domenica 24 novembre 2013

OCCUPY THE LIFE








«Il soggetto ideale di un ordinamento totalitario non è il nazista convinto o il comunista convinto; sono piuttosto le persone per le quali la distinzione tra fatto e finzione (cioè la realtà dell’esperienza) non esiste più.»

Hannah Arendt, Origini del totalitarismo, 1958

Oltre il totalitarismo della democrazia spettacolare

Chiunque si ponga la questione sociale nei suoi termini radicali si assume immediatamente l’improbo compito di sottrarre le parole e i concetti che ne compongono la trama contemporanea al senso teleguidato e falsificante che la pseudocultura spettacolare diffusa appiccica loro addosso.
Che prima di ogni rivoluzione la cultura dominante sia sempre la cultura della classe dominante resta vero anche oggi quando, andando ben oltre gli interessi di una classe particolare, il dominio si è infiltrato tra le caste umiliate e confuse di un capitalismo antropomorfizzato per diffondervi l’interclassismo dello spettacolo che educa ovunque gli uomini capitalizzati all’addomesticamento.

Le derive di significato dei termini fondamentali che compongono la storia delle dottrine politiche e delle loro mutazioni tendono sistematicamente a falsare il senso delle passioni che le articolano e i progetti sociali nei quali esse sono iscritte. Ciò è vero da sempre, ma è ancor più vero oggi quando quasi tutto si esprime sul palcoscenico di una società dello spettacolo in piena decadenza.
Il peso dell’ideologia ci accompagna sempre per spingerci ineluttabilmente verso i territori amministrati dal nemico, laddove alcune parole fondamentali sono intese acriticamente secondo il sistema di valori dell’ideologia dominante ormai diffusa in tutto l’arco, costituzionale e non, della società spettacolare; un arco che va da destra a sinistra, dai Parlamenti e dallo Stato alle Borse e al Mercato, dal riformismo pragmatico al rivoluzionarismo astratto.

A questo proposito, ho rilevato nel libro di Nico Berti Libertà senza rivoluzione un esempio palese della difficoltà incontrata dal pensiero critico radicale (al di fuori, quindi, delle elucubrazioni accademiche e della malafede dei mercenari della cultura) nel sottrarsi al “buon senso” conformista che scrive i suoi teoremi usando delle parole pesantemente ideologizzate.
Seguendo una moda settaria piuttosto frequente tra gli anarchici antimarxisti (soltanto in parte giustificata dall’odioso autoritarismo ideologico dei teologi marxisti-leninisti), un Berti “liberal-libertario[1] identifica piattamente il progetto comunista con il cosiddetto comunismo reale; mentre, con una facilità sconcertante per un libertario, concede, invece, il labello di qualità democratica alla democrazia virtuale e fittizia che da secoli è la forma più alta ed efficace del dominio del capitalismo e dei suoi servitori volontari sull’ultima classe della storia, la classe della coscienza.
Porre semplicisticamente l’alternativa tra democrazia e totalitarismo, senza prendere in conto lo scivolamento semantico controllato che ho appena denunciato, spinge a ignorare il distinguo necessario tra la democrazia fittizia esistente (parlamentare, maggioritaria e gerarchica) e la democrazia reale insita nel progetto rivoluzionario di autogestione generalizzata della vita quotidiana.

Per un libertario - e assumo pienamente per me questo qualificativo - l’alternativa radicale non si pone tra democrazia e totalitarismo quanto, ben prima e più a fondo, tra una democrazia reale, inesistente, e la democrazia spettacolare, diffusa come rappresentazione ideologica del totalitarismo affinato della società dello spettacolo.
Non c’è bisogno di scomodare l’anarchia per denunciare il totalitarismo nelle sue forme becere, tradizionali. L’antifascismo ha unito in un primo interclassismo tanto inevitabile che ambiguo, atei e credenti, borghesi e proletari, liberali e comunisti, libertari e autoritari non totalitari nella lotta contro “la bestia immonda” conclusasi con l’instaurazione delle democrazie parlamentari della seconda metà del ventesimo secolo, dimostratesi, in qualche decennio, il peggior prodotto del fascismo, finalmente sconfitto unicamente nella sua forma politica arcaica.

Quale esempio più lampante della dimensione spettacolare delle democrazie contemporanee potrebbe competere con quello della giovane repubblica italiana costituzionalmente “nata dalla resistenza” antifascista e passata da mezzo secolo di clericalismo democristiano a un ventennio di berlusconismo conclusosi con un’ammucchiata bipartisan nei putridi palazzi di un potere mafioso?
Manipolata da destre e sinistre confuse e complici nella corruzione produttivistica, ben oltre le loro diatribe ideologiche di facciata, l’Europa artificialmente unita si è accontentata di un governo dispotico direttamente in mano al potere economico ben prima che la gerarchia mondializzata dell’economicismo imperante deponesse la maschera democratica per consegnare esplicitamente i cittadini sovrani di ventisette pseudodemocrazie alla finanziarizzazione capitalistica di un Super Stato Europeo che nessuno ha scelto e ancor meno democraticamente.

