venerdì 15 marzo 2013

LA RESISTENZA AL CRISTIANESIMO





Prefazione di Raoul Vaneigem del 1992 al suo libro omonimo, La résistence au christianisme, Fayard, Paris 1993.

Come augurio di un mondo altrimenti umano, ho voluto donare a Barravento questo scritto della fine del secolo scorso traducendolo all’occasione dell’avanspettacolo indecoroso messo in scena per l’elezione del 266° paparomano aparecido come Francesco il gesuita.
Finora, nonostante la mia disponibilità verso eventuali editori, il grosso tomo in questione, sulle eresie dalle origini al diciottesimo secolo, non credo sia mai stato tradotto in italiano, ma non mi dispiacerebbe se questa presentazione, pacificamente armata della sua sorprendente attualità, mettesse l’acqua alla bocca di tutti i poveri credenti religiosi e dei non meno disgraziati amatori di guru politici circa l’urgenza di una riscoperta della laicità quotidiana.
Sergio Ghirardi



Sulle rive dove s’infrangono duemila anni di era cristiana, l’onda anomala della merce non ha lasciato in piedi neppure uno dei valori tradizionali del passato. Mandando in rovina le ideologie di massa che hanno riverniciato in fretta l’edificio delle religioni dopo che lo Stato ha sostituito Dio nella condotta degli affari, un tal flusso non spinge forse ineluttabilmente verso il nulla i resti di una Chiesa della quale il Concilio Vaticano Secondo aveva reso noti i misteri?
L’indifferenza in cui s’impantanano oggi le credenze governate da rituali di partito o di burocrazia clericale risveglia nei confronti della loro storia un interesse che l’obsoleta preoccupazione apologetica o denigratoria non può più sostenere, poiché quest’interesse è sostenuto, molto semplicemente, da una curiosità attenta al proprio piacere e presa al gioco di scoprire quel che le verità ufficiali hanno nascosto con grande zelo sotto l’ultima ratio del loro canone dogmatico.
Chi avrebbe immaginato che il cristianesimo, lavato dei suoi apparati sacri dalle grandi acque dell’affarismo, sarebbe potuto sfuggire alla distruzione che ha demolito in meno di mezzo secolo le rocce sacrificali che, sotto il nome di nazionalismo, liberalismo, socialismo, fascismo e comunismo, hanno deliziato generazioni intere, in un misto di fascino e di terrore?
Ora che dei naufragi di un tempo non resta che un mare piatto e debolmente agitato dalla smorfia della derisione, gli oggetti a lungo ricoperti da una pastoia di santità invitano a uno sguardo da archeologi. Incitando al rispetto o alla profanazione, non sollecitano altro, finora, che, non direi l’imparzialità, ma l’ingenua indiscrezione di uno scopritore sprovvisto di pregiudizi e di cautela.
Così come è ormai possibile esaminare la nascita, lo sviluppo e il declino del bolscevismo senza esporsi alle accuse di materialismo, spiritualismo, marxismo, revisionismo, stalinismo, trotzkismo - che oggi fanno ridere ma sono state pagate a un prezzo di sangue -, anche lo sguardo portato sulla religione cristiana non si cura delle sconfessioni o delle lodi di teologi o filosofi né del loro arcaico conflitto in trompe-l’œil dove il Dio degli uni e il non-Dio degli altri si ricongiungevano nel cielo delle idee in uno stesso punto di fuga, in una stessa astrazione dalla realtà corporea e terrestre.
Al sentimento di un predominio del vivente si mescola una sorpresa che, per quanto candida, prova il desiderio di sapere perché e per quali percorsi il mondo delle idee ha tanto spesso preteso la sua libbra di carne tagliata nel vivo in cambio di orizzonti chimerici.

