venerdì 18 gennaio 2013

e vennero come il vento

Subcomandante Marcos with Zapatistas
Photo by Ricardo Trabulsi
Chiapas, 1996


testo tratto da: 

E vennero come il vento. Immagini e parole dal Chiapas in rivolta
diBoldrini Massimo, Albertani Claudio, Ranieri Paolo ed. Massari 1997

LA PRIMA RIVOLUZIONE DEL SECOLO XXI

“Il mondo possiede già il sogno di un tempo di cui deve ora possedere la coscienza per viverlo realmente”

(Guy Debord)
 


“Il Messico che ha fatto due o tre rivoluzioni in un secolo non deve temere di farne un'altra: la prossima, se ci sarà, avrà senza dubbio un carattere di gravità eccezionale, perché questa volta dovrà risolvere problemi fondamentali”

(Antonin Artaud)


Fu una rivoluzione messicana ad aprire un secolo di rivoluzioni quale è stato il Novecento.
Contadini, allevatori, banditi, meticci e indigeni, si ribellarono per salvaguardare il proprio modo di vivere tradizionale, per affermare la propria libertà, per mantenere le proprie antiche strutture sociali e comunitarie. Si ribellarono per poter rimanere se stessi e, prima di essere ricacciati indietro, giunsero a conquistare la capitale.
Invitato a sedere sul seggio rimasto vuoto di Presidente del Messico chi li guidava si rifiutò e fece ritorno al pueblo. Si chiamava Emiliano Zapata e ancora oggi, in sua memoria, diamo a quei messicani di allora il nome di zapatisti.
Ora che il secolo volge al tramonto, altri indigeni e meticci, braccianti e contadini, artigiani e disoccupati, si sollevano per creare un modo nuovo di vivere, per riaffermare la propria libertà, per ricostruire comunità e strutture sociali. Si sollevano perchè ognuno possa essere se stesso.
Non hanno ancora conquistato Città del Messico, ma vanno conquistando molti cuori in tutto il mondo. Levano ancora alto il volto e il nome di Emiliano Zapata.
Sono gli zapatisti del XXI secolo, il presente che mette radici nel passato. I motivi rivoluzionari di un’epoca agonizzante che si incontrano con quelli dell’epoca a venire.
Oltre l'ammirazione, aldilà dello stupore, è venuta l'ora di conoscerli.


“La vita non può più essere uno strisciare benedetto delle complici provvidenze dal solco di ciurma ammazzata allo scheletro privo di spettro perchè da ogni solco, simile a una moneta nuova, Zapata fa levare il raccolto per sempre maturo dei canti diseredati”

(Benjamin Peret)

Il primo gennaio del 1994, alcune migliaia di uomini e donne dal volto coperto, armati a volte solo di fucili di legno, “arrivarono come il vento” in sette municipi del Chiapas e nello stesso momento irruppero in un miliardo di televisori di più di cento nazioni, appena dopo i valzer di Strauss del concerto di capodanno. Da quel giorno qualcosa è cambiato nel mondo.
Raramente un movimento rivoluzionario è apparso sulla scena della storia così impreveduto: nessun servizio segreto dei tanti che pretendono di osservarci e di interpretarci, era stato capace di immaginare che qualcosa di radicalmente nuovo potesse nascere, all'indomani dell’annunciata fine della storia e delle sue troppo frettolose esequie.
Raramente un movimento rivoluzionario si è mostrato così acutamente consapevole, fin dal primo istante, della necessità di comunicare, di farsi ascoltare e, più ancora, di farsi comprendere.
Corrisponde a tale obiettivo la creazione di un personaggio di straordinaria presa emotiva come il Subcomandante Marcos.Questi - per suo conto uomo amabile e valoroso, colto e sensibile - svolge un incarico essenziale: quella di interprete, di traduttore, di ponte, di “interfaccia” fra le comunità ribelli e i mille diversi piani della società nazionale ed internazionale.
Per una precisa scelta, di cui ogni giorno di più ci è dato di comprendere la portata, gli zapatisti di sé ci hanno proposto numerose e chiarissime definizioni “in negativo”(non siamo un partito, non ci interessa costituire il nucleo dell'ennesima internazionale, non intendiamo fondare alcuna ideologia) e neanche un'affermazione perentoria, nessun “messaggio”.
Pure, nel modo paradossale che in questi tre anni abbiamo imparato a conoscere, essi hanno suggerito almeno due “chiavi di accesso” al loro segreto, il segreto di alcune piccole comunità indie rimaste per secoli ai margini delle grandi correnti della storia che d’un tratto invitano il mondo intero a reclamare insieme a loro “democrazia, libertà, giustizia”.
Una prima indicazione si ricava da una delle più note dichiarazioni di Marcos: “...chi desidera conoscere il volto che sta sotto il passamontagna, semplicemente prenda uno specchio e si guardi” (discorso del 23 febbraio 1994). Non si tratta di un artificio letterario. Noi - sembra dirci il sup - non parliamo solo del Chiapas, la nostra non è una guerra locale, ma un momento di una lotta più vasta che può, che deve riguardare, che riguarda tutti.
L’altra indicazione - che completa la prima e la precisa - ci arriva dall’intervento dell'EZLN al Tavolo 1 dell'Incontro Intercontinentale (o, con un poco di ironia, Intergalattico) per l’Umanità e contro il Neoliberismo (La Realidad, Chiapas, 31 luglio 1996): “ognuno di noi porta con sé una borsa in cui ripone ciò che ha. Quando le borse si rompono e ciò che ne esce si mette insieme, quello è lo zapatismo”.
Zapatismo siamo tutti noi che ci battiamo; noi che ci parliamo e ci ascoltiamo.
Zapatismo siamo noi, oggi.


