mercoledì 8 agosto 2012

I conflitti come proprietà, Nils Christie - Archivio Primo Moroni


I conflitti come proprietà
Nils Christie
Archivio Primo Moroni


Introduzione
Pubblichiamo questo testo di Nils Christie a più di trent’anni dalla sua uscita sulla rivista “The British Journal of Criminology”, perché la sua rilettura aiuta a far luce su uno dei paradossi chiave delle politiche securitarie che interessano oggi i Paesi appartenenti alla sfera egemonica dell’Occidente neoliberale.
La teorizzazione della preminenza del diritto di proprietà sull’interesse collettivo che si vorrebbe derivata dalle virtù progressive del capitalismo, dalla volontà di tutela delle libertà individuali, e che produrrebbe effetti benefici per la collettività grazie al meccanismo di autoregolamentazione della concorrenza, o che più semplicemente tutela gli interessi delle grandi accumulazioni industriali, si materializza in un corpo normativo che, allo scopo di mantenersi imparziale, resta sempre su un piano di astrazione. Nell’economia della proprietà privata il compito di fissare il discrimine tra lecito e illecito è affidato innanzitutto al diritto. Questa costruzione ideale si dota di un apparato di valori che tende sempre più a includere i bisogni o le espressioni di contrasto nella sfera dei comportamenti criminosi. Il processo di astrazione che accompagna lo sviluppo degli strumenti del diritto penale non libera quest’ultimo (perché non può) dalla sua connotazione classista ma, piuttosto, via via, lo allontana dalla percezione dei soggetti su cui (e non con cui) tende a operare.
Quest’opera di spersonalizzazione della giustizia, generalmente, ed erroneamente, identificata con la misura della sua imparzialità, avviene su degli elementi ben precisi che caratterizzeranno, con tempistiche diverse, tutti i Paesi europei e il Nord America: la funzione del tribunale, come strumento regolatore dei disequilibri sociali, unita alla frantumazione delle identità collettive, porta alla lettura in chiave criminale di tensioni un tempo considerate facenti parte dell’ordinario vivere sociale e nel contempo espropria del ruolo di protagonista i soggetti coinvolti. Tutto ciò è necessario, si dice, affinché il registro utilizzato sia il medesimo per tutti e la regola risulti quindi imparziale.
Per regolarsi, dice Christie, la società della proprietà espropria le persone di quanto hanno di più prezioso: il conflitto.
I dispositivi per mezzo di cui tutto questo avviene si distinguono con fatica in un quadro come quello attuale ove la spersonalizzazione delle regole di convivenza si è radicata tanto ampiamente da trasformarsi in elemento esso stesso di propaganda, generatore di consenso, da inevitabile e necessaria forzatura che era. Christie identifica tre aspetti di questa trasformazione.
Prima di tutto il rito, le parti che prendono il posto dei soggetti, la cerimonia. Il luogo fisico della giustizia, spersonalizzante e inospitale che, dice Christie, sembra fatto più per appropriarsi di un conflitto che per superarlo.
Come secondo aspetto c’è il concetto di “vittima” del crimine.
Al posto di essere uno dei poli di un problema sociale, il crimine è la rappresentazione di un pericolo, per le vittime e potenzialmente per chiunque. È una percezione, quella del pericolo, che si dimostra molto pervasiva (e persuasiva); e il concetto di pericolo ai governanti in genere piace perché permette di effettuare qualche salto logico, di prendere qualche scorciatoia e garantirsi (col consenso comune) gli strumenti necessari ad affrontare l’“emergenza” di turno, quale che essa sia. Risulta abbastanza naturale, quindi, che attraverso   la simbolizzazione della vittima possa passare una ulteriore spersonalizzazione della norma che rende, questa sì, la giustizia cieca (e non per questo più equa). È stato proprio poco dopo l’uscita di questo articolo che ha avuto inizio in Italia il processo, che continua sino ad oggi, di legittimazione di una durissima repressione dei conflitti sociali e dei loro protagonisti, che invocava a propria  giustificazione l’asprezza dello scontro ma che in realtà non seguiva che una strada già segnata; parimenti è grazie alla simbologia della vittimizzazione che vengono elaborate (e facilmente digerite) le più razziste rappresentazioni, da quella dello zingaro che rapisce i bambini a quella dell’immigrato criminale perché clandestino.
Poi, come terzo elemento, vi è la segmentazione, che ancor più che di classe diviene intersoggettiva (Christie parla del ricostituirsi di una società di casta). Ne deriva la frantumazione dei rapporti, incentivata dalla microconflittualità indotta dalla precarizzazione del lavoro, e delle esistenze. Questa separazione si spinge fino a realizzare forme di allontanamento fisico tra le persone e alla costituzione di “zone franche” da cui sia possibile estromettere il crimine, quasi fosse un corpo esterno, un tumore sociale (la metafora del tumore nel paradigma della lotta alla criminalità ben rappresenta l’idea del corpo estraneo, da isolare ed eliminare). Non a caso nel suo articolo Christie cita di Oscar Newman, Defensible Space. People and Design in the Violent City, un testo che sarà la base dell’urbanistica securitaria, in cui si disegna una città di controllori controllati avente come inevitabile corollario il presidio armato.
Tutti questi elementi, ancora in incubazione nel 1977, acquisteranno un peso determinante negli scenari successivi, spesso passando inosservati e permettendo alle teorie giustizialiste di mettere radici negli ambiti più diversi e insospettabili.
La nostra speranza è che questo breve testo possa essere utilizzato per ragionare sull’oggi, mentre patiamo un sistema di governo sociale criminogeno, aiutandoci a riconoscerne più distintamente gli effetti nefasti grazie a uno sguardo proveniente da lontano o, come questo, dal recente passato.


Archivio Primo Moroni, 18.1.2011



Nils Christie
 (1). Professore di Criminologia, Università di Oslo.


I conflitti come proprietà
 (2). Conferenza di fondazione del Centre for Criminological Studies, Università di Sheffield, 31 marzo 1976. Sono state ricevute osservazioni di rilievo sulle bozze preliminari del manoscritto da parte di Vigdis Christie, Tove Stang Dhal e Annika Snare.