In realtà, in una continuità tutto sommato coerente ma umanamente inaccettabile, l’orribile visione del mondo dei fascisti era stata ampiamente supportata e finanziata, fin dagli albori, da parecchi capitalisti internazionali, membri riconosciuti delle democrazie occidentali prebelliche. Questi mecenati capitalisti amorali, cinici umanisti del business, hanno abbandonato gli appestati in camicia bruna ai loro potenziali suicidi solo in vista della vittoria finale di un antifascismo nutritosi delle rovine della seconda guerra mondiale.
In nome di una retorica antifascista che non ha impedito a Stati e Chiese di correre in soccorso a un numero considerevole di gerarchi nazisti e fascisti in fuga, fino a reintegrarli poi nella piovra statale democratizzata, gli alleati di una coalizione opportunista sono serviti a instaurare una democrazia planetaria fittizia opposta a un capitalismo di Stato autoritario sedicente comunista (spettacolo diffuso contro spettacolo concentrato).
Attraverso lo spettro dell’arma nucleare e l’obsolescenza programmata dell’uomo, la guerra è rimasta sempre minacciosa e potenzialmente apocalittica pur se congelata nel frigorifero ideologico in cui si pavoneggiava una democrazia puramente virtuale.
Per orribili decenni, da entrambi i lati di una cortina di ferro vergognosa, gli eredi di due fascismi contrapposti si sono mostrati uniti nello sbandierare spettacolarmente diritti umani quasi inesistenti. Tanto i diritti dell’uomo liberale che di quello proletario si sono mostrati, infatti, l’alibi mercantile per un ben più redditizio diritto della merce teso a sottomettere l’umanità intera al suo perpetuo delirio di valorizzazione.

Il fascismo, le cui radici caratteriali precedono di gran lunga le sue ramificazioni politiche, è dunque servito al suo apparire come cane da guardia dello Stato autoritario (tautologia) contro le occupazioni delle fabbriche che, sulla spinta del forte movimento operaio di quegli “anni venti”, preannunciavano il “rischio” dell’avvento di una possibile democrazia reale[2].
Spinto all’autodistruzione da un morboso delirio di onnipotenza marchiato dal riflesso di morte, il fascismo, sconfitto sul piano militare, è stato parzialmente rimosso nel dopoguerra e ridotto a un folklore patologico tenuto al guinzaglio in attesa degli eventi.
In Europa, un suo ritorno esplicito e massiccio si è presentato raramente come possibile (vedi la Grecia dei colonnelli) e il solo fascismo conquistatore esplicitamente al potere è stato, per decenni, quello rosso sponsorizzato dall’Unione pseudosovietica.
Il fascismo nero è sopravvissuto come una malattia incurabile, come una nostalgia demente, come il sogno di un boia che attende il ripristino della pena di morte. Il potere pretendeva ipocritamente ignorarlo, salvo qualche scampagnata finanziata dagli interessi più segreti di Stati che dovevano qui far fuori un presidente scomodo, là impaurire una popolazione che tendeva un po’ troppo a rialzare la testa o a resistere al totalitarismo economico sempre più invadente.
Dallas, Piazza Fontana, il palazzo della Moneda, esempi diversi che sorgono da un passato recente sottolineando l’antifona che porta al presente.
Di fronte ai soprusi sempre più ingiustificabili di banksters e multinazionali, il fascismo torna, infatti, oggi a proporsi come un’eventuale scappatoia contingente per il capitalismo, impelagato nell’illusoria attesa di un’uscita dalla crisi strutturale che lo attraversa e lo fragilizza.

I Chamberlain dello spettacolo di destra o di sinistra, maggiordomi che gestiscono da politicanti impotenti la catastrofe sociale in atto, sono i migliori sponsors di un eventuale ritorno demenziale di fascismi opportunisti, in attesa, da mezzo secolo, di una rivincita certamente possibile ma destinata, comunque, all’effimero. Neppure loro, infatti, servitori mafiosi di un capitalismo su cui vomitano le loro tare razziste e xenofobe per meglio servirne gli scopi più occulti, potrebbero durare al potere nel deserto nichilista che il capitalismo in fase terminale sta preparando agli esseri umani.
Oggi le Albe dorate e i vari fascismi xenofobi, mascherati in movimenti sociali, alzano la testa e sguainano i pugnali assassini ma i loro deliri mortiferi sono agitati come un drappo rosso destinato, nella contingenza attuale, a distrarre le popolazioni dall’espropriazione sistematica, concreta e definitiva di tutti i loro diritti nella vita quotidiana[3].
La guerra civile tra fascismo e antifascismo torna come un ultimo tragico diversivo spettacolare voluto dal capitalismo nichilista in via di estinzione. Non si tratta certo d’ignorarla, ma ancor meno di farne il punto cruciale della lotta tesa a superare la follia capitalista che sta distruggendo il vivente.