“Anzitutto, ecco a voi Cristoforo Colombo, impegnato, appunto, nella scoperta dell'America. Il cielo, come certamente potete vedere, è tutto coperto, ma il mare è calmo e sembra in attesa. I marinai di Colombo corrono qua e là sul ponte urlando “Terra!”: alcuni si abbracciano, altri si gettano ai suoi piedi, ma lui, calmo, standosene appoggiato all’albero maestro, stende la mano innanzi a sé dicendo con voce grave: “Ecco l'America!” Lontano, là, nella nebbia, dove si rompono le onde, potete certamente notare quella striscia verde e marcata, e sopra di essa un uomo nudo, coperto soltanto d'una foglia di fico. Quell’uomo è una sentinella, piazzata lì dall'America. Non appena vede la grande nave, egli grida nella sua lingua: “Chi è là?” e Colombo gli risponde: “Amici! Il mio nome è Colombo”; “Che cosa cercate qua?” chiede l'abitante del Nuovo Mondo; “Vogliamo solo scoprire” è la risposta. “E nient'altro?” dice l'indigeno che saluta ponendo due dita sulla testa, e poi aggiunge: “Avvicinatevi pure, è da tanto tempo che aspettiamo di essere scoperti!”

(Walter Benjamin)

Fin dal principio, e con nitidezza sempre maggiore nel procedere della sua breve storia, il neozapatismo si propone come qualcosa di coscientemente diverso (e non solo differente o successivo) dalle guerriglie di cui l'America Latina ci ha offerto negli scorsi decenni esempi molteplici e spesso oltremodo significativi.
Radicalmente disincantato rispetto alle correnti politiche fondate sull'affermazione di un ideale, di una scienza o di un programma, lo zapatismo si connota come la prima rivoluzione del millennio a venire sulla base di vari elementi: la critica dei partiti tradizionali (compresi quelli di sinistra), il rifiuto delle avanguardie, una nuova concezione del potere, l’apertura verso l'esterno - altre esperienze, altri modi di vita, altre forme d'azione - e l’apporto dei popoli indigeni.
Sono temi - compreso quello degli indigeni - che vanno oltre il Chiapas, oltre il Messico ed anche oltre le Americhe per investire la totalità del globo. Gli zapatisti infatti si dirigono esplicitamente anche a tutti i “diversi”, a tutti coloro (popoli o persone) che la civiltà occidentale colloca fuori o ai margini della storia.
Uno dei paradossi che ci giungono dal Chiapas è che siano proprio i maya, considerati un popolo impermeabile alle influenze esterne, ad avviare il primo movimento di importanza mondiale contro il neoliberismo e ad aprire in tal modo nuove prospettive per il domani del mondo.
Le ragioni del paradosso sono molteplici e trovano riscontro sia nelle correnti sotterranee della storia locale - “siamo specialisti in resistenza” dichiarano con fierezza i ribelli - che nelle specifiche vicende che sono all’origine dell'EZLN.
Fu allora, quando alcuni militanti giunsero in Chiapas dalla capitale messicana con l'intenzione di impiantarvi un fuoco di guerriglia.
Era l’epoca della vittoria Sandinista in Nicaragua e della guerra civile in Guatemala e Salvador ed essi avvertivano l’influenza di quelle esperienze, così come quella della rivoluzione cubana. Lo schema era semplice, le certezze totali. Come “avanguardia”, loro compito era elaborare la “linea corretta” che le “masse” avrebbe poi seguito con inevitabile entusiasmo.
Il contatto con i maya del Chiapas produsse però qualcosa di molto diverso: gli evangelizzatori - e non è la prima volta che succede laggiù - furono a loro volta evangelizzati.
L'EZLN è figlio di questa reciproca scoperta in cui a poco a poco l’elemento materiale, i rapporti reali,  la pratica quotidiana vennero a prevalere sull'elemento dottrinale, le reciproche prevenzioni, i pregiudizi, le formule importate.
Il superamento discende direttamente dalla scoperta che la prospettiva rivoluzionaria è estranea a qualsiasi modello precostituito e si produce solo a partire da un tessuto di relazioni collettive come liberazione in processo.
A loro volta i maya divenuti zapatisti scoprirono che l'affermazione delle proprie particolarità passa necessariamente per il riconoscimento di tutte le particolarità, non unicamente etniche, ma sessuali, sociali, culturali, di costume.
In un mondo devastato dalle guerre civili, essi impugnano le armi non per esercitare la violenza risentita e sterile dei perdenti, ma per essere ascoltati ed ascoltarsi, per costruire insieme agli altri un mondo dove tutti si possa essere uguali e tutti si possa essere diversi.
Con le armi inusuali dell’ironia e della tenerezza, della radicalità e del paradosso essi, come direbbe Luis Cardoza y Aragón, si battono “non con nostalgia del passato, ma con nostalgia del futuro”.
In prospettiva, ciò comporta il superamento di ogni etnicismo o localismo (così come di ogni “indigenismo” e “indianismo”) e per i medesimi motivi, l’affermazione limpida di valori di ordine universale, non più riconducibili alla collera o all'antagonismo, ma portatori di una sintesi inclusiva. Una sintesi non intesa come compromesso, punto medio fra contrapposte esigenze, ma come apertura illimitata di libertà possibili.