 “The British Journal of Criminology”

Vol. 1, gennaio 1977, n. 1

Sommario

I conflitti sono qui considerati elementi importanti della società. Le società altamente industrializzate non hanno troppi conflitti interni, ne hanno troppo pochi. Noi dobbiamo organizzare dei sistemi sociali in modo che i conflitti siano al tempo stesso alimentati e resi visibili, preoccupandoci anche del fatto che non siano dei professionisti a monopolizzarne la gestione. Le vittime del crimine in particolare hanno perduto i loro diritti a partecipare. Viene quindi delineata una procedura giuridica che ristabilisca i diritti dei partecipanti alla gestione dei propri conflitti.

Introduzione

Forse non ci dovrebbe essere alcuna criminologia. Forse noi dovremmo abolire degli istituti, non aprirli. Forse le conseguenze sociali della criminologia sono più dubbie di quanto ci piaccia pensare.
Io ritengo che lo siano. E ritengo che ciò abbia a che fare con il mio tema: i conflitti come proprietà. Il mio sospetto è che la criminologia abbia in una certa misura amplificato un processo in cui i conflitti sono stati tolti alle parti direttamente coinvolte e in questo modo o sono scomparsi o sono diventati proprietà di qualcun altro. Un esito, in entrambi i casi, deplorevole. I conflitti dovrebbero essere usati, non solo lasciati alla loro erosione. E dovrebbero essere usati, e diventare utili per chi è originariamente coinvolto nel conflitto. I conflitti possono colpire gli individui tanto quanto i sistemi sociali.
Questo è ciò che impariamo a scuola. E questo è il motivo per cui abbiamo dei funzionari. Senza di loro la vendetta privata e le faide fiorirebbero. Lo abbiamo imparato in modo così forte che abbiamo perso la traccia dell’altra faccia della medaglia: la nostra società industrializzata su larga scala non è una società con troppi conflitti interni. È una società che ne ha troppo pochi. I conflitti possono uccidere, ma la loro scarsità può paralizzare. Utilizzerò questa occasione per proporre una trattazione schematica di questa situazione. Non può essere di più. Questa relazione rappresenta infatti l’inizio dello sviluppo di alcune idee, e non il prodotto finale elaborato.


Il ventre legislativo

Sugli eventi e i non-eventi
Prendiamo un punto di partenza lontano. Spostiamoci in Tanzania.
Affrontiamo il nostro problema dal pendio soleggiato della provincia di Arusha. Qui, all’interno di una casa relativamente ampia di un piccolissimo villaggio, si è verificato un evento. La casa era gremita. C’erano la maggior parte degli adulti del villaggio e parecchie persone che provenivano da quelli adiacenti. Era un evento felice: un parlare veloce, scherzi, sorrisi, viva attenzione, non una frase doveva andar persa. Era un circo, una rappresentazione.
Era un processo.
Il conflitto questa volta era tra un uomo e una donna. Erano stati fidanzati. Lui aveva speso molto nella relazione per un lungo periodo di tempo, finché lei l’aveva rotta. Ora l’uomo rivoleva indietro ciò che aveva investito. Sull’oro, l’argento e il denaro si decise facilmente, ma come fare con gli oggetti d’uso già consumati e per le spese sostenute?
L’esito non è interessante per la nostra trattazione. Lo è invece la struttura per la soluzione del conflitto. Dovrebbero essere in particolare ricordati cinque elementi:
1. Le parti, gli ex amanti, erano al centro della stanza, e al centro dell’attenzione di ognuno. Parlavano spesso ed erano ascoltati con grande attenzione.
2. Vicino a loro, c’erano parenti ed amici, anche loro partecipavano. Ma non assumevano la direzione. 
3. C’era anche la partecipazione da parte di tutti i presenti con brevi domande, informazioni, o battute.
4. I giudici, tre segretari locali del partito, erano completamente inattivi. Naturalmente non conoscevano i problemi del villaggio. Tutte le altre persone nella stanza erano invece esperti. Erano esperti sia sulle norme che sugli atti. Precisavano le norme e chiarivano ciò che era accaduto attraverso la partecipazione a tutto il procedimento.
5. Nessun cronista riferiva. Tutti erano presenti.


La mia conoscenza personale di quanto avviene nei tribunali inglesi è molto limitata. Ho qualche vago ricordo di tribunali minorili, in cui ho contato 15 o 20 persone presenti, soprattutto assistenti sociali che usavano la stanza per il lavoro preparatorio o per piccole consultazioni. Un ragazzino o un giovane doveva essere giudicato, ma fatta eccezione per il giudice, o forse era un impiegato, nessuno sembrava prestare alcuna particolare attenzione. Il ragazzino o il giovane era probabilmente assai confuso rispetto a chi era lì e a fare cosa, un fatto confermato da un breve studio di Peter Scott (1959). Negli Stati Uniti d’America Martha Baum (1968) ha fatto osservazioni simili. Recentemente Bottoms e McClean (1976) hanno aggiunto un’altra importante osservazione: “Esiste una verità spesso rivelata nella letteratura sul diritto o negli studi sull’amministrazione della giustizia penale. È una verità che è diventata evidente a tutti coloro che erano coinvolti in questo progetto di ricerca quando hanno esaminato i casi che costituivano il nostro campione. La verità è che nella maggior parte dei casi, il lavoro dei tribunali penali è monotono, banale, mediocre e diviene in breve tempo noioso”.
Ma non vorrei insistere sul vostro sistema, vorrei concentrarmi invece sul mio. E ve lo posso assicurare: quello che succede non è un evento. È una negazione completa del processo in Tanzania. Ciò che è sorprendente in quasi tutti i processi scandinavi è il grigiore, la monotonia, e la mancanza di qualsivoglia dimostrazione di ascolto. I tribunali non sono centrali nella vita quotidiana dei nostri cittadini, ma periferici in quattro modi fondamentali:
1. Sono collocati nei centri amministrativi delle città, al di fuori delle zone abitate dalle persone comuni.
2. All’interno di questi centri, sono spesso concentrati in uno o due grandi edifici di notevole complessità. Gli avvocati sovente si lamentano del fatto che hanno bisogno di mesi per imparare a muoversi dentro questi edifici. Non ci vuole molta fantasia per immaginare la situazione delle parti in causa o del pubblico, quando vengono intrappolati in queste strutture. Uno studio comparativo sull’architettura dei tribunali potrebbe diventare egualmente rilevante per la sociologia del diritto, quanto lo è quello di Oscar Newman (1972) sullo “spazio difendibile” per la criminologia. Ma anche senza alcuno studio, sono convinto di poter dire che sia la condizione fisica sia il disegno architettonico sono degli indicatori forti del fatto che in Scandinavia i tribunali appartengono agli amministratori della legge.
3. Questa impressione si rafforza quando entrate nella stessa aula di tribunale, se avete avuto abbastanza fortuna da trovare la strada per arrivarci. Qui di nuovo, quello che sorprende è la collocazione periferica delle parti coinvolte nel procedimento. Le parti sono rappresentate, e sono questi rappresentanti e il giudice o i giudici, a esprimere la modesta attività che viene messa in atto all’interno di queste aule. Le famose raffigurazioni dei tribunali di Honoré Daumier valgono per la Scandinavia tanto quanto per la Francia.
Ci sono alcune differenze. Nelle piccole città, o in campagna, i tribunali sono più facilmente raggiungibili che nei centri più grandi. E al gradino più basso del sistema giudiziario, nei cosiddetti collegi arbitrali, le parti sono talvolta rappresentate dai loro esperti legali con minor pesantezza. Ma il simbolo dell’intero sistema è la Corte Suprema in cui le parti direttamente coinvolte non sono nemmeno presenti al loro processo.
4. Non ho ancora fatto alcuna distinzione tra conflitti civili e penali. Ma non è un caso che quello della Tanzania fosse un processo civile. Una piena partecipazione al proprio conflitto presuppone degli elementi del diritto civile. L’elemento chiave in un procedimento penale è che un fatto accaduto tra le parti vi si trasforma in un conflitto tra una delle parti e lo Stato. Così, nel moderno processo penale sono successe due cose importanti. Primo, le parti vengono rappresentate. Secondo, la parte che è rappresentata dallo Stato, cioè la vittima, lo è in modo così totale che lei o lui nella maggior parte dei procedimenti è spinta completamente fuori di scena, ridotta ad essere la persona che dà solo il via all’intera faccenda. Lei o lui è una  specie di perdente doppio; in primo luogo di fronte al reo, ma in secondo luogo e spesso in un modo più mutilante, perché privato dei diritti a una piena partecipazione in quello che avrebbe potuto essere uno degli incontri rituali più importanti della sua vita. Nel rapporto con lo Stato, la vittima ha perso il processo.