Si ha l’impressione fallace di essere tornati ai tempi dell’occupazione delle fabbriche, ma senza le fabbriche occupate. Le quali, infatti, tendono piuttosto a essere disoccupate, spingendo la coscienza di classe, acuita da quella che i galoppini mediatici continuano a vendere come una crisi che riguarda tutti, a capire che non si tratta di appropriarsi di questo mondo infetto, di battersi per salvarlo, quanto di inventarne uno nuovo che ne sia il superamento.
Il fascismo può poco contro la creatività. Può solo aspettare che essa manifesti la sua poesia per violentarla pubblicamente.
Il fascismo è negazione senza superamento, laddove la rivoluzione sociale è superamento dialettico della negazione.
Il fascismo può solo giocare sulla paura, ma c’è un punto oltre il quale il ricatto alla paura non funziona più. Non siamo lontani da questo punto e per questo il nemico da temere di più è lo Stato e non i suoi pitbulls.
Giunti a un tal punto di non ritorno, il fascismo si riduce visibilmente a una malattia opportunista del capitalismo in fase terminale.
L’odio non può costruire nulla se non dei ghetti e delle prigioni. Non solo per i nemici, ma anche per i suoi adepti, per i beceri soldati di una guerra sociale combattuta dietro la bandiera psicotica della peste emozionale e l’ossessione mortifera della redditività.
Si tratta ormai di andare contro questa follia, oltre gli estremismi spettacolari che oppongono alle gerarchie dominanti altre gerarchie, rinforzando così il nemico e giustificandone la repressione agli occhi di un’opinione pubblica confusa e sprovvista di autonomia di giudizio.
Non si combatte l’alienazione usando i suoi metodi in un’ottica ottusamente vendicativa senza rinforzare, di fatto, quel che si pretenderebbe abolire.

Da modo di produzione a tendenza totalitaria, il capitalismo di Stato e Mercato si è trasformato in un impulso nichilista che nel suo delirio finale insegue ormai la morte chiamandola crescita. Non resta che costruire un nuovo mondo sociale che abroghi positivamente il nichilismo spettacolare-mercantile.
Esclusa la terza via di una rivolta democratica radicale, la scelta sembra ristretta tra il subire in silenzio il terrore profuso da tutte le parrocchie ideologiche (terrore per ora soltanto puntuale, ma già proiettato a ripetizione sugli schermi di uno spettacolo sociale trasformatosi in minaccia permanente di un peggio imminente), accettando di lasciarsi avvelenare progressivamente dall’aria, dal cibo e dall’acqua inquinati, oppure lasciarsi intossicare dai lacrimogeni e massacrare dalla violenza di uno Stato che difende la democrazia fittizia contro quegli stessi cittadini che la sua propaganda più volgare continua grottescamente a definire sovrani.
La violenza della repressione nella Penisola Calcidica, in Val di Susa e a Notre Dame des Landes è già un inquietante segno - in Grecia, in Italia e in Francia - della vera guerra sociale senza quartiere che il capitalismo ha ormai dovunque dichiarato all’umano, riducendo la democrazia ad alibi per il totalitarismo.

La fase terminale del capitalismo, reso assolutamente disumano dal suo morboso riflesso di morte, è stata inaugurata un undici settembre meno sbandierato di quello del 2001, ma probabilmente anche più cruciale dal punto di vista storico.
Nel 1973, in un’America latina avvezza ai sussulti autoritari di dittature talvolta effimere ma reiterate fino alla banalizzazione, il colpo di Stato perpetrato da Pinochet contro il socialista Allende nascondeva ben altro che la smania di potere di un ennesimo caudillo. Dietro il cinico sterminio di ogni spirito libero in Cile, c’era la lucida follia di una patologia totalitaria intrinseca alla fase finale del capitalismo e alle sue smanie valorizzatrici[4].
Prima che il crollo dell’impero pseudosovietico consegnasse il mondo al liberalismo come un unico, gigantesco supermercato planetario, Friedman e i suoi Chicago Boys hanno rappresentato la Hitler Jugendbewegung del capitalismo reale, cioè del modo di produzione assunto al suo presunto dominio totalitario sul mondo.
L’ideologia economica, vera e propria religione atea di un mondo alienato, ha trovato in quel drappello di economisti esaltati il progetto di soluzione finale alleggerito dalle tesi razziali del fascismo arcaico e ridotto all’essenziale di un rovesciamento totale, radicale e definitivo del rapporto uomo/merce.