“Leviamoci tutti in piedi, mandiamo a chiamare tutti, che nessuno rimanga indietro”

(Popol Vuh)

Le radici del futuro cui guarda la ribellione zapatista affondano in una struttura millenaria, mille volte rinata dalle proprie ceneri: il pueblo, la comunità. Sintesi tra le esperienze preispaniche e i liberi municipi di fonte europea, il pueblo indio con i complessi meccanismi interni di livellamento della ricchezza, le strutture civico religiose ed il sistema di rotazione delle cariche è la leva impiegata dai neozapatisti per sollevare il macigno che grava sui popoli del Chiapas.
Ciò che i maya posseggono tuttavia, non è certo una mitica “comunità reale” ma la pressante esperienza della sua necessità, laddove la realtà nelle metropoli è all’opposto quella di un vuoto inafferrabile, in cui le merci e le immagini paiono aver soppiantato l’esperienza umana.
Unica vera risorsa dei popoli indigeni, la comunità e la cultura che essa esprime, non emerge intatta dal fondo del passato, ma è costruita e seguita a costruirsi nel vorticoso scontro con la realtà di tutti i giorni. Uno delle cause che stanno all’origine della ribellione è proprio il processo di differenziazione interna e dissoluzione delle comunità indigene storiche risultato dei complessi processi di penetrazione del capitale nella regione de Los Altos.
Se l’antropologia culturale ci ha propinato per decenni l’immagine delle comunità indie come residui del passato, la ribellione del primo gennaio ci restituisce un quadro molto più articolato in cui le strutture comunitarie non permangono intatte, ma si disfanno, si rigenerano e si rinnovano in continuazione.
L'individuo nasce nella comunità e - se lo desidera - in essa può vivere e morire. La rettitudine si manifesta innanzitutto come capacità di agire restituendo e preservando il significato originale del cosmo.
Proprio l’intensità dei suoi postulati implica che la comunità scelga di darsi dei limiti, che non sia nè voglia divenire una struttura totalitaria, impegnata a coprire integralmente la superficie del mondo.
Essa ha un proprio spazio e un proprio tempo, presuppone dei vuoti e riconosce a tutti il diritto alla separazione, all'esilio e, nell’ultimo dei casi, alla fondazione di nuove comunità. Se è vero, perciò, che si nasce nella comunità, è altrettanto vero che in essa si permane per una scelta precisa e non per motivi di razza.
Ciò è lampante nel caso della giungla Lacandona, una regione di immigrazione dove, fin dal principio, arrivano bianchi e meticci insieme a indigeni provenienti da differenti etnie.
Nell’universo multiforme e contraddittorio “del muschio e dell’orchidea” covano peculiari identità collettive che danno vita a ciò che Antonio García de León chiama una nuova civiltà popolare. É questo un immenso calderone dove gli emigranti - braccianti e contadini senza terra - inseguono il sogno della Nuova Gerusalemme, si scontrano con il potere dei latifondisti, danno vita a nuovi rapporti sociali e sviluppano le esperienze di autogestione e democrazia diretta che porteranno alla creazione dell’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale.


“La politica tratta della comunità e della reciprocità fra esseri differenti”

(Hannah Arendt)

La separazione, la possibilità della rottura, è conseguenza dell'ostinata ricerca del consenso, fondamento di ogni decisione e peculiare cardine della democrazia zapatista.
Per ottenere il consenso, i membri della comunità, uomini, donne, perfino bambini, si confrontano, discutono e si battono infaticabilmente. Il consenso si costruisce faticosamente quale espressione della vitalità comunitaria. La partecipazione attiva è necessaria; non essendo, non potendo essere ammessa l’astensione, chi persiste nel dissenso si autoesclude.
La rottura sta a dimostrare che la comunità non è un dato di fatto, ma una tensione permanente sottoposta a continua verifica e immersa nella storia e nelle contraddizioni sociali.
E ciò che può apparire agli occhi occidentali una perdita di tempo - le assemblee, le interminabili discussioni su ogni dettaglio, le pressanti richieste di “prendere posizione” - ci indica come il tempo della libertà e il tempo della sottomissione siano incommensurabili e ci rammentano che “nelle questioni di libertà, un errore di dettaglio è già una verità di stato” (Raoul Vaneigem).
Non per un astratto e ideologico impulso di purezza, ma per la costante necessità di ridefinire e qualificare il soggetto, quel “noi” che nella loro concezione si erge come la vera libertà, una libertà che si realizza nella comunità e grazie ad essa, in tutto dissimile dalla libertà come la intende la filosofia occidentale.
Inseparabile da questo impianto generale è la concezione dell'autorità come servizio: l'espressione dei maya tojolabal “comandare obbedendo” - cui il movimento zapatista ha dato notorietà universale - va compresa all'interno di una prospettiva in cui i dirigenti hanno la funzione quasi notarile di verbalizzare e mettere in pratica decisioni che appartengono unicamente alla comunità. Nell’ambito di tale contesto materiale, questi principi acquistano un significato opposto a quello del funesto “servire il popolo” in cui la subordinazione è rivolta a un dover essere astratto e sacrificale.
B. Traven, il rivoluzionario tedesco che visse in Chiapas negli anni trenta, descrive in “Governo”, l’investitura del capo in un villaggio tzotzil de Los Altos. Quando, al termine di una complicata cerimonia, il bastone di comando è infine consegnato alla nuova autorità, viene portata una sedia. É una sedia bassa, tessuta in fibra vegetale, con un buco al centro, dentro cui sono collocati dei carboni ardenti. Il capo, abbassati i pantaloni, vi posa le natiche. Tra le risate dei presenti, un funzionario si incarica di spiegare il significato del rito: il fuoco deve rammentare al capo di non essere lì per riposarsi, bensì per lavorare nell’interesse della comunità, cui dovrà rendere conto.
É grazie a questa consapevolezza che il bisogno di costruire la comunità viene prima di tutto: a tal fine è essenziale l'autenticità. La parola è sacra perchè in essa si compromette tutta la persona: tramite essa si esprime la dignità degli uomini “verdaderos” (traduzione della voce “tojol”) che significa autentici ed anche portatori di verità.
La profondità di un tale assunto può essere riscontrata perfino nelle strutture linguistiche. Gli studiosi segnalano che il tojolabal è una lingua intersoggetiva in cui il concetto di oggetto è assente: per il tojolabal tutti siamo soggetti che interagiscono e non esistono quindi oggetti da dominare, nè in natura, nè tra gli esseri umani.
La dialettica soggetto-oggetto che fonda e costruisce il discorso occidentale è qui assente. Pietre, stelle, piante, animali, tutto ciò che esiste possiede un cuore, è vivo. La terra è la madre-terra e ad essa bisogna chiedere perdono quando per coltivarla la si ferisce.
Animismo? Superstizione? No. Semplicemente, quello maya - e di altre culture amerindie - è un modo differente e pieno di rispetto di trattare il mondo. Noi diamo ai fenomeni della natura spiegazioni unidirezionali che vorrebbero coglierne ed esaurirne i significati. I popoli indigeni vivono con altri paradigmi, aprendo per noi - senza che ciò implichi un “rifiuto” della scienza - la possibilità della polivalenza. Essi ci rammentano il monito di Horkheimer: nel dominio sulla natura sta inscritto il dominio dell’uomo sull’uomo.