La corte

Ladri di professione

Come sappiamo, dietro a questo sviluppo ci sono molte ragioni onorevoli, così come ce ne sono di disonorevoli. Quelle onorevoli hanno a che fare con il bisogno di una riduzione del conflitto da parte dello Stato e certamente anche con il desiderio di proteggere la vittima. È piuttosto evidente. Ciò vale anche per la tentazione meno onorevole per lo Stato, l’imperatore o chiunque detenga il potere, di usare il processo penale per ottenerne un utile personale. I rei potrebbero pagare per le loro colpe. Le autorità hanno mostrato in passato una notevole propensione, come rappresentanti della vittima, ad agire in qualità di riceventi denaro o altra proprietà da parte del reo. Questi tempi sono passati; il sistema di controllo del crimine non è fatto per il profitto. Ma non sono ancora completamente passati. Ci sono, in tutta la loro banalità, molti interessi in atto, la maggior parte dei quali hanno a che fare con la professionalizzazione.
Gli avvocati sono particolarmente bravi nel privarci dei conflitti.
Sono formati per questo. Sono formati per prevenire e risolvere i conflitti. Hanno continuamente a che fare con una subcultura che manifesta un accordo sorprendentemente elevato sull’interpretazione di norme, e su quale tipo di informazione possa essere accolta come rilevante in ogni caso. Molti di noi da profani hanno fatto esperienza di quei tristi momenti di verità, in cui i nostri avvocati ci dicono che i nostri argomenti migliori nella lotta contro il nostro prossimo, sono privi di qualsivoglia rilevanza legale, e che, per amor di Dio, dovremmo lasciarli perdere in tribunale. Invece loro ne tirano fuori altri che noi potremmo ritenere irrilevanti o persino da non usare.
Il mio esempio preferito si è verificato proprio dopo la guerra. Uno degli avvocati difensori di primissimo piano del mio Paese mi disse con orgoglio come era appena riuscito a salvare un povero cliente, che era stato un collaborazionista dei tedeschi. L’accusa aveva sostenuto che costui era stato una figura chiave nell’organizzazione del movimento nazista. Era stato una delle menti guida al suo interno. L’avvocato difensore, tuttavia, salvò il suo cliente. E lo salvò mostrando alla giuria quanto questi fosse debole, privo di capacità, quanto fosse evidentemente mancante, sia da un punto di vista sociale che organizzativo. Il suo cliente semplicemente non poteva essere stato uno degli organizzatori del collaborazionismo; non ne aveva le capacità. Ed aveva vinto il processo. Il suo assistito ebbe una pena molto lieve, come figura di scarsissimo peso. L’avvocato difensore concluse la sua storia dicendomi – con un po’ di indignazione – che né l’accusato né sua moglie l’avevano mai ringraziato e che in seguito non gli avevano più rivolto la parola.
I conflitti diventano proprietà degli avvocati. Ma gli avvocati non nascondono che sono proprio i conflitti ciò che essi gestiscono.
E la struttura organizzativa dei tribunali sottolinea questo punto. L'identificazione delle parti in causa, il giudice, la proibizione di una comunicazione diretta nello svolgimento del processo, tutto ciò sottolinea il fatto che si tratta di un’organizzazione per la gestione dei conflitti. Coloro che seguono un trattamento personalizzato sono in una posizione diversa. Sono più interessati a trasformare l’immagine del processo da quella di un conflitto a quella di un non-conflitto.
Il modello fondamentale degli operatori non è quello di parti che si oppongono, ma quello in cui una parte dev’essere aiutata in direzione di un obiettivo generalmente accettato: il mantenimento o il ristabilimento della salute. Non sono formati in un sistema in cui è importante che le parti possano controllarsi a vicenda. Non esiste, nel processo ideale, niente da controllare, perché c’è un unico obiettivo.
La specializzazione viene incoraggiata. Fa crescere la quantità di conoscenza a disposizione, e la mancanza di controllo interno non ha alcun rilievo. Una prospettiva di conflitto crea degli spiacevoli dubbi sulla adeguatezza dello specialista per quel lavoro. Una prospettiva di non-conflitto è una precondizione per definire il crimine come un legittimo obiettivo di trattamento. Un modo per ridurre l’attenzione per il conflitto è quello di ridurre l’attenzione per la vittima. Un altro è un’attenzione concentrata su quegli aspetti del background  criminale che lo specialista è particolarmente competente a gestire.
Le imperfezioni biologiche sono molto adatte. E così pure le fragilità caratteriali quando sono accertate molto lontano nel tempo – lontano dal recente conflitto. Ciò vale anche per l’intera fila di variabili esplicative che la criminologia potrebbe offrire. La criminologia ha funzionato, in larga misura, come una scienza ausiliaria per i professionisti che operano all’interno del sistema di controllo del crimine. Ci siamo concentrati sul reo, e lo abbiamo trasformato in un oggetto di studio, di manipolazione e di controllo.
Ci siamo aggregati a tutte quelle forze che hanno ridotto la vittima a una nullità e il reo a una cosa. Questa critica forse è rilevante non solo per la vecchia criminologia, ma anche per quella nuova.
Mentre la vecchia spiegava il crimine a partire dai difetti personali o da handicap sociali, la nuova criminologia spiega il crimine come risultato di ampi conflitti economici. La vecchia criminologia perde i conflitti, la nuova li trasforma da conflitti interpersonali in conflitti di classe. E lo sono. Sono conflitti di classe, anche. Ma, sottolineando questo aspetto, i conflitti sono di nuovo portati via alle parti direttamente coinvolte. Così, in forma di affermazione preliminare: i conflitti penali sono diventati proprietà di altre persone, innanzi tutto proprietà degli avvocati, oppure è diventato interesse di altre persone dislocare i conflitti lontano.