La crisi di mutazione che spinge oggi l’economia a distruggersi insieme al mondo o a ricostruirsi con lui, ha almeno il merito di aprire gli occhi delle coscienze sull’origine della disumanità e sui modi di rimediarvi. La politica sterilizzatrice che è la cancrena del pianeta, delle società, delle mentalità e dei corpi, ha dimostrato attraverso la pertinenza del suo stato estremo come l’uomo, sottomettendo la natura e i suoi simili allo sfruttamento mercantile abbia prodotto a spese del vivente un’economia che lo soggioga con una potenza mitica prima e ideologica poi.
Trasformati da un sistema di scambi che essi stessi avevano creato e che, strappandoli a se stessi, li determinava senza mai meccanizzarne completamente i corpi, la coscienza e l’inconscio, per millenni gli individui si sono ridotti a nulla di fronte al formidabile potere che li vampirizzava. Come avrebbe potuto la loro miserabile sorte non indurli ad aureolare di un’autorità assoluta, perfetta come la volta celeste, la trascendenza di un Padre i cui decreti, gestendo la fortuna tramite la disgrazia, ne proclamavano, di generazione in generazione, l’eterna e capricciosa prerogativa?
Investita di una sovranità extraterrestre di cui solo i preti avevano il potere di decifrare il senso mitico, l’economia tendeva tuttavia a svelare la sua fondamentale materialità attraverso gli interessi che precipitavano in un’ammucchiata del tutto profana i signori temporali e i trafficanti affaristi.
La religione - cioè quella cosa che «riunisce quel che è separato» - aveva messo tra le mani di una divinità fantastica l’anello centrale di una catena che legando da un capo all’altro tirannia e schiavitù, ancorava contemporaneamente alla terra quella potenza celeste che il disprezzo degli uomini verso se stessi aveva consacrato sovrana, immutabile, intangibile.

Dio traeva così dal mondo ciclico e arcaico, chiuso tra le torri e i solchi della civiltà agraria, una perennità continuamente smentita in grandi tumulti da «fine del mondo» da parte della politica innovatrice del commercio e del libero scambio, sciogliendo il nodo del tempo mitico, corrodendo il sacro con i suoi sputi acerbi, introducendo nelle cittadelle della conservazione il cavallo di Troia del progresso.
Eppure, a dispetto del conflitto endemico tra la conquista dei mercati e la proprietà fondiaria, le loro emanazioni antagoniste - re e preti, ambito temporale e spirituale, filosofia e teologia - non hanno smesso di costituire, finché la struttura agraria e la sua mentalità sono rimaste dominanti, le due metà di Dio.
Decapitando Luigi XVI, ultimo monarca di diritto divino, la rivoluzione francese abbatte nello stesso tempo l’idra bicefala del potere temporale e spirituale il cui crimine più recente di una lunga serie aveva portato alla forca per delitto d’empietà il giovane cavaliere de La Barre[i].
Se Roma privata del suo braccio secolare che coltivava la verità del suo dogma, è lentamente scaduta al rango di spaventapasseri spirituale, è perché l’era dei signori e dei preti e la sua economia dominante si erano sottratte a quel ricorso, sottraendogli con l’abbandono della ferocia penale i mezzi della sua arroganza.
L’Ancien Régime definitivamente crollato sotto il peso inesorabile della libertà mercantile e della sua democrazia ridotta al redditizio, si smantellava contemporaneamente ai suoi torrioni, ai suoi castelli, alla sua mentalità ossidionale, al suo vecchio pensiero mitico.