“Siamo i figli di cinquecento anni di lotte”

(Prima Dichiarazione della Selva Lacandona)

“Il movimento zapatista è un salto nel futuro che giunge dal passato” (Eduardo Galeano).
Gli insorti si rendono pienamente conto di dover andare ben oltre le comunità che li hanno originati. La legge sulle donne - esempio quasi unico nella storia dei movimenti rivoluzionari - e le pratica innovativa che vi è sottesa vanno in questa direzione.
Il loro universo culturale, le loro forme espressive, i loro metodi di lotta fanno riferimento a concezioni che sembrerebbe facile liquidare come miti pittoreschi o esotiche leggende: si tratta, viceversa, di riflessioni profonde e spesso di portata universale sugli uomini, i loro rapporti, il loro destino.
A gettare un ponte fra le comunità indie tradizionali e una più ampia prospettiva di trasformazione storica, è un soggetto sociale per molti aspetti nuovo, costituito dalla moltitudine di indigeni sradicati dalla marcia del capitalismo e gettati nel cuore della selva in cerca di lavoro e di terra.
Essi hanno dovuto (o voluto) confrontarsi con altre lingue ed altre etnie, hanno voluto (o dovuto) inventare nuove specifiche forme comunitarie. Hanno compreso che per rimanere se stessi dovevano diventare qualcos’altro: e che, per riuscire, dovevano cambiare il mondo. Sono questi gli uomini e le donne che hanno creato l’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale.
Nella giungla Lacandona sedimentano contraddizioni antiche e moderne; il tempo ciclico della comunità india tradizionale entra in collisione con il tempo irreversibile della società contemporanea e crea le condizione del superamento prospettato dalla comunità zapatista.
La capacità degli insorti di comunicare senza mediazioni con chi si batte per la libertà all'interno delle metropoli del capitalismo maturo, non è perciò un irripetibile miracolo, nè un arcaismo culturale, ma il frutto di un preciso modo di interrogarsi, di ascoltare, di operare.
La medesima impostazione determina anche un’altra caratteristica degli zapatisti, vale a dire la relativa marginalità in cui pongono le questioni attinenti a produzione, distribuzione e consumo.
Ciò risale in parte allo zapatismo storico. Nel suo principale documento programmatico, il Plan de Ayala, Emiliano Zapata aveva rimesso ad ogni singolo pueblo la scelta fra proprietà comunale, cooperativa e individuale.
Quell’impostazione è stata ripresa dai maya del Chiapas per i quali il riprodursi della comunità è parte del suo esistere complessivo e non un problema economico. Popolo fra i più poveri della terra, essi conoscono i loro bisogni: lavorano come hanno sempre lavorato (molto) e consumano ciò che hanno (poco).
Essi apprezzano la nostra solidarietà, e la ricambiano: in un’occasione hanno inviato 500 dollari di contributo alla lotta degli operai dell’Alfa Romeo di Arese. Tuttavia, apprezzerebbero ancora di più il moltiplicarsi degli “ya basta” nel mondo.
Lungi dal contendere su modelli alternativi, sull’economia di guerra o sulle collettivizzazioni forzate gli zapatisti ci hanno interpellato.
Dal Chiapas sembra così tornare - come in un specchio - la critica radicale. Nel corso di un’animata discussione (Incontro Intercontinentale, tavolo 1, Quale politica abbiamo e di quale politica abbiamo bisogno. Aguascalientes di La Realidad, 31 luglio 1996), Gustavo Esteva e Jean Robert prospettarono la necessità di andare oltre l’economia, triste scienza nata per amministrare la penuria e giustificarne l'esistenza.
Il tipo di rapporti che adesso chiamiamo “economici” non pervengono a dominare la totalità della vita che a partire dai tempi moderni. “Nella misura in cui rimaniamo sotto il dominio dell’economia - incalzò Harry Cleaver - rimaniamo all’interno della logica del capitalismo. L’economia è la scienza del capitale. La nostra lotta deve rompere il vincolo tra la vita e il capitale” (Tavolo 2, La Questione Economica. Storie di orrore. Aguascalientes di Roberto Barrios, 2 agosto).
Più che di un’economia alternativa, abbiamo bisogno di una maniera alternativa di concepire i problemi relativi al benessere e le necessita sociali.
La liberazione umana non è - come già sapevano i rivoluzionari del passato - una questione politica, nè economica, ma sociale: essa non passa da una qualsivoglia presa del potere o da una ridistribuzione della ricchezza, ma dall'abolizione di tutto ciò che esiste separatamente dagli individui.
Afferma il comandante David; “Per molti il potere è il palazzo nazionale: per noi il palazzo nazionale è solo un edificio. Il potere è altrove”.