Il feticismo della merce di Friedman e camerati è emerso come una patologia aggressiva del sistema dominante, proprio nel momento in cui gruppi sempre più ampi delle giovani generazioni internazionali confermavano il loro rifiuto della società liberale appena colpita da un imprevisto affronto epocale: la rivolta radicale di ampie fasce di giovani cittadini e di lavoratori innamorati della libertà contro i consumi e la felicità mercantile, ma anche contro ogni comunismo autoritario al servizio del capitalismo di Stato.
Fedele al detto che la miglior difesa è l’attacco, l’ultraliberalismo dispotico dei Chicago Boys si è incaricato della distruzione sistematica del tessuto sociale umano mostratosi refrattario e ribelle di fronte alla dittatura del Mercato.
L’obiettivo di un capitalismo resosi conto che il fattore umano si opponeva ovunque ai suoi fini, dal Vietnam all’Europa, da Praga a Parigi, si è concentrato allora, laddove era possibile, sull’imposizione della sua disumanità redditizia con i metodi spicci e indiscutibili del colpo di Stato.
Nell’arco di un decennio circa, dal Cile, all’Argentina, dal Brasile all’Indonesia, la lunga tradizione del putsch politico-militare ha permesso di imporre il dogma delle liberalizzazioni economiche come un primo passo verso il preteso paradiso terrestre del libero Mercato.

Il terrore per fare dimenticare l’emancipazione, l’addomesticamento forzato per umiliare ogni istanza di libertà. Gli anni ottanta sono stati il laboratorio demenziale che ha imposto la propaganda dell’assurdo Eden economicista, fondato sul peccato originale del debito, come una cattiva sorte imperversante sul pianeta. Degli analfabeti politici, disumani e benestanti come Reagan e la Thatcher, l’hanno messianicamente reclamizzato con tronfia prosopopea a masse di consumatori dopati.
Mancava solo la caduta del muro e il crollo della burocrazia sovietica per dare l’ultima spinta al delirio ultraliberale. Anche i più sinistri burocrati di sinistra si sono allora riciclati in adepti dell’ideologia delle privatizzazioni ad oltranza, contribuendo all’instaurarsi della più macabra delle superstizioni: la favola del Libero Mercato emancipatore. Anziché affrancarsi dall’autoritarismo del fascismo rosso e dei burocrati che lo incarnavano, preservando le buone intenzioni miseramente fallite di una società più giusta e fraterna, destre e sinistre parlamentari, ossessionate dalla conservazione dei loro privilegi, si sono accordate per integrare i burocrati e approfittare dell’autoritarismo, cancellando definitivamente l’ipotesi di una democrazia consigliare osteggiata da tutti i partiti politici formali e informali, indaffarati a spartirsi il bottino di un economicismo assurdo e volgare.
In totale accordo con l’ultraliberalismo, si è dunque gettato a mare il progetto tradito di una società egualitaria, disegno abortito nell’incubo di un comunismo dal volto altrettanto disumano che i suoi atti.
L’iperproduttivismo patetico e irrazionale di un capitalismo in fase terminale ha preso corpo in questo nodo della storia confiscata, laddove la mitologia economicista ha demolito ogni possibile lettura umana dell’emancipazione.

Per rispondere al pericolo insito nella prima rivolta antiproduttivistica della storia che ha attraversato il mondo alla fine degli anni sessanta (Maggio 1968 e dintorni), l’ideologia dominante ha saputo falsare e in parte appropriarsi di quel passaggio cruciale identificandolo con un gauchismo confusionista ancora totalmente impregnato di ideologismi e rancore e recuperabile, dunque, alla continuità del dominio.
Come recitava uno slogan profetico di quei tempi andati, il vecchio mondo perverso e sempre più nichilista che era dietro di noi ha raggiunto e fagocitato prima i più disperati, poi i più corruttibili e infine i più confusi, finendo per tracimare anche dentro al carattere di molti individui anonimi, laddove l’alienazione è più difficile da isolare e da estirpare.
Del resto, i peggiori ideologi della conservazione sono sempre assoldati tra gli strateghi frustrati delle rivoluzioni fallite, indipendentemente dal grado di autoritarismo dell’ideologia rivoluzionaria immessa sul mercato.
Ogni ideologia della libertà, con o senza rivoluzione, è un passo ulteriore non verso la libertà, ma verso l’ideologia, nel cui ambito nessuna libertà reale è mai praticabile.
Non a caso l’attenzione dei situazionisti, libertari irrecuperabili e inclassificabili all’interno delle categorie politiche abituali, si appuntava già mezzo secolo fa sulla denuncia di ogni ideologia rivoluzionaria, situazionismo incluso: “La teoria rivoluzionaria è ormai nemica di ogni ideologia rivoluzionaria e sa di esserlo.” (G. Debord, La società dello spettacolo, Tesi 124).