Di colpo, Dio è dovuto soccombere ai colpi di scure di uno Stato in grado di regnare senza la cauzione del suo celeste accolito. Il cristianesimo è allora entrato nella storia spettacolare della merce. All’alba del ventunesimo secolo[ii], ne sta uscendo a pezzi come tutte le ideologie gregarie.
Che in seno ai sistemi d’idee sostitutive dell’ideologia cristiana - includendo anche le opinioni più furiosamente ostili alle obbedienze cristiche - sussistesse una forma di spirito religioso e un sinistro colore di fanatismo è stato dimostrato a sufficienza dall’esaltazione dei militanti e dall’isteria delle folle durante le grandi messe solenni servite dai tribuni e dagli arringatori del nazionalismo, del liberalismo, del socialismo, del fascismo, del comunismo.
Lo strappo isterico che getta l’uomo fuori dal suo corpo per identificarlo con un corpo collettivo e astratto - una nazione, uno Stato, un partito, una causa -, non è affatto distinguibile dall’adesione, direi quasi aderenza, spirituale a un Dio il cui sguardo iniettato di sollecitudine e di disprezzo esprime simbolicamente la relazione tra l’astrazione meccanica del profitto e una materia vivente sfruttabile a piacere.
Ebbene, si sono prodotti in trent’anni maggiori stravolgimenti che in dieci millenni. Saldando le ideologie sugli scaffali dell’indifferenza, i self-service del consumabile a ogni costo hanno spogliato l’individuo, volenti o nolenti, di quella corazza caratteriale che lo dissimulava a se stesso condannandolo a desideri costretti, senza altro sbocco che lo sfogo, la passione morta di distruggere e di distruggersi. Così si sveglia lentamente, in modo visibile, una volontà di vivere che non ha mai smesso di chiamare alla creazione e al godimento congiunti di sé e del mondo. Non si tratta forse ormai per ciascuno di raggiungere il possesso amoroso dell’universo?
Oggetto ancora ieri manipolato da uno Spirito, nutrito dalla sua stessa sostanza, l’individuo che scopre sulla terra e nella sua carne il luogo della sua realtà vivente, diventa soggetto di un destino da costruire attraverso l’alleanza rinnovata con la natura. Stanco di desideri fittizi che la ragione lucrativa gli imponeva e che, per secoli, l’hanno spinto laddove non aveva nulla da fare, l’individuo contempla ora con curiosità divertita quegli oggetti che l’hanno oggettivato e che costellano le rive del suo passato come dei frammenti di una morte oggi rifiutata.
Benché il povero entusiasmo delle manifestazioni gregarie indichi un calo costante della fede religiosa e ideologica nei paesi industrializzati, i devoti, attenti nel galvanizzare puntualmente uno spettacolo quotidiano disperatamente letargico, non hanno mancato, di fronte a qualche sussulto d’arcaismo e di barbarie, di gridare al ritorno delle religioni e dei nazionalismi. Tuttavia, come diceva Diderot, qual è il culo che spingerà tutto questo? Quale imperativo economico farà da sostegno a bastioni di un’altra epoca innalzati in fretta dalla disperazione e dal risentimento, impedendo loro di crollare sotto il peso della mancanza di profitto?

Senza dubbio la fine delle istituzioni religiose non significherà la fine della religiosità. Scacciato dallo scacco delle grandi ideologie, malamente nutrito dalle sette, alloggiato sempre peggio nelle Chiese, la cattolica o la protestante, veicolo degli insopportabili odori di un ultimo totalitarismo, il sentimento cristiano cerca dei nuovi canali di sfogo.
Riuscirà a diffondersi col favore di un paesaggio che la mutazione economica s’appresta a rimodellare? Alcuni lo subodorano nel solco di un capitalismo ecologico che cerca nel disinquinamento una redditività che la desertificazione dei suoli, del sottosuolo e delle speranze di sopravvivenza non garantisce quasi più. M’importa assai poco di congetturare se le vocazioni celesti s’investiranno in divinità terrestri, Gaia, Magna Mater, silfidi, driadi e altri elementari. Nessuna credenza, del resto, ripugna all’umano finché essa non esige il sacrificio.
Mi compiaccio invece per l’apprendimento all’autonomia che genera, a causa del crollo dei devoti e delle devozioni del passato, la necessità di proseguire da soli. La fine delle folle, la coscienza individuale di una lotta per la vita, la risoluzione di vincere la paura di sé da cui derivano tutte le paure, l’emergenza di una creatività che si sostituisca al lavoro non smettono di indirizzare delle nuove generazioni verso una vera umanità il cui avvento non è ineluttabile ma risiede, per la prima volta nella storia, tra le mani degli uomini e più in particolare dei bambini cresciuti nel godimento della vita anziché nel suo rifiuto morboso.

