venerdì 7 settembre 2012

IL DESIDERIO COME VOLONTÀ E RAPPRESENTAZIONE




IL DESIDERIO COME VOLONTÀ E RAPPRESENTAZIONE

“Disgrazia a chi non ha più nulla da desiderare.”

J. J. Rousseau, Giulia o la nuova Eloisa, 1761.

La felicità è un’idea nuova in Europa.
Saint-Just, 15 ventoso dell’anno II (3 marzo 1794).

“Prendo i miei desideri per la realtà perché credo nella realtà dei miei desideri.”
Graffiti alla base della scala rococò del grande anfiteatro della Sorbona, maggio 1968.

Poiché le passioni sono state sottomesse per secoli alla redditività e al potere, la natura apparente dei desideri ha subito una trasformazione che rende difficile avvicinarsi allo stesso concetto di “desiderio” senza aver prima ripulito il terreno della riflessione da una serie terribile di falsificazioni e di alterazioni di senso poco raccomandabili.
Cominciamo con il ristabilire le connessioni coerenti tra due slogan del ’68 che gli spiriti contorti e fobici, carichi di odio nei confronti della rivoluzione culturale del “bel maggio”, oppongono con cieco accanimento: “Godiamo senza ostacoli” e “Consumate di più, vivrete di meno”.
Ricordiamoci semplicemente che il godimento non può cominciare che dalla coscienza radicale dei desideri naturali, i quali non possono essere manipolati e trafficati dalla società dei consumi senza tornare a noi come mostri vampireschi e osceni.
Quasi mezzo secolo dopo l’eclatante sconfitta vittoriosa del maggio ’68 (sconfitta perché il vecchio mondo è sempre lì, più nichilista che mai; vittoriosa, tuttavia, perché la stessa natura suggerisce ormai l’opzione di uno sciopero generale antiproduttivista), l’emancipazione attraverso il godimento della vita è la sola risposta radicale a una sopravvivenza miserabile e alla volgarità stupida e frustrante del consumismo.
Allora, mentre una frattura rivoluzionaria si era subitamente operata nelle coscienze, la critica dello sfruttamento e dell’alienazione attraverso il lavoro era diventata un’evidenza; in seguito, una pedagogia intensiva si è incaricata per decenni di restaurare la servitù volontaria.

In un mondo finito, una crescita infinita è visibilmente una follia integralista, assurda e nichilista, nel momento in cui le nocività dell’industrializzazione svelano crudelmente l’obsolescenza crescente dell’uomo nella corruzione della biosfera.
Prima ancora che la rivolta di maggio si spegnesse, la natura lanciava già dei temibili segnali schiaccianti di responsabilità per il capitalismo e per la sua civiltà produttivistica. Invano.
Mentre la centralità operaia si sgretolava definitivamente sulle barricate della vita quotidiana, una nuova coscienza di classe cominciava allora il suo periglioso cammino presso i soggetti smarriti di un proletariato in preda alla confusione ideologica e al recupero consumistico.
L’insurrezione in sospeso è stata rapidamente sviata dai mercenari del capitalismo e dai suoi oppositori spettacolari (leninisti, trotzkisti, maoisti e altri gauchisti autoritari e fascisti rossi); poi, colmo dei colmi, è lo stesso capitalismo che s’è visto obbligato ad abolire di sua volontà quel lavoro salariato che aveva tanto sacralizzato nel paradiso democratico del preteso mondo libero. La logica finanziaria che rode come una crisi economica strutturale, lo spinge, infatti, a delocalizzare la sfera produttiva là dove il costo del lavoro resta insignificante (Cina, India, e altri paesi definiti emergenti dall’ironia involontaria del dominio), rendendo la sacralizzazione del lavoro visibilmente ridicola.
L’abolizione tendenziale del lavoro in assenza di qualunque difesa dei salari annuncia al capitalismo trionfante nel suo sfruttamento del tempo di lavoro astratto il suo scacco postumo di fronte al progetto concreto di emancipazione portato dagli eredi degli insorti di Maggio che, al contrario, avevano messo il lavoro in testa alla lista delle “cose” esecrabili da abolire.
Ora, se non è affatto il caso di tornare al passato, è arrivata l’ora di ritrovare nel presente lo slancio per una rivoluzione culturale più urgente che mai. Riprendiamo, dunque, il filo di Arianna di una coscienza radicale perduta nelle curve ideologiche di un consumismo che ha ridotto l’umanità al clone mostruoso dell’homo œconomicus.