“Quale sarà il nostro contributo alla felicità dei nostri compagni? Che si perda nel nostro cuore tutto ciò che è solo per noi!”
(poema tojolabal)

“Delle capacità individuali non vogliamo sapere nulla al di fuori dell’uso rivoluzionario che se ne può fare, uso che acquista significato nella vita quotidiana” (Raoul Vaneigem)
L’EZLN, quindi, non è un'organizzazione che si sovrappone alle comunità indie, nè qualcosa ad esse estraneo. E' lo strumento di cui i maya del Chiapas (o un buon numero di essi) hanno scelto di dotarsi per difendere il proprio cammino, per fare udire la propria parola.
Marcos, massimo dirigente militare, è subcomandante non perchè egli sia subordinato individualmente a comandanti come David, Tacho, Zebedeo o Ramona e tanto meno, come adombrato da certuni, perchè non indigeno, ma perchè fra gli insorti è subordinata la funzione militare a quella civile.
I principi organizzativi che presiedono alla struttura militare zapatista sono inevitabilmente gli stessi che le comunità adottano in ogni altra attività. Il loro metodo è quello della radicalità intesa nel senso della ricerca puntigliosa della radice di ciascuna questione.
Il risultato cui tendono diviene quello di una straordinaria semplicità. Non la semplicità di chi rimane in superficie, di chi pretende di banalizzare le questioni per “dar modo a tutti di comprendere” ma, viceversa, la semplicità di chi - percorrendo fino in fondo il cammino della consapevolezza - perviene là dove i problemi sono ancora bambini.
E un poco bambini appaiono gli zapatisti in tutta la loro vicenda, dalle grandi feste colorate (che irresistibilmente richiamano alla mente Fourier), all'amore per le parate e per i riti, alla gioia sincera di farsi conoscere e riconoscere, alla curiosità e alla ritrosia nei confronti dei visitatori.
Confida un anonimo militante chol: la ribellione zapatista è una specie di carnevale prolungato, un rito ripetuto e mascherato che dura ormai da tre anni (testimonianza raccolta da Antonio García de León).
Levandosi in armi, i maya hanno rivendicato una vita vera e al tempo stesso iniziano a viverla come un’irripetibile avventura.
Essi ripetono a se stessi e ripetono al mondo: “è tornata la storia, Votan-Zapata è di nuovo in mezzo a noi. E' venuta l'ora di festeggiare perchè abbiamo preso infine possesso della nostra eredità”.


Di fronte al disastro dell'utopia capitalista, rinasce l'utopia dei popoli che hanno saputo resistere”

(Douglas Bravo)

Gli zapatisti vivono sul filo di un confronto mortale. Non sono soli. La loro è l’ultima modalità di un vecchio conflitto, la sempre rinnovata lotta fra la vita e il movimento autonomo del non-vivente, fra gli esseri umani e le merci, fra l'umanità e il neoliberismo.
Il neoliberismo - occorre dirlo - assume, specialmente nell'accezione che Marcos ha adottato nei suoi testi, i connotati di un moderno Leviatano, metafora di una realtà complessa, prodotto di quest'epoca contraddittoria.
Cos’è il neoliberismo di cui parlano gli zapatisti? Non certo una corrente economica da combattere in favore di un’altra. Il neoliberismo è, semplicemente, l’ultima metamorfosi del capitale, quella che tutti - in Chiapas, in Europa o negli Stati Uniti - soffriamo in prima persona. É il nemico comune che unifica i nostri cuori, la fase storica in cui si afferma la dittatura dell’economia a scapito di ogni altra dimensione umana.
É stato il declino del ciclo di rivolte degli scorsi decenni a lasciare nuovamente l'iniziativa a un capitalismo, reso ancor più arrogante dal disvelamento della grande menzogna sovietica. La cortina di ferro è caduta solo per essere sostituita da infinite palizzate
Il capitalismo unisce solo per meglio dividere: è il mondo che separa tutti i mondi.
La globalizzazione dà impulso al vorticare demente delle merci e dei capitali in caccia di sempre più improbabili profitti ed imprigiona gli esseri umani dietro un reticolo di frontiere solo in parte visibili.
Esattamente come Marx aveva previsto, il capitalismo riduce gli esseri umani ai limiti di sussistenza, crea unicamente dissipazione, miseria e rovina.
La guerra - calda, fredda, civile, latente, di bassa o alta intensità - che il nuovo ordine imperiale doveva cancellare dal mondo, si radica ogni giorno di più in tutti i continenti. I proletari di cui era stata frettolosamente proclamata l'estinzione ritornano oggi come profughi, esclusi, prigionieri, sans papier.
Il neoliberismo si presenta così come resa dei conti fra il capitalismo e la sua inevitabile contraddizione, gli esseri umani. Se questo è il nome che i suoi apologeti hanno voluto attribuire ad un periodo storico dai contorni ancora confusi, l'EZLN, adottando a sua volta questa definizione, ha ottenuto al tempo stesso di liberarsi dalle pastoie di una terminologia esausta e snervata dagli abusi della Seconda, della Terza e della Quarta Internazionale e di proporre al mondo un bersaglio preciso, di portata e validità planetaria.


