domenica 5 maggio 2013

RIFLESSIONE SULL’OTTUSITA' DELLA VIOLENZA E DELLA SOTTOMISSIONE, DELLE CATTIVE EMOZIONI E DEL RINCOGLIONIMENTO CHE NE SEGUE





V per vaneigemismo

La voglia di rivoluzione nasce dalla coscienza che la realtà vissuta è ingiusta e potrebbe essere diversa se chi ha il potere sugli esseri e sulle cose non scegliesse d’imporre la logica dominante a tutti i costi e a qualunque prezzo umano, visto che l’unico prezzo che sembra ormai contare è quello delle cose.
Siamo circondati dalla violenza. La società della competizione è violenta. Impone di battersi contro tutti per emergere e vincere. Chiede di non avere pietà per chi esce di strada, per chi non ce la fa, per chi, circondato dalla ricchezza materiale da cui è escluso, è costretto a elemosinare la sopravvivenza.
Chi oserebbe negare oggi la violenza di quella che gli spin doctors - scienziati mercenari della manipolazione delle coscienze - hanno deciso di chiamare “crisi” per nascondere, dietro questa solo apparentemente neutra definizione socioeconomica, la prassi incessante del profitto e il suo metodo di funzionamento opportunistico portato alle estreme conseguenze?
C’è una violenza ottusa e potente persino nel contare con raccapriccio il costo economico di uno tsunami che l’avidità del business planetario ha reso catastrofico - per esempio riempiendo delle spiagge improbabili di ignari turisti e della loro corte dei miracoli, oppure costruendo ignobili e inutili centrali nucleari addirittura su faglie sismiche.
Dopo ogni inevitabile catastrofe, si contabilizza sempre il prezzo della tragedia mentre se ne archivia il costo sociale con un cordoglio ipocrita che nel segreto svelato delle intercettazioni telefoniche può spingersi fino a ridere dei morti redditizi, come all’Aquila.
Non è violenza questa? Forse che il cinismo sdogana la perversione della sua intrinseca cattiveria e non ferisce in maniera indelebile tutta quell’umanità che, anziché contare i morti per calcolarne il costo e le spese, vorrebbe riconoscerli e piangerli per far riprendere al più presto la vita e non il business?
Nella società capitalista la violenza è il primo prodotto che il Mercato mette in circolazione per poi arrogare allo Stato che lo serve e lo protegge il monopolio della violenza legale.
La violenza della Diaz, come quella di piazza Fontana una trentina d’anni prima, non è forse tale da incitare anche gli animi più pacifici alla vendetta, alla reazione, alla ribellione?
Se a Milano e a Genova, purtroppo, era caldo, lo sconvolgimento climatico che imperversa non tende affatto ad aggiustare le cose. Il sistema lo sa e ne fa uso perché la violenza lo serve. La sua e quella dei suoi nemici spettacolari.
Così il minestrone ideologico è talmente immondo che gli stessi fascisti i cui amici anche intimi hanno costellato di stragi decenni della storia recente, ricordano senza vergogna che “chi semina vento raccoglie tempesta”. Mai monito è stato più vero e mai ha avuto un sapore più osceno di provocazione perversa nella bocca di chi del vento ha fatto uso e scempio senza ritegno e della tempesta un godimento da appestati emozionali.
Certo che la violenza chiama la violenza e stupirsene è tanto idiota quanto è umano dolersene.
Di recente Raoul Vaneigem, una delle nobili figure di un’umanità diventata purtroppo minoranza nello spettacolo sociale dominante, ha saputo racchiudere in una formula molto felice l’auspicio e la strategia necessaria per chiunque voglia un cambiamento radicale: “né guerrieri né martiri !”*
Ben oltre l’amicizia che provo per il suo creatore, ho fatto evidentemente mia questa proposizione, come tutto ciò che per libero amore mi appartiene in uso senza tuttavia privarne nessuno.
Sto già ridendo preventivamente, del resto, del fatto ineluttabile che qualche inutile idiota sentirà in questa mia scelta il presunto dito del “vaneigemismo” nel culo indolenzito di ideologi rincoglioniti al punto da non cogliere più nemmeno l’ombra della luna della volontà di vivere.
In realtà, ho afferrato affettuosamente e con pacata rabbia questa piccola perla di coscienza attiva come un frutto maturo perché racchiude in se tutta la forza del vivente deciso a sottrarsi alla trappola mortale che il nichilismo capitalista gli tende. Sono convinto, del resto, che, oltre ogni ridicolo copyright, ogni sintesi poetica sia parte del patrimonio comune di tutti i resistenti al crollo di un mondo che rischia seriamente di portarci con lui.