In qualunque cultura gli uomini liberi amano sempre giocare con l’appetito affinandolo per poi soddisfarlo fraternamente prima che si deteriori tragicamente in bisogno.
Tutta la storia dell’umanità danza intorno alla festa e all’abbondanza sbirciata con la paura della penuria e del lutto che quest’ultima comporta.
Cionondimeno, a partire dalla preistoria, è inequivocabile che le carestie, le carenze e le catastrofi umanitarie sono state prodotte da una cattiva gestione della società umana gerarchizzata e organizzata attorno allo sfruttamento produttivistico e al conflitto da questi generato, ben più che da catastrofi naturali ineluttabili e impreviste.
Si può affermare che “le affettività” (il piacere e il dolore, la gioia e la tristezza) risalgono fino all’animalità. L’uomo vi aggiunge la consapevolezza, cioè la volontà lungimirante di coglierle o evitarle. Così sgorga spontaneamente il desiderio, impaziente di essere soddisfatto in modo creativo e giocoso.
Abbiamo pur inventato, nella notte dei tempi, con rituali diversi - sacri o profani ma omogenei nella loro comune ricerca di godimento - una convivialità fondatrice della comunità umana.
Essa è sopravvissuta fino a noi - individui in perpetua promiscuità ma afflitti dalla solitudine e manipolati dalla globalizzazione di una società artificiale - attraverso la festa moderna dell’aperitivo, cerimonia che incarna dappertutto, spontaneamente, la complicità onnipresente verso una felicità condivisa.
Civiltà del lavoro contro civiltà della festa.


L’uomo è mortale, certo, ma anche e soprattutto - per il tempo di un’esistenza - un amante della bella vita che la civiltà del lavoro ha spesso ristretto a un uomo economizzato, ridotto a calcolare la sua speranza di vita ma incapace di vivere; assai ottuso, dunque, per cadere nella trappola del “mors tua vita mea”, esorcismo che include sempre un sacrificio umano più o meno dissimulato.
All’inizio della vita, il desiderio appare semplicemente come la coscienza attiva dei bisogni spontanei che si soddisfano naturalmente. Si respira e lo si riconosce piacevolmente come un fatto che diventa improvvisamente un tragico bisogno solo se ci manca l’aria. Lo stesso vale per il cibo del corpo e dello spirito che da bisogno soddisfatto naturalmente può trasformarsi in una mancanza più o meno grave e reversibile ma assai poco sublimabile.
Il desiderio precede dunque, in natura, la forma miserabile del bisogno che deriva dalla mancanza. Esso abita naturalmente il corpo e lo spirito di ognuno in quanto coscienza istintiva della felicità comune possibile e l’aiuto reciproco è il comportamento spontaneo, intelligente e sensibile, dell’uomo orgastico, dell’uomo sano alla ricerca gioiosa e avventurosa di felicità.
Il viaggio di ogni esistenza individuale include nei suoi bagagli essenziali la pulsione di vita contro la morte, di piacere contro la sofferenza, della salute contro la malattia, del gioco contro la corvè.
Quando si dice “contro”, tuttavia, il più difficile è di restare dialettici, di continuare a tendere al superamento e di non lasciarsi intrappolare dalla scelta manichea del bene “contro” il male, vuoi da quella particolarmente barbara del vincitore “contro” il perdente.