“Se si dice la verità, si è sicuri di essere scoperti, prima o poi”

(Oscar Wilde)

“Servire, non servirsi; rappresentare, non sostituire; costruire, non distruggere; obbedire, non comandare; proporre, non imporre; convincere, non vincere; scendere, non salire” (Congresso Nazionale Indigeno, Città del Messico, 12 ottobre 1996)
L'arma totale degli zapatisti, quella che ha garantito loro tre anni di vittorie pressoché ininterrotte, è senza dubbio la parola.
Parola vera, parola di verità, che viene dal fondo del tempo per parlare al mondo di oggi e al mondo a venire.
Nel regno universale della menzogna, nella società dello spettacolo in cui il vero è solo un momento del falso, essi hanno liberato parole prigioniere: democrazia, libertà, giustizia.
E, incredibile a dirsi, hanno restituito al suo significato originario una parola relegata nel tanfo lessicale della piccola borghesia perbenista: dignità. Dopo gli zapatisti, la dignità non odora più di decoro formale, di aspirazione meschina di sembrare ricchi. Oggi, quando parliamo di dignità pensiamo al valore intrinseco della persona, a ciò che le proprio, alla nobiltà che può e deve appartenere alla condizione umana.
A parlare così è una voce che viene da lontano, attraverso millenni di parole ripetute all’ombra della grande ceiba. Una voce che si alimenta della tradizione maya; una voce che raccoglie la parola, “wok ta woK”, come dicono i tzeltal.
Una voce, infine, che ha saputo dialettizzarsi con quella dei rivoluzionari di tutto il mondo, anche grazie al personale contributo di Marcos.
Questi nasce come oratore, come scrittore e come pensatore il primo gennaio del 1994. É il megafono della rivoluzione in marcia a trasformare l'oscuro generale di un esercito ignorato nello scrittore che abbiamo imparato a conoscere ed amare.
Il linguaggio che tanta parte ha avuto nel successo internazionale degli zapatisti non nasce tuttavia dal cervello del Sup, già armato e pronto alla battaglia, alla maniera di Pallade Atena; nè d'altro canto costituisce una semplice trasposizione di forme espressive indigene fissate nel tempo una volte per tutte.
Esso non è il frutto di una ricerca linguistica condotta a tavolino, bensì l'espressione vivente di un’esperienza che riprende il filo conduttore di ribellioni antiche alimentate dal ricordo di un’età dell’oro sbriciolata dalla conquista e di nuovo triturata dagli attuali signori dell’economia.
Lo stile zapatista sorge da quell’“universo di anime in pericolo” dove si ascoltano le profezie di Chilam Balan, gli auspici dei cruzob yucatechi, il vangelo capovolto dei ribelli di Cancuc, il mormorio delle cassette parlanti di San Juan Chamula, il grido sordo degli impiccati ed il clamore dei rifugiati guatemaltechi in fuga dal genocidio.
E si scorgono segnali luminosi, indicazioni che riguardano la vita di noi tutti: “anteponiamo le persone ai risultati”; “siamo soldati di un esercito che lotta per cessare di esistere”; “il potere non è qualcosa da prendere, è una relazione sociale da costruire”.


Insomma dal Messico ci aspettiamo una nuova concezione della rivoluzione e anche una nuova concezione dell'essere umano che servirà a nutrire della sua vita magica l'ultima forma di umanesimo”

(Antonin Artaud)

“Non si tratta di rifondare ciò che non esiste più, ma di costruire ciò che non esiste ancora, un nuovo mondo, un nuovo immaginario, un'altra forma di rapporti tra le donne e gli uomini” (contributo di Radio Sherwood all’Incontro Intercontinentale).
La magistrale padronanza della parola costituisce per gli zapatisti il fondamento di una condotta che pare avere perfettamente assimilato gli insegnamenti del passato creando al tempo stesso un proprio inconfondibile stile.
Lavorare inassemblea quando si è insieme, in rete quando si è separati”, motto del Foro Indigeno Nazionale, riassume bene il metodo di azione che essi propongono.
Allo stesso modo, gli Aguacalientes, le strutture costruite dai ribelli per ricevere i visitatori nei territori da loro controllati e “scambiare” idee, progetti ed emozioni sono il modello nuovo di agglomerato umano centrato anche fisicamente sul luogo della parola comune, dell’incontro, del dialogo.
Di fronte alla presa di possesso dell’ambiente naturale ed umano da parte del capitalismo, gli Aguascalientes comportano l’invenzione di una nuova urbanistica, l’umanizzazione cosciente e ludica dell’ambiente. Qui, secondo le parole di Giulio Girardi, “i popoli indigeni progettano e costruiscono autonomamente vasti spazi di riunione e di mobilitazione politica e culturale”.
Tutti sono coinvolti nell’esperienza. Negli Aguascalientes, i bambini della comunità si abituano a parlare con italiani e giapponesi, francesi ed olandesi; e hanno abituato gente di ogni parte de mondo a parlare insieme con loro. Nessuno potrà più farli tacere, farli tornare sotto la superficie della storia.
Nel Chiapas insorto si sperimenta senza posa: i centri di salute, praticano con i pochi mezzi a disposizione sia la medicina tradizionale che quella occidentale. I criteri di gestione dell’ambiente mostrano una sensibilità antica mai disgiunta da una consapevolezza specifica del nostro tempo. Una volta di più, le questioni tecniche si rivelano in realtà questioni sociali.
A partire da una scelta di “inclusione” (che implica il rifiuto di ogni settarismo) gli zapatisti ci propongono di “costruire un mondo che contiene molti mondi”. Così, la loro lotta contiene molte lotte, su mille piani che interagiscono fra loro, e ammettono contemporaneamente la trattativa con il governo, il controllo in armi del territorio, la minuziosa organizzazione di eventi internazionali (“intergalattici”), la comunicazione multimediale.
Lotta armata, lotta politica, lotta economica, lotta culturale sono tutti piani in cui gli zapatisti reputano di mantenere l'iniziativa, di dettare sempre e comunque il terreno del confronto.