Popoli e populismo, nazioni e nazionalismo

Quando, finito il suo pasto cannibalesco nei vari paesi violentati dell’America latina e del cosiddetto terzo mondo, il capitalismo si è rimesso a tavola per ingoiare anche il cuore della società occidentale, ha dovuto prendere atto che le cicatrici ancora recenti del conflitto tra fascismo e antifascismo non gli permettevano di applicare meccanicamente all’Europa la ricetta speditiva con cui aveva imposto l’ideologia ultraliberale dal Cile all’Argentina.
Troppo recente restava la memoria di una resistenza alla disumanità in nome di un umano sensibile alla volontà di vivere e di godere della vita, ben oltre le ideologie di servizio, contemporaneamente gonfie di edonismi meccanicisti e di mistiche del sacrificio.
L’ideale di un’Europa patria comune di nazioni sopravvissute alle guerre fratricide di millenni, è stato allora la carota che ha permesso al bastone dell’Unione Europea di penetrare più a fondo.
Niente colpi di Stato, anzi: con il contributo della mortalità senile, exit Franco (1975) subito dopo Salazar (1970), funerali trasformati in ottimi spot pubblicitari per inventarsi le condizioni di un continente pacificato (Grecia esclusa) oltre ogni aspettativa.
Qualche mondanità rivoluzionaria di facciata, tra garofani portoghesi e rose mitterandiane utili al recupero ideologico del rischio di una vera rivoluzione dei desideri d’emancipazione, poi in rapida successione: fine della dittatura sovietica, della Germania spaccata in due e dei paesi satelliti, loro malgrado, della grande truffa marxista-leninista.
Finalmente la libertà poteva trasformarsi da parola evocatrice di bei sentimenti astratti in un ben più pragmatico ultraliberalismo economico. Persino la Cina, pur sempre ancorata al suo stupido maoismo passatista, ha mantenuto le bandiere rosse per mimetizzare meglio lo schiavismo cinico e scientifico del suo beneamato proletariato.
Nell’Occidente cristiano, invece, in un’orgia di demagogia e propaganda, quegli stessi burocrati che avevano adorato i piani quinquennali del capitalismo di Stato, sono diventati gli adepti più fedeli della privatizzazione di ogni bene pubblico e della soppressione di ogni conquista sociale.

Privatizzare tutto quel che ancor si muove: banchieri, affaristi, economisti, burocrati politici di destra e di sinistra si sono mostrati perfettamente complici nella lotta mafiosa per l’addomesticamento definitivo dell’essere umano.
Sotto la maschera di una razionalizzazione astratta e discutibile, sostenuta dalla volontà di rompere con il minimo ricordo dell’ideologia comunista finita definitivamente all’indice, si è distrutto progressivamente il tessuto sociale di nazioni dalla storia millenaria e assai poco comunista, del resto, nella maggior parte dei casi.
Si trattava di liberare la valorizzazione economica dalle scorie di un vero progresso umano riscattato a spese del progresso capitalistico; decenni di lotte per l’emancipazione, di conquiste nobili e necessarie per l’umanità mandate alla malora in pochi anni in nome del sacro business.
Liberalizzare, privatizzare, ridurre lo Stato a vigile al servizio del Mercato (mica abolirlo lo Stato - intollerabile idea sovversiva e anarchicheggiante ! -; che un Mercato senza Stato è come uno stupratore senza erezione o, peggio ancora, senza manganello).
Poi, in un crescendo confuso ma cinicamente determinato, il colpo finale: la messa in scena della crisi e la criminalizzazione del debito, su sfondo di finanziarizzazione galoppante dell’economia planetaria.
Stati, banche, multinazionali e strutture burocratiche asservite per natura al funzionamento dell’apparato produttivo capitalista e della sua amministrazione planetaria (FMI, WTO), hanno ridotto la politica alla gestione dell’esistente, escludendo autoritariamente che un qualunque altro mondo migliore fosse possibile.
Questo era e doveva restare l’unico mondo possibile e ogni altra ipotesi andava bollata come ingenua utopia o diabolica propaganda populista, per tenere sotto controllo le masse di ignari maccartisti berlusconizzati cui sono stati ridotti i cittadini-spettatori-consumatori delle democrazie parlamentari.

Il delirio dei Chicago boys è dunque brillantemente sopravvissuto ai suoi maestri finalmente deceduti, perché conteneva l’essenziale dell’ideologia intrinseca al capitalismo in fase terminale: muoia il vivente fino all’ultima redditività; nel paradiso desertico di un pianeta genocidizzato, il Mercato riconoscerà i suoi.
Non si spiega altrimenti il mantra produttivistico della crescita senza fine che incalza i sopravvissuti di un mondo finito e violentato nei suoi equilibri vitali che lancia ormai quotidianamente segnali sul raggiunto limite della sua sopportabilità.
Unica grande pensata strategica degna dei migliori spin doctors: dopo ogni catastrofe prevedere una messa funebre collettiva per esorcizzare la paura e continuare imperterriti ad aggredire la natura e il vivente a fini economici.