Ladri strutturali
Ma c’è qualcosa di più di una manipolazione professionale dei conflitti. I mutamenti nella struttura sociale di base hanno operato nello stesso modo.
Ciò che ho in mente in modo particolare sono due tipi di segmentazione che possono essere facilmente osservati nelle società altamente sviluppate.
In primo luogo, c’è il problema della segmentazione nello spazio.
Tutti i giorni noi agiamo come migranti che si spostano tra gruppi di persone che non hanno bisogno di avere alcun legame, tranne quello rappresentato dalla persona stessa che si muove. Spesso quindi, conosciamo i nostri compagni di lavoro solo come compagni di lavoro, i nostri vicini solo come vicini, le persone che attraversano la città con gli sci solo come persone che attraversano la città con gli sci. Li conosciamo in quanto ruoli e non come persone intere.
Questa situazione viene accentuata dal grado estremo di divisione del lavoro con cui accettiamo di vivere. Solo gli esperti possono valutarsi l’un l’altro grazie alla conoscenza personale. Fuori della specialità, dobbiamo basarci su una considerazione generale della supposta importanza del lavoro. Fatta eccezione per gli specialisti, non possiamo valutare quanto rilevante sia qualcuno nel suo lavoro, ma soltanto quanto rilevante – nel senso di importante – sia il suo ruolo. A causa di tutto ciò, abbiamo delle possibilità limitate di capire il comportamento delle altre persone, avrà un rilievo limitato per noi.
I “ruolanti” vengono scambiati più facilmente di quanto lo siano le persone.
Il secondo tipo di segmentazione ha a che fare con ciò che vorrei definire la nostra ricostituzione di una società di caste. Non sto parlando di una società di classe, anche se ci sono delle evidenti tendenze pure in questa direzione. Nel mio quadro, tuttavia, ritengo che gli aspetti di casta siano ancora più importanti.
Ciò che ho in mente è la segregazione basata su caratteristiche  biologiche come il sesso, il colore, gli handicap fisici o il numero di anni trascorsi dalla nascita.
L’età è particolarmente importante.
È una caratteristica quasi perfettamente sincronizzata con una moderna complessa società industrializzata. È una variabile continua in cui possiamo introdurre tutti gli intervalli di cui abbiamo bisogno.
Possiamo dividere la popolazione in due: bambini e adulti, ma anche in dieci: neonati, bambini in età prescolare, bambini in età scolare, teenager, giovani, adulti, pre-pensionati, pensionati, anziani, vecchi.
E, ciò che è più importante, i punti di divisione possono essere spostati in su e in giù sulla base delle necessità sociali. Il concetto di “teenager” era particolarmente adeguato agli anni passati. Non si sarebbe diffuso se la realtà sociale non fosse stata in sintonia con la parola. Oggi questo concetto non è usato spesso nel mio Paese.
Non si esce dalla condizione di giovane a 19 anni. I giovani devono aspettare anche di più prima che sia loro permesso di entrare nel mondo del lavoro. La casta di coloro che sono fuori dal mondo del lavoro si è estesa a chi ha superato anche di molto i vent’anni. Nel medesimo tempo, l’allontanamento dal mondo del lavoro – se avete mai potuto entrarci, se non ne siete stati tenuti del tutto fuori a causa della razza o delle caratteristiche sessuali – è anticipato alla soglia dei sessant’anni. Nel mio piccolo Paese di quattro milioni di abitanti, abbiamo 800mila persone segregate all’interno del sistema educativo.
La accresciuta mancanza di lavoro ha portato immediatamente le autorità ad aumentare la capacità di segregazione educativa.
Altri 600mila sono pensionati.
La segmentazione in base allo spazio e secondo le caratteristiche di casta ha diverse conseguenze. Innanzi tutto, porta a una spersonalizzazione delle relazioni nella vita sociale. Gli individui sono meno legati gli uni agli altri in strette reti sociali che implichino un confronto con tutti i ruoli significativi di altre persone significative.
Ciò produce una situazione in cui le informazioni reciproche sono limitate. Noi sappiamo meno sulle altre persone, e abbiamo limitate possibilità sia di capire sia di prevedere il loro comportamento. Se si produce un conflitto, noi siamo meno in grado di farvi fronte. Non solo esistono dei professionisti, capaci e desiderosi di rimuovere il conflitto, ma noi stessi siamo più desiderosi di disfarcene.
In secondo luogo, la segmentazione porta alla distruzione di certi conflitti ancor prima che avvengano. La spersonalizzazione e la mobilità all’interno della società industriale fanno scomparire alcune condizioni essenziali per il prodursi di conflitti vitali, cioè quelli tra parti reciprocamente molto significative. Ciò che ho particolarmente in mente è il delitto contro l’onore altrui, l’oltraggio o la diffamazione.
Tutti i Paesi scandinavi hanno registrato un calo drammatico in questa fattispecie di reati. Secondo me, ciò non è avvenuto perché l’onore è ora più rispettato, ma perché c’è meno onore da rispettare.
Le varie forme di segmentazione implicano relazioni seriali in cui gli esseri umani significano meno gli uni per gli altri. Quando vengono colpiti, lo sono solo parzialmente. E se attraversano dei guai, possono venirne fuori con più facilità. E dopotutto, a chi importa? Nessuno mi conosce. Secondo il mio parere, la diminuzione dei delitti di diffamazione e oltraggio è uno dei sintomi più interessanti e negativi dei pericolosi sviluppi presenti all’interno delle moderne società industrializzate. Questa diminuzione è chiaramente collegata alle condizioni sociali che conducono a un aumento di altre forme di crimine portate all’attenzione delle autorità. Un obiettivo importante per la prevenzione del crimine è ricreare le condizioni sociali che portino a un aumento dei crimini contro l’onore.
Una terza conseguenza della segmentazione basata sullo spazio e sull’età è il fatto che certi conflitti vengono resi completamente invisibili, restando quindi privi di una qualsivoglia soluzione onorevole.
Penso a conflitti che sono alle due estremità di un continuum. A un capo abbiamo quelli ultra-privatizzati, quelli che si dànno contro individui chiusi all’interno di uno dei segmenti: per esempio, una moglie bastonata o un bambino percosso. Quanto più isolato è un segmento, tanto più la parte meno forte è sola, esposta all’abuso. Il  libro di Kinberg, Inghe e Riemer (1943) sull’incesto in Svezia è al riguardo un classico. Il loro assunto fondamentale era che l’isolamento sociale di certe categorie di lavoratori agricoli proletarizzati fosse la condizione necessaria per questo tipo di crimine. La povertà significa che le parti componenti il nucleo familiare diventano completamente dipendenti le une dalle altre. L’isolamento significa che le parti più deboli della famiglia non hanno una rete esterna cui possano appellarsi per essere aiutate. La forza fisica del marito acquista un’importanza sproporzionata.
All’altra estremità del continuum abbiamo i crimini compiuti da grandi organizzazioni economiche contro individui troppo deboli e ignoranti per essere capaci persino di rendersi conto di essere stati vittimizzati. In entrambi i casi l’obiettivo della prevenzione del crimine potrebbe essere quello di ricreare condizioni sociali tali da rendere visibili e quindi gestibili i conflitti.