“Queste parole vanno sussurrate all'orecchio di coloro che non hanno padre e sono senza casa. Bisogna nasconderle così come si nascondono i gioielli e le pietre preziose”

(profezia di Chilam Balam)

Nel corso dei dieci anni che precedono la sua apparizione pubblica, l’EZLN tesse una fitta trama di rapporti discreti, crea nuovi vincoli, altri ne dissolve.
Tutto avviene nel silenzio della clandestinità.
A partire dal primo gennaio 1994 i maya, maestri nell'arte di resistere, imparano l’arte di comunicare con gli altri, di chiamare a raccolta persone radicalmente diverse. Forse senza averlo voluto, hanno convertito il Chiapas nell’ancoraggio di una grande rete che si va levando come una vela nel cielo della storia.
Una rete che, con un pizzico di ironia, si è data il nome di Internazionale della Speranza. Non una riedizione delle sconfitte del passato, ma un’esperienza che si vuole radicalmente nuova e che attende il nostro contributo.
La storia dell’EZLN dal momento della sua apparizione pubblica è punteggiata da una serie ininterrotta di proposte ed occasioni di incontro che cominciano con il dialogo nella Cattedrale di San Cristobal (febbraio 1994), proseguono con la Convenzione Nazionale Democratica a Guadalupe Tepeyac (la prima Aguascalientes, agosto 1994), passano per le diverse tappe dei dialoghi di pace a San Andres Sakam’chen (giugno 1995-agosto 1996), la Consulta del 1995, il Foro Indigeno (dicembre 1995-gennaio 1996), la creazione del Fronte Zapatista (febbraio 1996), l'Incontro Continentale (aprile 1996) e l’Intergalattico (luglio-agosto 1996), il Congresso Indigeno (ottobre 1996) e si proiettano nel futuro con la Consulta Mondiale del 1996 e un nuovo Incontro Intercontinentale per il 1997, questa volta da tenersi in Europa. Sono altrettanti appelli, richiami e inviti a salire a bordo.
Le proposte inizialmente orientate principalmente al Messico si sono progressivamente allargate al mondo dove il neozapatismo riscuote successi crescenti.
Occorre contemporaneamente prendere atto che, dopo le prime imponenti mobilitazioni, in Messico la risposta è stata, a tutti gli effetti, insufficiente. Tanto i movimenti democratici, come le diverse forze guerrigliere presenti nel paese, per un motivo o per l'altro, non hanno ripreso che molto parzialmente le possibilità aperte dall'apparizione dell’EZLN.
Perchè? Rispondere non è facile e ci limiteremo qui a alcune osservazioni. Innanzitutto le circostanze favorevoli al cambiamento rivoluzionario non durano mai a lungo. L’occasione del 1994 non è stata colta ed il Messico è entrato in un’altra fase dai contorni ancora incerti. Gli zapatisti stessi avvertono questa situazione quando dichiarano: “Sappiamo che da soli non andremo molto lontano”.
Si potrebbe anche rilevare che non sempre quanto di valido si è prodotto all’interno delle situazioni da essi stessi create è stato poi ripreso dagli zapatisti. Non sempre, forse anche per via delle difficoltà militari, l’EZLN è riuscito a mantenersi all’altezza di quel dialogo includente la cui necessità proclama con tanta ragione.
Ciò spiegherebbe, fra l’altro, i ripetuti quanto fumosi appelli alla società civile. É vero che nel linguaggio dei ribelli la società civile allude all’emergere di nuovi soggetti, allo spazio costruito fuori dai partiti tradizionali, all’urgenza di inventare nuove forme di pratica collettiva. Tuttavia, di fronte alla scarsità di interlocutori reali, la “signora società civile” rischia di somigliare sempre più ad un personaggio immaginario.
Inoltre, mentre gli zapatisti cercano di costruire la pace nei loro territori, il resto del paese, compreso il nord del Chiapas sembra precipitare verso una situazione di violenza incontrollabile. Nelle regioni del conflitto prevale una calma tesa però, nelle campagne del Guerrero, nella Huasteca, in Oaxaca, in Vera Cruz, Puebla, Michoacán - tanto per citare solo i luoghi più caldi - regna la logica della guerra sporca.
Se da San Andres sono usciti degli accordi importanti per modificare la Costituzione in senso favorevole ai popoli indigeni, non bisogna dimenticare che la storia del Messico è punteggiata di “trionfi di carta”.


