sabato 25 maggio 2013

Piccola riflessione dopo il primo Forum per la democrazia reale a Le Teil (Francia)




Mapuche
Arrivando a Le Teil ero molto curioso di entrare nel villaggiodei possibili che il tempo esecrabile ha reso impossibile. Al prossimo numero dunque.
Così la settimana si è ridotta al fine settimana della democrazia reale a venire, in un’atmosfera spesso calorosa e umana, tenuto conto dell’amara evidenza che la comunità non esiste ancora e c’è solo l’illusione di essere insieme collettivamente.
Come potrebbe essere diversamente? Ecco la questione rimasta sempre presente lungo tutto l’incontro e spesso taciuta, al di là dei diversi temi affrontati, ingoiati come esche, con passione confusa ma sincera, da parte di cittadini venuti dal nulla.
Ogni incontro spontaneo - come nel caso di Le Teil dove il grosso e notevole lavoro di preparazione di Bernard Bruyat e dei suoi amici dell’OPDLM (Osservatorio delle Pratiche di Sviluppo [Developpement] Locale e Mondiale) ha costituito il dono di uno spazio/tempo dove ciascuno ha potuto provare a essere se stesso - fa emergere qualche affinità ma soprattutto le differenze tra gli individui. Il che risalta tanto al livello dei comportamenti che a quello della coscienza perché le vecchie opposizioni sono tuttaltro che superate (così come, del resto, le frustrazioni personali che le alimentano). Inoltre i reumatismi ideologici dolorosi aumentano con il sussistere più che mai, purtroppo, della presenza invadente del vecchio mondo.
Dietro ogni militante rode sempre una qualche morale, non necessariamente coerente, che vede in ogni negare un rinnegare, in ogni presa di parola una presa di potere. Allorché niente cambia mai, la moralizzazione burocratica dell’altro è l’ultima attività possibile per nascondere la propria impotenza (vuoi la carenza di vera passione) nel cambiare il mondo. Così i limiti inevitabili degli individui diventano spesso i capri espiatori di un collettivismo da bar per dei militanti di base arrivati come turisti per consumare dei discorsi, della mondanità alternativa.
C’è dunque, nella fauna che tutti noi componiamo, il gran parlatore narcisista e il radicale da conferenza che non si lascia intrappolare dalla poesia di un discorso troppo liberamente esposto. Costui vede il parlare con agio come un potere e allora, come non solidarizzare con la sua grinta burocratica nel misurare il numero di frasi e il tempo di parola?
Purtroppo, chi, in nome della democrazia, si proclama distributore della parola di gruppo finisce quasi sempre per approffittarne e darsi il diritto di parlare ad libitum mentre misura la parola altrui. Bisognerà forse trovare un altro modo di regolare questa questione tanto delicata: che ognuno spieghi liberamente i suoi saperi o presunti tali, senza la ghigliottina di un popolo frustrato che vuole condividere la sua frustrazione senza mai denunciare l’impotenza che lo frustra.
Il vero limite sociale evidente di quelli che parlano molto è d’impedire agli altri di fare altrettanto, ma l’uguaglianza sta dunque piuttosto nel parlare ognuno come e quanto crede, non nel fatto che tutti parlino così poco. Non esiste uguaglianza senza libertà né senza differenze visibili. Abbiamo bisogno di tempo, del vero tempo libero da ogni obbligo da schiavi, ma certo anche del diritto assoluto di ricordare a chi parla, in ogni istante, il lato nevrotico della presa di parola, il suo eventuale eccesso disarmonico e la nostra voglia di fare altrettanto.
Obbligare i giovani, le donne o i panda a esprimersi, rileva infatti del paternalismo da professori o psicologi, mica della libertà democratica o dell’uguaglianza fraterna.
Per favorire l’espressione di ciascuno, bisognerebbe piuttosto lasciare agire liberamente le affinità elettive che tendono spontaneamente a dirigere ognuno verso il collettivo più attraente.
Io ho apprezzato, per esempio, l’assenza nel mio atelier di un certo numero d’individui che evidentemente non trovavano simpatica la lezione di un presuntuoso transalpino, specie di filosofo pretestuoso dalla parola facile.
La magia sta nel fatto che sovente l’antipatia è reciproca e va benissimo così. Il che non impedisce di bere un bicchiere insieme e persino, a volte, di comunicare un po’. Si può amare un pochino tutti ma non fare l’amore con tutti, nemmeno in teoria.
Che ogni godimento cerchi e trovi, dunque, il suo possibile interlocutore, in teoria come in pratica. L’insieme delle differenze espresse farà un mondo nuovo secondo la sensibilità di Fourier e non di Stalin.
La paura è effettivamente dovunque, ma essa è un sintomo e non una giustificazione. L’insicurezza è un sentimento fobico. Va dunque trattata come un alibi sintomatico non come una giusta rivendicazione o una saggia precauzione.
Così si supererà, forse, il gioco sadomaso ipnotico che porta ad alleviare se stessi in modo solitario accusando tutti gli altri della propria solitudine. Siamo tutti soli insieme e ci si riunirà davvero quando insieme soddisferemo qualche desiderio anziché rivendicare ossessivamente, come dei sindacalisti del quotidiano, dei tragici bisogni colpevolizzanti.
Da parte mia - la sola parte che posso assumere - dico: basta con gli intellettualismi confusionisti che per riappropriarsi delle parole confiscate dal potere rivendicano il proprio populismo, il proprio nazionalismo. E perché, allora, non rivendicare anche fascismo e razzismo?
Tolleranza per tutti, superamento delle ideologie, certo, ma resta pur sempre necessario scegliere il proprio campo, compagni! Per questo io condivido ancora con l’IS questa divisa pratica: nessun dialogo con i provocatori, nessun dialogo con i coglioni! (Non dimentico, tuttavia, che ognuno di noi è il coglione di qualcun altro, da cui l’importanza delle affinità elettive).
Basta con le terapie da laboratorio per curare l’economia quando si tratta, invece, di salvare gli uomini dalla patologia economica.
La vera riappropriazione delle parole è nel far loro dire quel che la loro etimologia lascia intendere. L’economia è la buona gestione della “casa”, dunque un’economia domestica, punto e basta.
Un populista è un demagogo manipolatore del popolo non un amico del popolo. La causa del popolo è quella del popolo stesso e non quella dei suoi pastori autoproclamati.
Un nazionalista non è un patriota di una nazione viva, ma un autoritario che mette la sua nazione ideologica al di sopra di quelle altrui che neppure riconosce.