Avvocati

I conflitti come proprietà
I conflitti sono portati via, messi da parte, fatti scomparire a poco a poco oppure resi invisibili. È importante? Lo è davvero?
La maggior parte di noi sarebbe probabilmente d’accordo sul fatto che dovremmo proteggere le invisibili vittime cui ho appena accennato. Molti approverebbero l’idea secondo cui Stati, governi o altre autorità dovrebbero smetterla di sottrarre beni e invece permettere alla povera vittima di ricevere questo denaro. Io perlomeno sarei d’accordo con una decisione del genere.
Ma non voglio entrare adesso nel merito di questo problema.
Il risarcimento materiale non è ciò che ho in mente quando parlo di “conflitti come proprietà”. È il conflitto in sé a rappresentare la proprietà più interessante che viene portata via, e non i beni originariamente sottratti alla vittima o ad essa restituiti. Nei nostri tipi di società i conflitti sono più scarsi della proprietà stessa. E sono immensamente più preziosi.
Sono preziosi in diversi modi. Cominciamo dal livello sociale; fin qui ho presentato alcuni frammenti di analisi utili a mettere a fuoco il problema. Le società altamente industrializzate affrontano i problemi maggiori nell’organizzare i propri membri in maniera tale che solo una quota accettabile di loro partecipi del tutto ad ogni attività. La segmentazione in base all’età e al sesso può essere considerata come un efficace metodo di segregazione. La partecipazione è talmente rara che chi fa parte di una cerchia qualunque crea forme di monopolio contro chi non ne fa parte, con riferimento, in particolare, al lavoro.
In questa prospettiva, sarà facile vedere che i conflitti racchiudono un potenziale di attività, di partecipazione. I moderni sistemi di controllo del crimine rappresentano uno dei molti casi di opportunità perdute per coinvolgere i cittadini in compiti che sono di rilevanza immediata per loro. Nostri in una società di monopolisti del compito.
La vittima in questa situazione perde in modo pesantissimo.
Non solo ha sofferto, ha perduto in senso materiale o è rimasta ferita, fisicamente oppure in altro modo. E non solo è lo Stato ad assumersene l’indennizzo. Ma soprattutto la vittima ha perso la partecipazione al suo stesso processo. Le luci della ribalta sono per il Tribunale, non per la vittima. È il Tribunale che definisce le perdite, non la vittima. È il Tribunale che compare sui giornali, molto raramente la vittima. È il Tribunale che dà una possibilità di parlare al reo, e né il Tribunale né il reo sono particolarmente interessati a proseguire la conversazione.
L’accusa è arcistufa da tempo. La vittima avrebbe preferito non esserci. Forse è una persona che è stata spaventata a morte, presa dal panico o furiosa. Ma non avrebbe voluto essere coinvolta. Quello avrebbe potuto essere uno dei giorni più importanti della sua vita.
Qualcosa che le appartiene è stato portato via alla vittima [Per una relazione preliminare sull’insoddisfazione della vittima, si veda Vennard (1976)].
Ma i grandi perdenti siamo noi, nella misura in cui la società siamo noi.
Questa perdita è soprattutto una perdita nelle opportunità di chiarificazione normativa. È una perdita di possibilità pedagogiche, di opportunità per una discussione continua su ciò che la legge del paese rappresenta. Quanto aveva torto il ladro, quanto aveva ragione la vittima? Gli avvocati hanno studiato ciò che è rilevante in un processo, questo è il sapere condiviso che hanno appreso durante la loro formazione. Ma ciò significa che sono formati per essere incapaci di lasciar decidere alle parti che cosa sia rilevante. Ciò significa che è difficile realizzare quello che potremmo chiamare
un dibattito politico in tribunale. Quando la vittima è piccola e il reo grande, in dimensione o potere, quanto è allora riprovevole il crimine? E che dire del caso opposto, del piccolo ladro e del grande padrone di casa? Se il reo ha una certa cultura, dovrebbe soffrire di più o di meno per le sue colpe? O se è nero oppure giovane, se dall’altra parte c’è una compagnia d’assicurazione, oppure se sua moglie l’ha appena lasciato, o se la sua azienda fallisse qualora lui dovesse andare in galera, oppure se sua figlia perdesse il fidanzato.
O se era ubriaco o triste o pazzo? Non c’è fine a tutto ciò.
E forse non ce ne dovrebbe essere. È possibile che la legge dei Barotse, così come viene descritta da Max Gluckman (1955), sia uno strumento migliore di chiarificazione normativa, suscettibile di permettere alle parti in conflitto di inserirsi ogni volta nell’intera catena di vecchie accuse e discussioni.
Forse le decisioni sulla rilevanza e sul peso di ciò che viene considerato rilevante dovrebbero essere tolte agli esperti di giurisprudenza, gli ideologi a capo dei sistemi di controllo del crimine, e riportate nelle aule di tribunale, per essere affrontate liberamente.
Un’ulteriore perdita complessiva, sia per la vittima sia per la società in generale, ha a che fare con il livello di ansietà e i fraintendimenti. Ciò che di nuovo ho in mente sono le possibilità di incontri personalizzati. La vittima è a tal punto fuori dal processo che non ha alcuna opportunità, mai, di arrivare a conoscere il reo. Noi la lasciamo fuori, arrabbiata, forse umiliata a causa di un interrogatorio incrociato in tribunale, senza alcun contatto umano con il reo. La vittima non ha alternativa. Avrà bisogno di tutti gli stereotipi classici sul “criminale” per mantenere il controllo sull’intera questione.