Questa è la prospettiva attuale per cui ho voluto esaminare la resistenza che per venti secoli l’inclinazione alle libertà naturali ha opposto all’antiphisis dell’oppressione cristiana.
In nessun dominio - storico, scientifico, filosofico, sociale, economico, artistico - io posso concepire che si voglia esercitare un’analisi al di fuori della storia individuale dove s’iscrivono i gesti quotidiani di chi ha deciso di intraprenderla. Benché le circostanze mi abbiano risparmiato il contatto con la cosa religiosa, ho sempre provato una singolare repulsione nei confronti di un impero mortifero, armato di una croce piantata nel cuore di tutto quello che nasce alla vita. Capisco dunque l’indignazione di Karlheinz Deschner che fustiga nel Kriminalgeschichte des Christentums, gli omicidi, le imposture e le falsificazioni della Chiesa cattolica, ma non ignoro quanto la polemica, penetrando sul terreno stesso dell’avversario, gli conceda un riconoscimento e un interesse di cui ha agio di prevalersi. Perché dunque ravvivare con il soffio della collera le braci di un rogo millenario che la rugiada di un tempo nuovo condanna a spegnersi?
Non c’era, per di più, di che premunirsi contro le virtù del tono comminatorio con la semplice evidenza che atei, liberi pensatori, anticlericali e altri militanti del «Buon Dio nella merda», lungi dal liberarsi del comportamento giudeo-cristiano, hanno molto spesso seguito le orme delle sue pratiche più odiose: sacrificio, culto del martire, senso di colpa, colpevolizzazione, odio del desiderio amoroso, disprezzo del corpo, fascino dello Spirito, ricerca della sofferenza salvifica, fanatismo, obbedienza a un maestro, a una causa, a un partito? Quale omaggio più bello all’ortodossia che l’eretico, l’anticonformista che s’infatuano di contestare l’asse attorno alla quale gravitano?