Chernobyl, Fukushima, l’amianto, l’inquinamento delle falde acquifere? Avanti con il nucleare, con il TAV e con il gas di scisto !
L’importanza delle foreste primarie e della biodiversità? Avanti con l’allevamento intensivo e con le estrazioni minerarie dagli effetti catastrofici, dall’Amazzonia alla Penisola Calcidica !
Le bombe all’uranio impoverito? Avanti con “l’esportazione della democrazia” attraverso la guerra, in nome della pace !
Ecc….

La sacra crescita non è neppure più un fattore economico, ma una fede che degli economisti in brache di tela ripetono senza neppure più crederci. Almeno non quanto sembrava crederci Friedman, orrido mistico del capitalismo, quando si lasciava andare all’involontaria confessione che le sue idee economiche erano essenzialmente “un atto di fede”.
Mai materialismo volgare fu più metafisico. Gli animali muoiono ridotti a cose, gli umani non trovano più spazi vitali, si ammalano, si uccidono o diventano talvolta assassini di massa; nessun problema, purché non si rivoltino contro il sistema; nel qual caso - si è ben visto - le soluzioni finali non mancano.
L’economia autonomizzata è una crisi perpetua che si risolve creando le condizioni della crisi successiva. Tuttavia, la sola questione che torna a ripetizione è: come si fa per riprendere la crescita?
Non si tratta più di rispondere a una tale idiozia ma di cominciare urgentemente la terapia.

Tra le parole che storicamente il potere ha piegato al suo uso ideologico, molte sono quelle la cui perdita di senso impedisce il superamento ormai urgente delle condizioni esistenti.
Il concetto di popolo è gravato dall’uso demagogico che i populismi vari ne hanno fatto nella storia. Lo stesso vale per il concetto di nazione, corroso dall’ideologia nazionalista, spintasi per tutto un secolo abbondante fino ai razzismi e al superomismo becero dei vari fascismi.
Eppure, distinguere queste due entità sociali - popolo e nazione - dalle ideologie che ne hanno corrotto il senso, mi sembra essere una conditio sine qua non per capire il nostro tempo e soprattutto per cambiare la condizione di una società prigioniera del totalitarismo mercantile e di un capitalismo diventato esplicitamente nichilista.

Un popolo è un gruppo che condivide una nazione e un progetto.
La nazione è il suo bacino vitale; il progetto, in qualunque forma esso si presenti, è comunque un tentativo di creare le condizioni, pur se relative e mutevoli, della felicità collettiva e dunque, a fortiori, individuale.
Il concetto di popolo è stato ampiamente usato con intenzioni dispotiche da varie genìe di populisti.
Chi sono i populisti? Tutti coloro che accarezzano i popoli (e soprattutto le loro identità concrete che li compongono, gli individui) nel senso delle catene.
Un popolo felice non ascolta le sirene populiste. Di fronte a un popolo felice un’ideologia populista non riesce neppure a formularsi, a esistere. Essendo però la felicità una realtà in divenire, fragile e sempre da ricostituire in una dimensione orgastica fruibile, l’opportunismo populista trova sempre un appiglio a cui attaccare il proprio seme malato, la sua paranoia autovalorizzatrice che si offre per compensare l’intollerabile sentimento d’impotenza che attanaglia individui e popoli carenti di felicità.
Soprattutto nella civiltà del lavoro e del suo sfruttamento organizzato dall’apparato economico-ideologico-militare, le ragioni d’infelicità e le ingiustizie palesi producono infinite occasioni di recupero populista.
Il primo populismo fu la religione, poi il prodotto si è diversificato.
Il populista dice di amare il popolo mentre si sostituisce agli individui reali nella scelta degli obiettivi e delle strategie di cambiamento delle condizioni esistenti.
Che sia dunque chiaro, di fronte ai sofismi demagogici dei professionisti della politica in lotta per conservare i propri privilegi: non è populista chi denuncia al popolo una situazione intollerabile ma colui che usa questa situazione per asservire il popolo a una nuova gerarchia di cui esso si pone come il vertice.
Populista non è colui che ama il popolo, ma colui che lo annette ai propri interessi, siano essi economici o narcisistici.
Solo un imbecille, oppure un perverso manipolatore, accortosi che il popolo è ingannato, può rivendicare con fierezza il proprio populismo anziché partecipare come elemento del popolo sovrano all’emancipazione concreta degli individui.
Il populista si identifica all’ideologia del popolo come qualunque satrapo, dittatore, despota, tiranno: per dominarlo e dirigerlo.
L’emancipazione del popolo passa per l’esclusione e se necessario l’eliminazione anche fisica di ogni capo dominante, di ogni signore che travalichi anche per un solo istante l’eventuale delega di potere rappresentativo ricevuta dall’assemblea del popolo sovrano.