"Aguascalientes che fanno nascere fiori nei deserti, machete di sogno che aprano il cammino nelle selve metropolitane, una magia esplosiva per forzare la cassaforte del mondo”

(contributo del Consolato Ribelle del Messico, Brescia, all'Incontro Intercontinentale)

“La rivoluzione proletaria è questa critica della geografia umana attraverso la quale gli individui e le comunità costruiscono i siti e gli avvenimenti corrispondenti all’appropriazione non più solo del loro lavoro, ma della loro storia totale” (Guy Debord).
Come nel 1968 in Francia e negli Stati Uniti, come nel 1972 in Italia, le elezioni dell’agosto 1994 hanno visto, al di là dei brogli, la vittoria del partito di stato, una deprimente ratificazione del totalitarismo del PRI (Partido Revolucionario Institucional), il mostruoso Moloch politico che si mantiene il potere da settant’anni.
La clamorosa sconfitta della sinistra dimostra, una volta di più, che i risultati elettorali esprimono leggi proprie, indipendenti e spesso in contrasto, con la vita dei movimenti sociali.
Oggi, il Messico rimane immerso in una crisi profonda da cui, a breve scadenza, non si intravede l’uscita.
Da parte loro gli zapatisti devono ancora costruire i propri interlocutori. Interlocutori che, a partire dal modello della rete, non si limitino a riecheggiare slogan preconfezionati ma, come nel telefono senza fili, sappiano rimodellare il messaggio in arrivo, farne la base di una nuova e superiore proposta, sappiano essere all'altezza di un gioco in cui tutti sono conduttori e nessuno è comparsa.
Devono, secondo le parole di Marcos “creare uno spazio di lotta politica degno affinché i membri dell'EZLN possano continuare ad essere ribelli in un modo che non sia quello della clandestinità', dei passamontagna e delle armi” (quotidiano “La Jornada”, 26 novembre 1996).
Indipendentemente dal corso degli avvenimenti, indipendentemente da ciò che sarà di loro, gli zapatisti hanno già dato un contributo enorme alla reinvenzione di una pratica sovversiva.
Dal primo gennaio 1994, “siamo chiamati a scegliere tra due progetti di civiltà” (Giulio Girardi, Tavolo 5, ‘In questo mondo ci sono molti mondi’, Aguascalientes di La Garrucha, 30 luglio 1996); nulla potrà essere come prima.
Gli indigeni, la faccia eternamente occultata del Messico, hanno mostrato una secolare ed ininterrotta esperienza della democrazia diretta e dei suoi strumenti che può divenire risorsa per il mondo intero.
Gli zapatisti, dal canto loro, hanno inventato una nuova pratica in cui la rivoluzione diviene un flusso ampio che, senza scendere a patti con nessun potere separato, assicura a tutti la possibilità di partecipare, di rimettersi in gioco, di ripartire in qualche modo da zero.
Chiarendo nei fatti che la globalizzazione produce miseria e distruzione mentre allo stesso tempo crea inedite possibilità di ascolto e comunicazione, essi hanno svelato l’arcano del neoliberismo, anticipandone l’affossamento.
Nella globalizzazione - essi ci dicono - gli qvvenimenti e le identità acquistano nuove simultaneità, coniugano tempi storici differenti. La rivoluzione sociale, frettolosamente scongiurata dai potenti della terra, vi ritorna come affermazione ludica di ‘tempi indipendenti federati’, mondo che contiene tutti i mondi...


“Non è necessario conquistare il mondo, basta che lo rifacciamo. Noi, oggi.”

(La Realidad, scritta murale)

La rivoluzione da Internet di cui parlava il ministro degli esteri messicano, José Angel Gurría, per tranquillizzare i mercati internazionali, minaccia di oltrepassare i confini della realtà virtuale. Mentre scriviamo, molte persone nel mondo si parlano anche grazie al “delirio di un manipolo di indios armati di fucili di legno”.
L’avventura è cominciata: e noi? Se vogliamo rinnovarci, procedere con loro alla ricerca di un percorso per uscire davvero dal ventesimo secolo, dobbiamo interrogarci sul segreto di quell’“innocenza che è capace di rinnovare ciò che è vecchio” (Mario Lippolis). Dobbiamo riprendere l’esperienza zapatista laddove essa è pervenuta, nell’invenzione di una nuova pratica sovversiva e della sua coerenza.
Un’invenzione che non può che essere collettiva.
Si tratta di lavorare insieme per elaborare alternative. Alternative non soltanto economiche, bensì alternative di civiltà.
Se il capitalismo ha fabbricato l’individuo solo per atomizzarlo, la comunità ricostruita fuori e contro il dominio del capitale può diventare l’ambiente della polivalenza, il luogo dell’incontro, della transizione, della ricerca.
Come ci diceva Douglas Bravo, il vecchio guerrigliero venezuelano (La Realidad, Chiapas, 1 agosto 1996): “Non si tratta di imitare modelli: non occorre mettersi un passamontagna. Chi vive in una grande città europea può introdurre nelle proprie lotte elementi “zapatisti”, elementi comunitari, di solidarietà, di autogestione”.
Può, aggiungiamo noi, instaurare la verità nel mondo, creando situazioni dove il dialogo si armi per far vincere le proprie condizioni.