stata sua. Mentre il bene appartiene a Dio, oppure alla storia, questo dio impersonale tirato fuori dal cappello degli illusionisti borghesi; il male va tutto sul conto del singolo, chiamato a pagare il debito collettivo, personalmente, con l’unica vita che ha e della quale non è autorizzato a disporre mai.
In realtà, non è difficile osservare che il modulo di riferimento tanto dei miti in veste religiosa, tanto di quelli recenti di tema socioeconomico, è sempre il medesimo: in passato c’è stata la caduta (Adamo ed Eva che mangiano la mela, l’introduzione della divisione del lavoro, l’accumulo dissennato del debito pubblico), in futuro ci sarà la redenzione (il paradiso, il comunismo, la realizzazione del benessere per tutti…). In mezzo c’è il sacrificio, simbolico o comunque contemplato nella sua forma più cruenta (la crocifissione, i nostri morti, il default dei popoli sfortunati), reale nella sua forma grigia e quotidiana di militanza nel lavoro, nel consumo, nell’obbedienza, nella rinuncia. Il tutto scandito dalla parola dei grandi profeti morti e dei piccoli sacerdoti vivi
In questo modo, le panzane più inverosimili, che non resisterebbero all’osservazione di un bambino che avesse da poco imparato a leggere, vengono viceversa ammannite e scambiate senza vergogna, in quantità talmente smisurate che anche i più avvertiti faticano a sottrarsi totalmente al delirio. Tralasciamo pure di commentare le vecchie assurdità delle religioni, le transustanziazioni, le assunzioni in cielo, le immacolate concezioni: hanno già provveduto i nuovi mentitori a farsene beffe. Ma per meglio qualificare la nuova ondata di sproloqui, la storia, la lotta di classe, la dialettica materialista, l’abolizione dello Stato attraverso la dittatura del proletariato. Oppure, visto che anche le ideologie presentano la stessa deperibilità accelerata che caratterizza sempre di più tutte le merci, l’attuale mito adatto per quest’epoca di accresciuto disincanto: lo sviluppo permanente, la democrazia, il benessere da conseguire attraverso i sacrifici connessi con il saldo di un debito che nessuno ricordava di avere mai contratto.
La modernità è essa stessa un mito, per molti aspetti uguale e contrario a quelli dell’antichità. Se un tempo si era fissata l’età dell’oro nel passato (siamo nani sulle spalle di giganti: il presente come inarrestabile decadenza dalla grandezza dei predecessori) e in seguito, sulla spinta della cultura ebraica, nel futuro (l’anno venturo a Gerusalemme, i vari paradisi, non escluso quello socialista), oggi lo sgretolarsi miserando dello sviluppo e delle sue illusioni triviali, indica chiaramente di volerci condannare al presente.
Ma ad un presente “senza sogno e senza realtà”, in cui l’alienazione da giustificatoria come nella classicità oppure consolatoria come nella modernità, diviene una mescolanza di tedio e di angoscia dal momento che l’intera giornata è divenuta tempo di produzione (o, per meglio precisare: di consumo produttivo), essa ha finito per essere risucchiata dal karma disgraziato del capitalismo, quello che Marx aveva definito “la caduta tendenziale del saggio di profitto”. Tradotto in altre parole: la necessità di investimenti ogni giorno più imponenti per realizzare gli stessi profitti del giorno prima.
Anche nell’esistere quotidiano l’esperienza è la medesima: lo sforzo non basta mai e l’esito è sempre più evanescente. Come su un tapis-roulant, si deve correre a perdifiato per non esser portati via dal vento mefitico delle immagini. Che dobbiamo scambiarci ad un ritmo sempre più parossistico, senza respiro alcuno.
Mentre vi è una sovrapproduzione di merci rispetto non tanto alla necessità quanto piuttosto alle capacità di acquisto, la fame di illusioni rimane insaziata, perché ciascun nuovo feticcio si presenta ad un pubblico ormai inguaribilmente deluso, che dietro i lustrini già occhieggia la data di scadenza. Pur radicalmente disillusi, si pasteggia ad illusioni tuttavia, ma senza riuscire più a pervenire ad un soddisfacimento ragionevole.

il fantasma della libertà - Luis Bunuel 1974
Ma avere smascherato, in ritardo ma con sempre maggiore tempestività, i falsificatori di caratura mondiale, non basta a ristabilire la verità. Che potrà essere conseguita solo attraverso un radicale processo di decrescita esteso anche al consumo e alla produzione di ideologie, come già si è compreso, in molti, di dover fare per le merci materiali.
Infatti, il meccanismo di produzione, circolazione e consumo di miti è talmente radicato nella nostra esperienza quotidiana da indurci ad avvalercene per conferire tratti carismatici e arcani alla nostra azione, per renderla capace di competere sul mercato delle apparenze e per valorizzare le nostre vite reali, dando loro i tratti mistici della militanza e, una volta ancora, del sacrificio. E così anche coloro che si dichiarano, e si dipingono ai propri stessi occhi, come immuni dalle illusioni collettive, che fonderebbero la propria azione unicamente su sé stessi, non rinunciano spesso a costruire nuove gabbie del pensiero e dell’azione, e nuovi feticci verso cui porsi ginocchioni, come a qualcosa che sfuggirebbe al giudizio del singolo.
E si tratterà di volta in volta di idealizzazioni della natura e della storia, del manipolo dei vari anti- (antifascismo, antisessismo, antispecismo, antirazzismo, ma di sicuro se ne aggiungeranno di nuovi), di ipostatizzazioni di condotte (si pensi all’ossequio per il concetto di “azione diretta”, reso elastico fino a comprendere un gran numero di azioni che non hanno nulla di diretto), fino alla magica stessa idea di “rivoluzione”.
Per quanto ci sia sforzati, si è ancora lontani dall’avere definitivamente accettato che esistono unicamente i singoli e le loro brevi e transitorie presenze, nell’ambito delle quali ciascuno può, se crede, cercare di agire secondo le proprie passioni nel modo che ritiene il migliore, per il solo piacere di evadere per qualche momento dal nulla, cui in ogni caso faranno tutti ritorno. Per il piacere di tracciare, alla maniera di uno sberleffo, un confine visibile fra la vita e la non-vita 

Paolo Ranieri per “La melma dei giorni n. 6 - giugno 2012”