Restituito dunque il populismo alle cloache che lo hanno inventato (fascismi vari, mistiche del popolo e altri inganni), vediamo di approfondire un minimo il concetto di popolo oltre le qualche definizioni già proposte.
Noto che “popolo” è un termine generico rispetto ai conflitti di classe che agitano ogni gruppo sociale finito nelle spire dell’economia politica. Un popolo che non abbia ancora superato nel suo interno il rapporto esistente storicamente tra classe dominante e classe dominata, porta in sé la ferita aperta di un’ingiustizia intollerabile: qualcuno mangia e qualcuno è affamato, qualcuno ride e qualcuno piange non solo per le peripezie individuali del proprio vissuto, ma per le condizioni collettive che concedono ad alcuni i privilegi ad altri le corvé.
I popoli che hanno finora abitato la terra sono popoli monchi, incompiuti perché hanno subito la dittatura di un’ingiustizia storica relativa all’appartenenza alla classe dominante o a quella dei dominati.

Il primo popolo assoluto apparso sul pianeta è quello degli ultimi che non vogliono più esserlo. Con il loro atto di volontà pratica essi aboliscono le differenze gerarchiche su cui si fonda tutta la civiltà del lavoro e dell’economia politica che ne gestisce i profitti.
Quest’atto, tanto sognato dalle utopie sociali degli ultimi due secoli, non è mai stato radicalmente compiuto, ma è oggi l’unico atto in grado di garantire non solo una vera giustizia ma la stessa sopravvivenza della specie umana.
Abbiamo visto come l’alienazione intrinseca al mondo dell’economia politica non possa emanciparsi dall’obbligo della redditività neppure di fronte al rischio ormai avverato di un olocausto specifico dell’umanità e di tutte le specie che ne condividono l’ambiente vitale.
Finché il processo di valorizzazione della merce, tipico del modo di produzione capitalistico, resterà sovrano, l’uomo alienato, appunto perché alienato, preferirà morire per il profitto piuttosto che vivere per la propria felicità al prezzo del superamento del capitalismo. Solo dopo il naufragio nel mare in tempesta della decomposizione sociale, l’ipnosi produttivistica lascerà l’individuo alienato spingendolo a cercare un salvagente per salvarsi dalle onde. Sarà probabilmente troppo tardi, senza contare che un tale ritardo offre le migliori condizioni per un recupero populista. Il primo demagogo che lanci un salvagente ideologico all’ignorante disperato che si dibatte nei flutti può facilmente sperare di farne un adepto pronto a tutto.
La sofferenza cieca spinge al gregarismo e all’odio per qualunque capro espiatorio venga proposto al pubblico ludibrio.
È così che l’immigrazione è caricata di colpe che non la riguardano, che il colore della pelle diventa un segno capace di innescare un inqualificabile odio razziale. Che importa venire a sapere che Hitler aveva origini ebree una volta che la superiorità della razza ariana è stata affermata dal delirio nazionalsocialista?

La peste emozionale s’accontenta di lenire il dolore psichico di un’insoddisfazione intima e rimossa. Poco importa la coerenza, ancora meno la verità appurabile.
Ciò vale a destra e a sinistra: per quanto condito demagogicamente dell’utopia più perfetta, ogni comunismo di guerra è destinato a produrre le condizioni di una controrivoluzione da cui l’economia politica sa sempre trarre vantaggi economici rilevanti al prezzo dell’infelicità degli individui reali.
La felicità orgastica di un essere umano naturale si realizza, invece, soltanto in un progetto coerente e godibile già nei modi di proporlo e di proporselo.
L’aiuto reciproco è dell’ordine del dono orgastico e non del dovere, non dimentichiamolo mai, e una democrazia diretta è l’organizzazione dell’egoismo di ognuno armonizzato come egoismo collettivo autogestito per il bene di tutti.
La non violenza non è dunque un fatto etico, ma un’armonizzazione spontanea del principio orgastico del vivente che fa dell’amore il motore del godimento di essere al mondo.
La democrazia consigliare è la trasposizione cosciente nel sociale del processo biologico d’innamoramento che ogni individuo di qualunque specie conosce almeno meccanicamente quando la natura innesca la stagione degli amori.
Solo la gratuità individualmente e collettivamente vissuta di un rapporto restaurato con e dentro la natura, permetterà all’umanità di emanciparsi dal nichilismo capitalista che ci sta accompagnando a una morte certa e, quel che è peggio, prematura.