Poco propenso ad arbitrare la dubbia lotta tra vittime e carnefici, ho preferito far scaturire le cicatrizzazioni (da un passato in cui le seppellivano dimenticanze, disprezzo, malintesi, pregiudizi e calunnie molto spesso stratificate dalla famosa obiettività degli storici) che il tessuto umano, irrigato dalle libertà di natura, opera costantemente per ricostituirsi e rinforzarsi tessendo in modo ordinario la trama del tessuto sociale a dispetto degli effetti deleteri della paura, dell’abbandono, della sofferenza, della speranza nell’aldilà e delle consolazioni del trapasso.
Si tratta, dunque, di cogliere il vivente sotto il morto che se ne appropria in un sottile misto di violenza e di persuasione. Ciò invita, infatti, alla rianimazione sotto lo sguardo degli esseri e delle cose non più catalogati secondo la prospettiva tradizionale dove Dio, lo Stato e l’Economia raccolgono per una felicità differita le lacrime delle valli terrestri. Finalmente, esseri e cose fremono del battito d’ali del vivente più facilmente percettibile oggi che non è più sottomesso al peso delle oppressioni antiche.
Ora, le ragioni di meravigliarsi di una vita tanto ostinata a rifiorire rompendo l’asfalto di una storia disumana, suscitano in contropartita qualche dubbio sull’onestà e sulla qualità degli eruditi e degli specialisti abituati a percorrere quella stessa storia come un territorio conquistato.
Ammetto che un teologo che per mestiere vernicia a smalto il suo Dio per mostrarne il luccichio ai ciechi che non ne percepiscono la quotidiana evidenza, ordini i fatti secondo la sua maniera di credere; capisco che egli presti al suo gergo le apparenze di una lingua sensata, chiamando il desiderio una tentazione, il piacere un peccato, l’abbraccio degli amanti una fornicazione; che veneri del titolo di santo degli emuli di quegli eroi del popolo onorati da Lenin; che usi i Vangeli secondo la verità che Stalin accordava all’Enciclopedia sovietica. Ecco che fuoriesce non della menzogna ma del proselitismo. Si converrà che incontrare la stessa attitudine in uno storico non ispirato da disegni di tale ampiezza può lasciare perplessi.
Che pensare di universitari istruiti nella scienza di revocare in dubbio l’autenticità di manoscritti trafficati di copista in copista e zeppi d’interpolazioni, che commentano come testi originali e che datano dell’inizio dell’era cristiana le Lettere, riscritte se non scritte da Marcione, rielaborate da Tatuano, sottomesse a correzioni fino al IV secolo da un certo Saul, detto Paolo di Tarso, cittadino romano che visse intorno al 60 allorché Tarso fu romanizzata soltanto nel 150?
Nessuno ignora che i manoscritti dei Vangeli canonici e degli Atti degli apostoli appaiono al più presto nel IV secolo e compongono sotto l’egida di Costantino, la biblioteca di propaganda che Eusebio di Cesarea e i suoi scribi rivedono e diffondono verso tutte le Chiese universalizzate dunque su una stessa base dogmatica. Apparentemente, l’argomento non è di natura da mettere in crisi la buona coscienza dei cercatori che con bella unanimità li considerano dei reportage dal vivo, quasi contemporanei dei testimoni o apostoli di un Adonaï, Kirios o Signore il cui nome di Josue/Jesus non s’impone facilmente con il suo senso simbolico di «Dio ha salvato, salva, salverà» se non alla fine ultima del primo secolo. Sole dissonanze nel concerto estatico, gli atei Dupuy, Alfaric, Couchoud, Kryvelev, Dubourg, i cattolici Loisy e Guillemin, il protestante Bultmann.
Pochi si fanno scrupolo di usare, per designare il politeismo e i culti degli «stranieri alla fede», i termini di pagani e di paganesimo con i quali la Chiesa esprimeva il suo disprezzo per delle credenze di pagani, di contadini, buzzurri, bifolchi insensibili alla civiltà urbana. Si tratta di menzionare gli angeli del pantheon ebreo, i semileggendari Paolo e Pietro, l’antignostico Ireneo, il filosofo Agostino d’Ippone, l’antisemita Gerolamo, il maestro spirituale dell’Inquisizione, Domenico di Guzman, il massacratore dei fraticelli, Giovanni da Capistrano? Molti abbondano del titolo di «santo» con il quale la Chiesa ricompensa i suoi servitori reali o mitici. Non esistono forse delle biografie di Stalin dove è chiamato senza derisione «Piccolo Padre dei popoli»?

Tocca all’ateismo affilare con le armi della critica uno degli argomenti più perentori della Chiesa, l’esistenza storica di quel Josuè/Jesus che accreditava la legittimità del suo potere temporale. Intestarditosi nel negare la divinità del Cristo, un militantismo detto di libero pensiero cadde nella trappola di un Jesus amico dei poveri, una specie di Socrate predicatore delle verità di un socialismo evangelico che ha espiato sulla croce un’insolenza da tribuno pacifista. Tertulliano e il movimento cristiano della Nuova Profezia non avrebbero potuto, nella seconda metà del secondo secolo, sognare un miglior avvenire per il loro eroe, recentemente epurato dal suo semitismo e travestito da Zorro per l’edificazione e la salvezza delle masse laboriose.
Una volta ammessa l’esistenza di un agitatore e fondatore di Chiesa, crocefisso sotto Ponzio Pilato - il tutto senza la minima testimonianza contemporanea mentre Jesus conserva a lungo il suo senso di Josuè biblico -, perché stupirsi che degli spiriti dotti riprendano le false liste di papi e di vescovi elencate da Eusebio di Cesarea, antidatino testi canonici, interpolando negli scritti del secondo secolo delle citazioni derivate dalle controversie del IV° e V° secolo, taccino d’eresie (quasi che si articolassero fin dall’anno 30 attorno a un’ortodossia abbozzata invece solo nel 325) le svariatissime dottrine che rimestano idee di diversa provenienza e che la Chiesa Costantiniana ha frantumato, rimodellato, riaggiustato componendo le assisi instabili del suo dogma?
Alla maniera di Stalin che recuperò il bolscevismo fucilando i compagni di Lenin, i padri cattolici condannano a posteriori come eterodosse non soltanto le scelte (hairesis in greco) non cristiane ma i diversi cristianesimi sui quali si eleva il trono di Costantino. E gli storici li seguono discernendo attorno a Pietro «primo papa di Roma» gli sforzi meritevoli di una Chiesa cattolica alle prese con la perversione eretica che corrompe l’integrità del suo insegnamento canonico.