E se noi sottolineiamo anche che Fagiana ha detto a Drit : “Tu mi conosci”, possiamo dedurne che la relazione di Drit con la fata è più profonda e più essenziale di quel che sembrava; Drit sarebbe dunque l’aspetto femminile di Fagiana, il ragazzo-foresta, che forse fa tutt’uno con la ragazza-foresta.”
Jacques Dournes, Forêt Femme Folie, una traversata dell’immaginario Jörai, Aubier-Montaigne, Paris 1978.

Ogni funzione vitale ha tendenza a rovesciarsi nel suo opposto ogni volta che è troppo contrariata. Essa ha orrore del vuoto statico e dell’attesa immobile poiché la vita è divenire e cambiamento incessante. In questo movimento, l’umano (omo ed etero uniti nella lotta) si muove in continua tensione verso la fusione dei generi e la totalità.

In effetti, l’uomo è sempre femminile e maschile, armonia mobile dei generi, io e l’altro in una dialettica senza fine, come il desiderio.
Per questo, del resto, l’uomo totale (femmina/maschio) è naturalmente un animale sociale, poiché l’“io” non esiste senza l’altro né senza il superamento della separazione tra il corpo e lo spirito di cui la religione si è impossessata da sempre (o quasi) per eternizzarla.
In questo senso, l’emancipazione della donna, tanto necessaria alla specie, passa per la sua capacità di riappropriarsi del termine “uomo” come inclusivo dei due generi umani piuttosto che per un’ossessiva femminizzazione simbolica delle parole o dei ruoli. Di una parità burocratica il femminile non sa che farsene. La sua liberazione passa piuttosto per il dono generoso di un po’ di femminilità al povero maschio…dominante ormai soltanto sulle rovine dell’orgasmo, dal momento che anche il sesso cosiddetto forte subisce la minaccia di castrazione che l’imperativo fallico del modo di produzione dominante evoca.
Come siamo arrivati a questo punto?

Il desiderio umano per eccellenza è quello del dono di sé, del dono orgastico che nell’unione con l’altro realizza la natura sociale dell’essere umano. Quest’impulsione fusionale si cerca nella complessità del movimento che tende contemporaneamente alla realizzazione e al superamento dell’animalità. Non c’è l’uno senza l’altra. Cioè, si supera l’animalità solo realizzandola e viceversa.
Ai suoi tempi, Fourier fece già uno sforzo enorme di riflessione e di sperimentazione per descrivere la gamma dei piaceri concepibili. Io mi limito qui a citare anche il desiderio di superamento, di andare avanti, il desiderio di conoscere legato al piacere di cercare e trovare che può scivolare fino all’ambiguo piacere estatico della trascendenza, laddove il desiderio di verità si traveste da desiderio spirituale, impalpabile e quindi facilmente carico di farneticazioni più o meno opportuniste.
Così, in un incessante mescolarsi di sensibile e d’irrazionale, penetriamo nel territorio immenso della perversione che può variare dal gioco orgastico piacevole e complice fino all’umiliazione autoritaria di un sadismo sfrenato.
Ora, come fosse un caso, i grandi desideri che animano gli esseri umani sono stati ricondotti all’ingrosso ai sette peccati capitali (l’accidia, l’orgoglio, la golosità, la lussuria, l’avarizia, la collera e l’invidia) identificati da Tommaso d’Aquino (grande maestro scolastico di una filosofia ridotta - soprattutto dai monoteismi - ad ancilla teologiae).
Scaricando su ogni desiderio un qualche senso di colpa, solo i bisogni hanno diritto di cittadinanza nella civiltà dello sfruttamento economico: desiderio di cibo (golosità), desiderio carnale (lussuria, concupiscenza), desiderio di ricchezza (cupidità, avarizia), desiderio di potere (ambizione, invidia), desiderio di onori (orgoglio).
Colpevolizzando la sorgente stessa della voglia di vivere nell’ottica della felicità, la religione - tutte le religioni, incluse le ideologie politiche che si vendono come laiche - ha assolto il compito di piegare un essere innamorato della libertà al ruolo di produttore di beni in una società gerarchica. Mescolando all’ingrosso dei desideri naturali con le loro conseguenze culturali, la religione è riuscita a gerarchizzare gli uomini colpevolizzandoli, anziché aiutarli a emanciparsi. Per giustificare l’alienazione necessaria al buon funzionamento della società produttivistica, il pensiero religioso si è occupato vantaggiosamente di tutte le forme di voglia di felicità per tramutarle in sacrifici.