Ha bisogno di capire, ma è invece una non-persona in un’opera di Kafka. Naturalmente se ne andrà più spaventata che mai, con il bisogno più forte che mai di sentirsi dire che i criminali sono esseri non-umani.
Il reo rappresenta un caso più complicato. Non è necessaria una grande introspezione per vedere che una diretta partecipazione della vittima potrebbe veramente essere vissuta come dolorosa. La maggior parte di noi sfuggirebbe a un confronto del genere. Questa è la prima reazione. Ma la seconda è leggermente più positiva. Gli esseri umani hanno dei motivi per le loro azioni.
Se la situazione fosse strutturata in modo tale che le ragioni potessero essere fornite – le ragioni così come le parti le vedono, e non solo la selezione che gli avvocati hanno deciso di classificare come rilevante – la situazione non sarebbe forse così umiliante. In particolare la situazione potrebbe cambiare se tutto fosse strutturato in modo tale che la questione centrale non fosse quella di riconoscere la propria colpa, ma di discutere in maniera esauriente su ciò che si potrebbe fare per annullare l’atto. E ciò è esattamente quanto dovrebbe accadere se la vittima fosse reintrodotta nel processo.
Le perdite della vittima saranno prese in seria considerazione.
Ciò porta a una naturale attenzione sul modo in cui potrebbero essere alleggerite. Porta a una discussione sulla restituzione. Il reo ha la possibilità di mutare la sua posizione: da ascoltatore di una discussione, spesso profondamente incomprensibile, su quale grado di pena dovrebbe ricevere, a partecipante di una discussione su come potrebbe rimettere a posto le cose. Il reo ha perduto l’opportunità di chiarire se stesso a una persona il cui parere su di lui potrebbe avere importanza.
Egli ha quindi perso di conseguenza anche una delle più importanti possibilità di essere perdonato. Se lo confrontiamo con l’umiliazione subita in un comune tribunale, vividamente descritta da Pat Carlen (1976) in un recente saggio comparso sul “British Journal of Criminology”, questo non è chiaramente un cattivo trattamento per il criminale.
Aggiungo che, secondo me, dovremmo farlo in modo del tutto indipendente dai suoi desideri. Non stiamo discutendo di un controllo sanitario. Si tratta del controllo del crimine. Se i criminali sono inizialmente scioccati dal pensiero di un confronto stretto con la vittima, in particolare se nel territorio in prossimità di una delle parti, che fare allora? In base a recenti conversazioni su questi argomenti so che la maggior parte delle persone condannate sono scioccate.
Dopotutto, preferiscono tenersi lontane dalla vittima, dai vicini, da chi ascolta e forse anche dal loro processo a causa del linguaggio e dalla possibile presenza di esperti in Scienze del comportamento.
Desiderano assolutamente sbarazzarsi della loro proprietà rispetto al conflitto. Così la questione è piuttosto: vogliamo noi permettere che se ne sbarazzino? Vogliamo dar loro questa facile via d’uscita?
Desidero essere del tutto esplicito su un punto: non sto sostenendo queste idee a causa di qualche interesse particolare al trattamento o al miglioramento della condizione dei criminali. Non sto basando il mio ragionamento sulla convinzione che un incontro più personalizzato tra il reo e la vittima potrebbe condurre a diminuire la recidiva. Forse sarebbe così. E io ritengo che lo sarebbe.
Stando come sono attualmente le cose, il reo ha perduto l’opportunità di partecipare a un confronto personale di natura realmente seria. Ha perduto l’opportunità di ricevere un tipo di biasimo che gli sarebbe molto difficile neutralizzare. Tuttavia, io avrei sostenuto questo modo di operare anche se fosse assolutamente certo che non avrebbe alcun effetto sulla recidiva, forse persino se avesse un effetto negativo. L’avrei fatto per altri, più generali vantaggi. E lasciatemi anche aggiungere: non c’è molto da perdere. Come tutti oggi sappiamo, perlomeno quasi tutti, non siamo stati capaci di inventare alcuna cura per il crimine. Fatta eccezione per la pena di morte, la castrazione o l’ergastolo, nessuna misura ha dato prova di avere un’efficacia minimamente superiore rispetto a qualunque altra misura. Noi potremmo reagire altrettanto bene al crimine in base a quanto le parti strettamente coinvolte ritengono essere giusto e in accordo con i valori generali della società.
Con quest’ultima affermazione, come con la maggior parte delle altre che ho fatto, io sollevo molti più problemi di quante siano le risposte. Le affermazioni sulla politica relativa al crimine, in particolare da parte di coloro che portano il peso della responsabilità, sono di solito piene di risposte. È di domande che abbiamo bisogno.
La gravità del nostro tema ci rende molto pedanti e quindi ci rende più difficile immaginare paradigmi diversi.
Tendo ad assumere la stessa posizione rispetto alla proprietà del criminale sul proprio conflitto di quella assunta da John Locke rispetto ai diritti di proprietà sulla propria vita. Non si ha il diritto di gettarla via. Cfr. C.B. MacPherson (1962).