Da millenni, i dominanti impongono con la violenza delle armi e dei dogmi religiosi il loro dominio sui sudditi di qualunque regno, di qualunque impero.
Da secoli, la società produttivista impone la violenza del Capitale e giustifica lo stato cinico e crudele delle cose pretendendo la sottomissione di cittadini sudditi, schiavi salariati, sfruttati e alienati, spettatori passivi dello spettacolo sociale.
La violenza del sistema è un dato di fatto oggettivamente indiscutibile, soprattutto allo stadio attuale del crollo di un mondo che continua a fare la morale ai sudditi per meglio imporre l’immoralità di coloro che esercitano un qualunque potere su popoli educati a porgere sempre anche l’altra guancia.
Il tempo passa e purtroppo non abbiamo ancora cambiato niente. Ce lo ricorda crudelmente lo scacco delle nostre rivoluzioni a metà, il cui risultato visibile è il triste rincoglionimento di molti ex compagni, estremisti da operetta assai poco buffa. Prigionieri di una no man’s land tra passato e futuro, guardano da esteti voyeur a qualunque idea in cerca di chiarezza per passare all’azione, come a un’opera letteraria mancata. Di un testo, di uno scritto, non sono giustamente critici per meglio condividerne nel presente la passione, denunciarne gli errori, superarne i difetti. Ne leggono invece, severamente, lo stile, l’apparire, la mondanità; quella stessa mondanità che dall’alto miserabile della loro bassezza hanno stigmatizzato per decenni con lo stile patetico e forbito di frequentatori di salotti letterari immaginari e di azioni rivoluzionarie ancora più immaginarie. Non hanno cambiato niente neppure loro, queste avanguardie dell’alienazione che pretendono di esprimersi con stile squisito e disprezzo del volgo “vaneigemista”.
Chi se ne frega, poi, dello stile mentre fischia ancora il vento e infuria la bufera?
Sarà il privilegio di uomini liberi, valutare lo stile di quelli che avranno provato a resistere dando loro il tempo di cambiare il mondo, cominciando, magari poco o niente, ma sinceramente, a prendere coscienza di quest’impellente necessità diventata tristemente bisogno e a farla circolare.
De Gaulle è morto e la ricreazione è finita, ma il ballo mascherato continua e i rivoluzionari spettacolari sono passati dalla parte delle maschere. Non quelle tristi della sofferenza né quelle allegre della provocazione. Quelle patetiche di una rabbia paranoica che s’inventa nemici immaginari perché non ne ha più di veri da superare e lasciare indietro, rispedendo la violenza al mittente nella spazzatura della storia.
In tutte le epoche, ogni rivoluzione incompiuta cambia la scena ma ripete il libretto dello stesso Nabucco: vaffanculo pensiero sull’ali dorate dell’ideologia.
Il rincoglionimento dei rivoluzionari del passato è questo: continuare a giocare gli arrabbiati spietati di un estremismo mascherato di radicalità su un palcoscenico abbandonato perché lo spettacolo si è spostato e ha investito altrove e altrimenti con la sua violenza tutti i suoi dominati.
Mi sono battuto a viso scoperto e pacificamente contro l’ideologia della lotta armata quando è venuta a inquinare una voglia di rivoluzione sociale sconfitta (ma non ancora vinta) tanto dal nichilismo interno dei suoi partigiani arcaici e desueti che dalla forza dirompente del nemico di classe.
Questa logica di un rapporto di classe è sopravvissuta, tragicamente per l’umanità, al superamento capitalistico della classe dominante trasformata in casta che comprende tutte le caste.
Mutatis mutandis, questa logica di classe che i giornalisti embedded e i finti moralisti politici cancellano ignominiosamente dal quadro del presente, è la radice della violenza sociale, ne è la levatrice, il motore, la spinta. Oltre e contro di essa c’è la solidarietà, l’amicizia, la fratellanza con cui gli individui innamorati di libertà cercano di giocare affettuosamente quando il rincoglionimento ottuso di ogni violenza non prende il sopravvento.
In una società di individui liberi, solo i traumi individuali e le frustrazioni naturali produrrebbero ancora della violenza e dunque la necessità di fermarla. Tutto il resto sarebbe felicità, qualunque fosse lo stile usato per dirlo e soprattutto per contribuire modestamente a renderlo concretamente possibile.

Sergio Ghirardi

**Raoul Vaneigem, Lo Stato non è più niente, sta a noi essere tutto, Nautilus Torino, 2011.