La soddisfazione è il nome dato allo stato d’animo e/o del corpo che accompagna la realizzazione di un desiderio e va distinta dal semplice appagamento che non riguarda che il soddisfacimento di un bisogno. In questo senso, la soddisfazione costituisce un sentimento più che una semplice sensazione di sollievo, ma essa si oppone allo stato di frustrazione perché è anche dissipazione di dispiacere, di pena psicologica (la tensione del desiderio ridotto a bisogno s’accompagna di uno stato di dispiacere psicologico).
La soddisfazione si distingue dal semplice piacere in quanto quest’ultimo non definisce che una sensazione piacevole, edonistica: impressione fisica (piacere della carne), impressione culturale (piacere di vedere qualcosa di bello, di giudicare una teoria convincente), impressione sociale (piacere del calore umano, dell’amore), impressione psicologica (piacere di sentirsi ricco di potenza), impressione spirituale (piacere di considerare qualcosa che va oltre di noi).
Nella cultura sacrificale dominante, il più difficile è distinguere il desiderio dal bisogno (che rinvia alla carenza e a quanto è utile per colmarla) e dalla necessità (che può essere impersonale, vuoi logica). Per gli schiavi della civiltà del lavoro, il desiderio non è che uno sforzo di riduzione di una tensione derivata da un sentimento di carenza e, in tal senso, non si desidera che ciò di cui si crede mancare. Confuso con il bisogno, il desiderio è talvolta considerato positivamente poiché si considera l’oggetto desiderato come fonte di piacere o di appagamento, vuoi di felicità; talvolta, invece, è visto negativamente come una fonte di sofferenza, come una forma d’insoddisfazione permanente.
In effetti, il desiderio che assicura la soddisfazione non si riduce mai a un edonismo: è epicureo in quanto realizzazione di sé.
Da un punto di vista psicologico, il desiderio è una tendenza diventata cosciente di sé stessa che si accompagna della rappresentazione dello scopo da raggiungere e spesso di una volontà di mettere in atto dei modi per raggiungere lo scopo.
Confrontato con degli oggetti o degli obiettivi considerati una possibile fonte di soddisfazione, l’uomo vi tende naturalmente e il primitivismo animale meccanicista del maschio dominante della società patriarcale fa presto ad accaparrarsi il potere sacralizzando al contempo la divisione del lavoro e la gerarchia.
Così è nata la società produttivistica e con essa lo scadimento del desiderio, sottomesso al ricatto economico fino alla fase terminale del modo di produzione capitalistico, laddove la falsa coscienza stessa del desiderio è stata messa al lavoro sottoforma di pubblicità consumistica.