Tre avvocati in conversazione

Un tribunale orientato verso la vittima
Dietro al mio ragionamento c’è chiaramente un modello di tribunali di zona. Ma questo ha caratteristiche specifiche, ed è soltanto di ciò che voglio discutere in quanto segue.
Innanzitutto è un’organizzazione orientata verso la vittima, benché non nella sua fase iniziale.
La prima fase sarà quella tradizionale, in cui viene stabilito se è vero che la legge è stata violata, e se è stata quella particolare persona a violarla.
Viene poi la seconda fase che in questi tribunali sarebbe della massima importanza. Sarebbe la fase in cui la situazione della vittima dovrebbe essere presa in considerazione, in cui ogni dettaglio riguardante ciò che è accaduto, legalmente rilevante o non, verrebbe portato all’attenzione del tribunale. Qui sarebbe di particolare importanza una considerazione dettagliata rispetto a ciò che potrebbe essere fatto per la vittima, innanzi tutto da parte del reo, in secondo luogo da parte dei vicini di zona, in terzo luogo dallo Stato. Il danno potrebbe essere risarcito, la finestra riparata, la serratura sostituita, la parete dipinta, la perdita di tempo, a causa del fatto che l’automobile è stata rubata, risarcita con un lavoro di giardinaggio o lavando l’automobile per dieci domeniche di fila?
O forse, una volta iniziata questa discussione, emergerebbe che il danno non era così rilevante come appariva nei documenti scritti per impressionare le compagnie assicurative? La sofferenza fisica potrebbe alleviarsi un po’ grazie a qualche azione da parte del reo, compiuta per un certo numero di giorni, mesi o anni? Ma, oltre a ciò, la comunità aveva impiegato tutte le risorse che avrebbero potuto offrire un aiuto? Era assolutamente certo che l’ospedale locale non avrebbe potuto far nulla? Che dire di un aiuto da parte del custode due volte al giorno se il reo si fosse assunto il compito della pulizia del sotterraneo ogni sabato? Nessuna di queste idee è sconosciuta o non sperimentata, soprattutto non in Inghilterra. Ma noi abbiamo bisogno di una organizzazione per la loro applicazione sistematica.
Solo dopo aver superato questa fase, e potrebbero volerci ore, forse giorni, per concluderla, solo allora sarebbe arrivato il momento per una eventuale decisione sulla punizione. La punizione diventa, allora, quella sofferenza che il giudice ritiene necessario applicare in aggiunta a quelle costruttive sofferenze non deliberate che il reo proverebbe con le sue azioni restitutive nei confronti della vittima.
Forse nulla potrebbe essere fatto o nulla sarebbe fatto. Ma i vicini potrebbero trovare intollerabile che nulla accadesse. I tribunali locali che non sono in sintonia con i valori del territorio non sono tribunali locali. È proprio questa la loro difficoltà, considerata dal punto di vista di un riformista liberale.
Una quarta fase dev’essere aggiunta. È la fase dell’assistenza al reo. La sua situazione generale, sociale e personale, è ormai ben nota al tribunale. La discussione sulle possibilità da parte del reo di ristabilire la situazione della vittima non può essere portata avanti senza dare nello stesso tempo informazioni sulla sua stessa situazione.
Questa potrebbe aver presentato bisogni evidenti di un’azione sociale, educativa, medica o religiosa – non per prevenire un ulteriore crimine, ma per l’intrinseca necessità di affrontare tali bisogni. I tribunali sono delle pubbliche arene, i bisogni sono resi visibili. È importante però che questa fase venga dopo la sentenza. Altrimenti ci troveremmo di fronte a un riemergere dell’intero spiegamento delle cosiddette “misure speciali” – trattamenti obbligatori –, che sono molto spesso solo un eufemismo per una carcerazione indeterminata.
Con queste quattro fasi, i tribunali rappresenterebbero un insieme di elementi tratti dai tribunali civili e penali, con un forte accento però posto sull’elemento civile.