Non mi è sembrato inutile sottolineare una tale impostura, in un tempo dove è difficile concepire che l’autorità pontificale e le burocrazie clericali sopravvivano al crollo delle ultime cittadelle totalitarie. Ho trovato meno attraente rettificare un’opinione dove nulla, se non qualche inerzia di pensiero, sostiene la pretesa di scoprire sotto la storia incartapecorita del passato le innovazioni del vivente, spesso fragili e tuttavia generatrici di una forza incomparabilmente più efficace della coscienza critica nel disegno di smantellare le pietre tombali dell’oppressione.
Che cosa nascondono, sotto il labello di eresia, le etichette con le quali la Chiesa assoggetta al suo controllo, nominandoli, i diversi comportamenti umani e disumani la cui condanna rinforza la prepotenza dell’ortodossia?
Rivalità episcopali, lotte intestine, del genere dell’arianesimo, del monofisismo, del lollardismo inglese. O un ancheggiamento del corpo claudicante dall’obbligo alla licenza, dall’ascetismo al vizio, dalla rimozione allo sfogo che il mercato della penitenza e della morte sfrutta con una notevole abilità. Oppure un atteggiamento più segreto, oggetto di perplessità da parte della polizia religiosa, la volontà individuale di fondare, in opposizione alle forme sociali dell’antiphisis, un destino accordato meglio alle promesse di una natura finora relegata per il suo sfruttamento al di qua dell’umano. S’indovinerà facilmente a che tipo di eresie o di resti irreligiosi si è più volentieri avvicinata la mia curiosità.
All’intenzione di qualche lettore familiarizzato con il Trattato del saper vivere, con il Libro dei piaceri e con Ai viventi, preciso che si applica qui la mia postilla al Movimento del libero spirito: «Un libro non ha altra genialità se non quella che si ricava per il piacere di vivere meglio. Che sia dunque inteso, subito, che lo studio del libero spirito non rileva per me da un’esigenza siffatta.»
Un solo merito dovrebbe invece essere riconosciuto all’opera: amerei che fosse quello di avere sottovalutato il meno possibile le sollecitazioni del piacere di conoscere e le piacevolezze della gaia scienza. Per quanto sommario si rivelasse col passare del tempo lo sfoltimento di una storia incerta, ho il sentimento che sfugga almeno al rischio di fare concorrenza in somma di errori, d’ignoranze e d’ipotesi inventate di sana pianta, alla maggior parte dei volumi, monografie e copie impilate nella nostra epoca sulla testa di Jesus, degli apostoli e dei loro legatari universali.
Se si dovesse infine trovare una scusa a uno stile di scrittura dove non si ritrova la stessa cura che cerco di mettere nei libri che non si allontanano troppo dalla mia linea di vita, direi semplicemente che ogni materia ha il trattamento che essa suggerisce.

Raoul Vaneigem, Gennaio 1992



[i] Negli anni ’90, l’ostilità dissimulata o dichiarata degli ambienti cattolici, protestanti, ebraici nei confronti di un romanziere (S. Rushdie, ndt) condannato a morte per empietà dal fanatismo islamico, la dice lunga sulla sincerità democratica e sullo spirito di tolleranza di cui si rivendicano volentieri i diversi seguaci del «vero Dio», fortunatamente sprovvisti dell’appoggio di un terrorismo di Stato.
[ii] Una datazione arbitraria che accredita un messia ricorda ancora oggi la stravagante appropriazione del tempo da parte della Chiesa.