L’umanità non è una specie naturale. È una creazione, la sola opera d’arte capace di trasformare una scimmia impaurita in un essere umano inventore di felicità. La quale felicità, neppure lei esiste in natura, e soprattutto non come prodotto di una ricchezza che ha barattato l’essere con l’avere, riducendo la poesia del vivente a un’economia politica la cui redditività è la sola misura degli esseri ancor più che delle cose.
La realizzazione della felicità è talmente difficile e aleatoria perché non può essere che individuale e collettiva al contempo. Alla minima ricaduta nel pessimismo di una volontà depressa, spunta sempre qualche predatore opportunista, armato dello stupido ottimismo di un razionalismo morboso, per sacralizzare l’avere e umiliare l’essere in quanto fragile utopista senza dio né padrone.
Attraverso una sacralizzazione ossessiva del reale, il pensiero religioso (che sta al misticismo come la malattia alla febbre) lavora il corpo e lo spirito degli umani incompiuti trasformando il dubbio in credenza. Così sono apparsi gli improbabili dei del cielo, prima che l’armatura caratteriale rigida forgiata dall’alienazione passasse al servizio di una merce ben terrestre per mezzo di un materialismo volgare e ottuso.
La felicità mercantile si è allora sostituita alla vera felicità in una frustrazione generalizzata, ma il gioco di prestigio non era ancora finito e il peggio è arrivato sottoforma di una società dello spettacolo dove persino l’avere si è ridotto a una rappresentazione poiché se l’abbondanza è un presupposto di una società finalmente umana, è soprattutto questione di un’abbondanza dell’essere, ben più che dell’avere e del suo scadimento ultimo nell’apparire.
Mollati gli ormeggi che legavano ancora i beni al loro valore d’uso, il feticismo della merce inventò allora l’adorazione del denaro virtuale e la scimmia sapiens-sapiens in giacca e cravatta fu presto messa di fronte all’evidenza che non si può mangiare né bere una tale ricchezza miserabile e autoreferenziale.
Certo, nessuno può negare l’evidenza che in un mondo asfittico, abbandonato alle incertezze di una natura capricciosa (nel senso che essa non è affatto l’allevatrice premurosa delle specie che la abitano, ma reagisce sempre alla minima modificazione della sua fragile armonia), i beni materiali sono decisivi per la semplice sopravvivenza dell’animale umano e dell’animale in genere. Il che, tuttavia, non garantisce l’umanità dell’uomo ma soltanto - bene o male e chissà fino a quando - la sopravvivenza bruta di questo primate in perpetua mutazione incompiuta dalla bestia all’umano.

Il vero desiderio è irrecuperabile come la volontà di vivere. Non si accomoda di nessuna ideologia di destra, di sinistra o di altrove. Il suo martello dialettico ama spaccare i mattoni di ogni manicheismo. Il desiderio autentico è rivoluzionario perché è la prima radice dell’umano, la sua prima verità vissuta. Spinge l’individuo cosciente a rifiutare le voglie pubblicitarie che fanno del desiderio alienato il motore dello spettacolo. La sua passione di essere invita spontaneamente al disprezzo per il feticismo dell’avere.
Decompone, così, la falsa coscienza narcisista della politica spettacolare - tutte le ideologie, nessuna esclusa - opponendole l’esigenza di una coscienza di classe attiva perché mostra la frattura tra dominanti e dominati non attraverso un discorso o una morale, ma attraverso la pratica possibile del superamento gaudente delle condizioni di sopravvivenza imposte dal totalitarismo economicista.
Finalmente la questione sociale comincia a decifrarsi: da un lato i soddisfatti dell’insoddisfazione, poveri o ricchi, umanisti o barbari, reazionari o progressisti, crescenti o decrescenti che troppo spesso condividono la stessa preoccupazione di migliorare la sopravvivenza anziché la vita; dall’altro quelli che hanno coscienza di essere degli sfruttati e degli alienati ma si rifiutano di restarlo, ora e per sempre.
Da un lato l’uomo capitalizzato (lumpenborghese e lumpenproletario); dall’altro l’uomo biologico, il proletario assoluto deciso ad auto abolirsi in nome dell’umano che germoglia in lui.
Da un lato quelli che accettano, in un modo o nell’altro, la sacralità (sia quella della civiltà del lavoro che quella antitetica e speculare di una natura divinizzata); dall’altro quelli che non vogliono più lavorare per la sopravvivenza e che si sanno in compartecipazione sensuale con la natura del vivente.
I produttivisti da un lato, gli esploratori di un mondo nuovo attraverso la rivoluzione della vita quotidiana dall’altro.
Per la salvezza della specie, bisognerà pure che ci si decida a praticare quell’idea di felicità che del resto non è più, oggi, un’idea tanto nuova.

Sergio Ghirardi