Un tribunale orientato in senso popolare
La seconda principale caratteristica del modello di tribunale che ho in mente è quella di essere un tribunale con un grado assai elevato di orientamento popolare. Ciò è essenziale quando i conflitti sono considerati come una proprietà da condividere. Questo vale per i conflitti come per tante buone cose: non ce n’è una provvista illimitata. Ci si può prender cura dei conflitti, possono essere protetti, accuditi. Ma ci sono dei limiti. Se ad alcuni conflitti viene dato maggiore accesso alla trattazione, ad altri ne viene dato meno. È semplicemente così.
La specializzazione nella soluzione dei conflitti è il nemico principale; specializzazione che in un tempo adeguato – o non adeguato – conduce alla professionalizzazione. Ciò accade quando gli specialisti ottengono sufficiente potere per affermare che hanno acquisito capacità speciali, soprattutto attraverso il corso di studi, capacità così elevate da non potere essere gestite che da specialisti certificati.
Avendo chiarito chi è il nemico, siamo anche capaci di specificare il fine; riduciamo al massimo la specializzazione e in particolare la nostra dipendenza dai professionisti all’interno del sistema di controllo del crimine.
L’ideale è chiaro; dovrebbe essere un tribunale di eguali che rappresentano se stessi. Quando sono capaci di trovare una soluzione tra di loro, non c’è bisogno di giudici. Quando non sono capaci di farlo, i giudici dovrebbero essere loro pari.
Forse il giudice potrebbe essere la persona più facile da sostituire, se facessimo un serio tentativo di avvicinare maggiormente i nostri attuali tribunali a questo modello di orientamento popolare. Noi abbiamo già dei giudici popolari, in linea di principio, ma c’è una bella differenza rispetto alla realtà. Ciò che abbiamo, sia in Inghilterra sia nel mio Paese, è una sorta di non-specialisti specializzati. Innanzi tutto essi vengono utilizzati più volte. In secondo luogo, alcuni vengono persino formati, partecipano a corsi speciali oppure si recano in Paesi stranieri per apprendere a comportarsi come un giudice popolare.
In terzo luogo, la maggior parte di loro rappresenta anche un campione estremamente distorto della popolazione rispetto al sesso, all’età, all’educazione, al reddito, alla classe sociale [(5) Per la documentazione più recente, si veda Baldwin (1976)].e all’esperienza personale come penalisti. Io immagino un sistema in cui a nessuno venga dato il diritto di prender parte a una soluzione del conflitto più di alcune volte, dovendo quindi attendere finché tutti gli altri membri della comunità abbiano fatto la stessa esperienza. Questo intendo per “giudici veramente popolari”.
Gli avvocati dovrebbero essere ammessi in tribunale? In Norvegia abbiamo un’antica legge che proibisce loro di entrare nei distretti rurali. Forse dovrebbero essere ammessi nella prima fase, in cui si decide se l’uomo è colpevole. Non ne sono sicuro. Gli esperti sono come il cancro per ogni corpo popolare. È esattamente il modo in cui Ivan Illich descrive il sistema educativo in generale. Ogni volta che la durata della scolarità obbligatoria in una società aumenta, si riduce
anche la fiducia della gente in ciò che ognuno ha imparato e capito da solo. Gli esperti comportamentali rappresentano lo stesso dilemma.
C’è un posto per loro in questo modello? Dovrebbe esserci qualche posto?
Nella fase 1 (decisioni sui fatti), certamente no. Nella fase 3 (decisioni su una eventuale punizione), certamente no. È troppo ovvio per sprecarci su delle parole. Abbiamo la dolorosa catena di errori a partire da Lombroso, passando attraverso il movimento per la difesa sociale sino ai recenti tentativi di sbarazzarsi di persone supposte pericolose in base alla valutazione di chi sono e alla previsione di quando non saranno più pericolose. Che queste idee muoiano, senza ulteriori commenti.
Il problema reale ha a che fare con la funzione di servizio degli esperti comportamentali. Gli scienziati sociali possono essere percepiti come risposte funzionali a un segmento della società. La maggior parte di noi ha perduto la possibilità fisica di fare esperienza della totalità, sia a livello del sistema sociale sia a livello della personalità individuale. Gli psicologi possono essere considerati come degli storici dell’individuo; i sociologi hanno in gran parte la stessa funzione per quanto riguarda il sistema sociale. Gli assistenti sociali sono lubrificante per tutto il meccanismo, una sorta di consiglio di sicurezza. Possiamo funzionare senza di loro, la vittima e il reo starebbero peggio senza?
Forse. Ma sarebbe enormemente difficile far sì che un tribunale del genere funzionasse se fossero tutti lì. Il nostro tema è il conflitto sociale. Chi non è messo perlomeno un po’ in difficoltà nel gestire i conflitti sociali di qualcheduno se viene a sapere che allo stesso tavolo c’è un esperto proprio di questa materia? Non ho una risposta chiara, solo alcune forti sensazioni che stanno dietro a una vaga conclusione: conviene che ci sia il minor numero possibile di esperti comportamentali da affrontare. E se dobbiamo averne qualcuno, che non sia, per amor di Dio, uno specialista del crimine e della risoluzione del conflitto. Che ci sia permesso di avere esperti generici con una solida base fuori dal sistema di controllo del crimine.
E ancora un ultimo punto che ha rilevanza sia per gli esperti comportamentali sia per gli avvocati: se riteniamo che la loro presenza sia inevitabile in certi casi o in certe fasi, cerchiamo però di far capire loro i problemi che creano rispetto a un’ampia partecipazione sociale. Cerchiamo di far sì che si percepiscano come persone che costituiscono una risorsa, rispondendo quando vengono loro poste delle domande, ma non spadroneggiando, non mettendosi al centro. Possono essere d’aiuto nel contestualizzare i conflitti, non nel dominarli.
Traduzione di Donatella Zazzi


Gente di giustizia


Bibliografia
Baldwin, J. (1976) The Social Composition of the Magistracy, “The British Journal of Criminology”, vol. 16, n. 2, pp. 171-174

Baum, M.-Wheeler, S. (1968) Cap.VII: “Becoming an Inmate”, pp. 153-187, in S. Wheeler (a cura di), Controlling Delinquents, con l’assistenza editoriale di H. Macbill Hughes, New York, Wiley

Bottoms, A. E.-McClean, J.D., con l’assistenza di I. Todd (1976) Defendants in the Criminal Process, London, Routledge and Kegan Paul

Carlen, P. (1976) The Staging of Magistrates’ Justice, “The British Journal of Criminology”, vol.16, n.1, pp. 48-55

Gluckman, M. (1955) The Judicial Process among the Barotse of Northern Rhodesia, Manchester University Press, per conto del Rhodes-Livingstone Institute, Northern Rhodesia (2ª ed. aumentata 1967)

Kinberg, O.-Inghe, G.-Riemer, S. (1943)   Incest-Problemet i Sverige, Stockholm, Natur och Kultur

MacPherson, C.B. (1962) The Political Theory of Possessive Individualism. Hobbes to Locke, London, Oxford University Press; trad. it. Libertà e proprietà alle origini del pensieroborghese. La teoria dell’individualismo possessivo da Hobbes a Locke, prefazione di A. Negri, Milano, ISEDI, 1973 (Milano, Mondadori, 1982)

Newman, O. (1972)  Defensible Space. People and Design in the Violent City, London, Architectural Press

Schumacher, E.F. (1973) Small is Beautiful A Study of Economics as if People Mattered, London,
Blond and Briggs; trad. it. Piccolo è bello. Una tecnologia dal volto umano, Milano, Moizzi, 1977 (Milano, Mondadori, 1980, col titolo Piccolo è bello. Uno studio di economia come se la gente contasse qualcosa)

Scott, P. D. (1959)
Juvenile Courts: the Juvenils Point of View, “The British Journal of Delinquency”, 9, pp. 200-210

Vennard, J. (1976)
Justice and Recompense for Victims of Crime, “New Society”, 36, pp. 378-380



Rue Transonain

Illustrazioni di Honoré Daumier
Archivio Primo Moroni
Via Conchetta 18 – 20136 Milano
tel. 0258105688
archiviomoroni@ecn.org
http://www.inventati.org/apm
http://www.inventati.org/apm/abolizionismo
fip APM, Milano, febbraio 2011