Basta con i turisti della rivoluzione che partecipano agli incontri come a un cineforum. Si commuovono fino alle lacrime dopo un film come se i greci o i Mapuche non esistessero se non sullo schermo.
Chi pensa che la rivoluzione è in Grecia ci vada, altrimenti si potrebbe piuttosto intervenire qui e ora nella nostra vita quotidiana che non manca certo di rivoluzioni necessarie nelle nostra affettività, attività, esclusioni intime ecc. Il che mi pare una forma di solidarietà con gli altri meno spettacolare.
I poeti burocrati adorano sempre il calcolo della dita che si levano perché questo è il miglior modo d’ignorare la luna che ci si vergogna di avere lasciato passare durante tutta una vita perduta a guadagnarsela in silenzio.
Che sia a proposito di un discorso, di una persona o di un libro, gli eterni seguaci di una verità indiscutibile, ma cambievole come le ideologie, finiscono sempre delusi dai guru che inseguono freneticamente. Tanto meglio, ma quando smetteranno di seguire prima per odiare dopo?
Tutto ciò non ha più alcun senso, perché niente del vecchio mondo gerarchico può partecipare al superamento necessario della società dello spettacolo.

Senza alcuna pretesa di aver capito o di dire tutto, queste mie parole esprimono una larga parte dei mio sentire.

Con sincera amicizia,

                                                                                        Sergio Ghirardi



PS  Sorry for my french, I’m italian.

aggiungiamo il link con le immagini
http://aixenblog.wordpress.com/1er-forum-national-de-la-democratie/