domenica 1 luglio 2012

LAVORARE STANCA



Contestare tesi apparse su un quotidiano a cui si collabora è una forma di grave ineleganza oppure espressione di apprezzabile pluralismo?
Nel caso sia “buona la seconda”, vorrei manifestare totale dissenso nei confrontidell’equiparazione lavoro-schiavitù teorizzata ieri su il Fatto Quotidiano daMassimo Fini. Convinto, come sono, che il Lavoro (con la “l” maiuscola) meriti ben più di qualche frettolosa considerazione blasé; magari da parte di chi vagheggia bimillenari ritorni a tempi in cui le attività manuali erano “macula servile”.

Perché il lavoro non è solo un insieme di pratiche, è una civiltà. Quanto i Padri Costituenti avevano ben chiaro vergando la Carta Costituzionale, non certo per ragioni bassamente economicistiche (e – vorrei ricordare – il “liberista” a cui Fini fa riferimento si chiamava Luigi Einaudi; da non confondere – pena la querela – con gli odierni NeoLib. Visto che aveva scritto, per un certo editore chiamato Piero Gobetti, il saggio “Le lotte del lavoro”, propugnandone la “bellezza”).
D’altro canto, come può parlarne con un minimo di conoscenza di causa chi probabilmente non ha mai neppure messo piede in una fabbrica del tempo che fu? Quella fabbrica che, pur con tutte le sue durezze, era uno dei luoghi più “sani” di un mondo oggi perduto; un luogo dove i rispettivi ruoli erano chiari, le differenti posizioni esplicite e i conflitti si manifestavano alla luce del sole. Ma anche un luogo dove giungevano a sintesi, nel comune impegno di realizzare qualcosa nel modo migliore, l’operosità borghese e il riscatto proletario. Dedizione e fierezza.
Chi scrive, nella sua vita spettinata, è stato piccolo imprenditore metalmeccanico per alcuni lustri. Così ha potuto imparare in presa diretta ad apprezzare quella che allora si chiamava “controparte”, capire che esisteva davvero una “cultura operaia” senza bisogno di leggere La chiave a stella di Primo Levi, conoscerne le tecniche di sopravvivenza come sapere pratico e le gerarchie informali, legate all’abilità di connettere al meglio mano e mente. Ricorda ancora l’operaio che gli estrasse uno sfrido metallico dall’occhio arrotolando a cilindro un foglio di carta, come l’altro che disse “questo è il mio capitale” mostrando le braccia. E non era retorica, ma consapevolezza (nessuno sapeva fare merletti al tornio e alla fresa come lui).
Al tempo stesso serba memoria delle famiglie borghesi in cui si educavano i figli a un senso del dovere latamente calvinistico: “fai tu quello che poi chiedi agli altri”… “primo ad entrare al lavoro, ultimo ad uscire”…
Certo, all’interno di questo intreccio valoriale perdurava il conflitto sociale. Non patologia, bensì formidabile spinta innovativa e integrativa. Perché era in questa dimensione che i cosiddetti dipendenti conquistavano i diritti del e per il lavoro, si trasformavano da moltitudine informe (e dispersa, come nell’età preindustriale del povero socialmente insignificante, prima ancora che endemicamente affamato) in un soggetto collettivo intenzionato ad autodeterminarsi e che apprendeva la solidarietà chiamandola mutualismo; smascherando il paternalismo insito nella carità, come cristallizzazione delle posizioni subalterne. Che poteva farlo proprio grazie alla sua centralità nei processi produttivi.
Certo, un mondo che ci siamo lasciati alle spalle. Tanto che se il XX è stato il secolo del lavoro, il XXI rischia di essere quello dei lavoretti. Ma questo è il risultato di un’immane e perversa operazione politica grazie alla quale le plutocrazie finanziarie ora riprendono il controllo sociale smaterializzando la realtà. Dunque, spezzando tavole di valori e annientando ogni controparte in grado di opporsi.
L’attacco al Lavoro di questi decenni è stato tutto questo. Non capirlo, propugnando i manierismi dell’ozio, può andare bene nelle chiacchiere in un caffè di San Babila o sulla calata di Portofino. Ma – in tale maniera – si finisce soltanto per lavorare a vantaggio dei re di Prussia che stanno facendo strame dei diritti e della dignità. E, con essi, di un mondo che aveva una sua etica, una sua epica e perfino una sua estetica. Che va rivalutato (e ritrovato) al più presto.

Commento di Sergio Ghirardi:

Pellizzetti difende il totem culturale della società capitalista con piglio progressista e liberalsocialista mentre Massimo Fini sogna, come al solito, un ritorno ai bei tempi andati. Sono due poli statici della mancanza di dialettica della cultura dominante in cui soffoca da secoli l’esigenza umana di emancipazione.
L’uomo ha sempre costruito con le sue varie attività la sua vita e il suo ambiente, procurandosi cibo, riparo e ogni tanto, appena possibile, la festa e il gioco.
Il lavoro è stato da sempre la parte spiacevole dell’attività vitale. Il capitalismo sfruttando il tempo astratto di lavoro lo ha reso sacro e mostruoso contemporaneamente.
L’etimologia della parola ne conferma la tragicità in tutte le lingue, ricordandoci che l’emancipazione dell’uomo è stata sempre anche emancipazione dal lavoro in nome della creatività, del gioco e del riposo.
Labor è fatica non realizzazione, travail, in francese e trabajo in spagnolo, derivano dal trepalium, uno strumento di tortura. Recentemente mi è stato suggerito che arbeit indicava nel tedesco antico un’attività imposta loro malgrado ai giovinetti.
Ce n’è abbastanza, mi pare, per porsi il problema rovesciando la prospettiva e uscendo dalla sacralizzazione del lavoro che dietro l’apparente solidarietà con i diseredati e i lavoratori è una condanna implicita alla civiltà del sacrificio, dello sfruttamento e dell’alienazione.
Un mondo così disumano non ha futuro. Fourier, Lafargue, Russell e i situazionisti hanno aperto una breccia che nessun stakanovista di destra o di sinistra potrà mai più rinchiudere definitivamente.
Il fatto stesso che reazionari e progressisti si scornino sul tema ci dice che il lungo periodo della restaurazione fondata su un lavoro che sta oggettivamente sparendo volge alla fine. A molti fa paura, ad altri come me, invece, diverte e intriga…