Liberata dalle ideologie che la rendono diabolica agli occhi di qualunque progressista, la nazione è semplicemente l’ambito psicogeografico[5] nel quale si è nati soggettivamente. Essa si tesse nel terreno locale come memoria vissuta di un mondo creativo, elaborata dallo slancio a godere della vita sociale che la volontà di vivere provoca spontaneamente.
Come il carattere stabilisce gli equilibri psicofisici di un individuo, così il suo essere sociale ne determina le armonie possibili a partire dalla scoperta della propria individualità unica e diversa ma sempre integrata agli elementi comuni condivisi con un certo numero di altri soggetti. L’insieme di questi individui e il vissuto liberamente condiviso tra loro formano la nazione.
La nozione di nazione ha dunque radici autonome dallo Stato nazionalista che le gerarchie di potere hanno inventato per ridurre le nazioni a un coacervo di bande predatrici in lotta tra loro.
Lo stato-nazione ha funzionato da punto di sutura tra l’ancien régime e la repubblica borghese. La nazionalità è così diventata quel che Joseph Gabel ha stigmatizzato ne La falsa coscienza (Dedalo, 1967): un errore condiviso da un certo numero di individui circa le loro origini.

La natura umana della nazione é istintivamente gilanica[6] e tende spontaneamente alla condivisione, all’aiuto reciproco. Tuttavia, essa è fragile e può facilmente scadere nel patrismo guerriero del maschio dominante, signore di un territorio di caccia, di soggiorno e affettivo. La forma umana della nazione consiste nel superamento di un tale primitivismo animale, uso a imporre il proprio dominio su un territorio come un privilegio riconosciuto.
La nazione avvia l’emancipazione dell’essere umano proponendosi come comunità soggettiva. La nazione-gemeinwesen[7] è l’unico superamento umano possibile della condizione animale fondata sulla gerarchia di cui il maschio dominante è la versione più volgare. Così, in tempi storici, la gemeinwesen ha portato in sé l’alternativa radicale alla gemeinchaft, società artificiale, statalista perché condizionata dall’economia politica.

Il capitalismo è la forma artificiale del primitivismo animale pronto a battersi fino alla morte, attraverso la competizione e la predazione, per la difesa e l’allargamento del territorio in quanto appropriazione privativa.
Diventare umani passa per il superamento di questa conflittualità meccanicistica attraverso la poesia dialettica intrinseca alla funzione dell’orgasmo. Grazie a essa l’uomo si emancipa dalla primitiva pulsione meccanicistica soddisfacendola qualitativamente, ottenendo al contempo la realizzazione e il superamento della politica e dell’arte.
Il sogno secolare dell’emancipazione umana passa dunque anche per una riappropriazione radicale della “nazione” in opposizione all’uso alienato che ne ha fatto l’ideologia politica.
Il capitalismo ci ha educato al nazionalismo facendo della nazione naturale il veicolo ambiguo di una macchina kafkiana al servizio dei potenti e della classe dominante.
Lo Stato che taglia la testa al re e proclama il cittadino sovrano, si libera al contempo dei signori e degli schiavi, perpetrando entrambi come ruoli sociali ai quali nessuno potrà più sottrarsi.
Si scopre così che il liberalismo e l’ultraliberalismo non hanno nulla a che fare con la libertà umana e che il nazionalismo non ha nulla a che fare con la nazione autentica, con la comunità umana, con le sue radici nel locale e la sua gestione orizzontale esercitata da soggetti che si amano e non da branchi uniti dall’odio dell’altro, del diverso.
In quanto comunità soggettiva, la nazione è il realizzarsi storico della gemeinwesen, il sovrapporsi di strati diversi di comunità che dal locale tendono ad allargarsi a territori sempre più ampi senza mai perdere di vista la tensione a fare del governo un mezzo per garantire la felicità di ciascuno. Un tale governo consigliare garantisce quindi il più ampio spazio individuale per dissentire e fare scelte autonome ma pur sempre in sintonia con la volontà di essere sovente una fonte di godimento per gli altri, perché ciò aumenta anche il nostro potenziale di godimento della vita.

Alcuni, come Ivan Illich, hanno parlato in proposito di convivialità.
Io ho voluto, con questa mia modesta riflessione, mettere bene in vista la dinamica della nazione-gemeinwesen come totalmente refrattaria a ogni forma di nazionalismo pretendente a una qualunque superiorità sulle nazioni altrui.
L’abrogazione dello Stato da parte della comunità umana ristabilita assomiglierà in meglio al superamento della monarchia in nome della repubblica poiché il nazionalismo è l’ideologia pestifera dello Stato travestito in una nazione (“Lo Stato siamo noi” è la più orribile delle menzogne) svuotata della sua spontanea dinamica di comunità reale, pacifica e orgastica. Con la nazione-gemeinwesen, lo Stato sparirà in quanto organo dello sfruttamento e dell’alienazione senza ricostituire un'altra classe dominante (la borghesia dell’89 o la burocrazia del 1917). La sua scomparsa si tradurra nella scomparsa tendenziale di ogni possibile nazionalismo. Resteranno le patologie individuali che qualunque società libera saprà trattare come un problema della comunità e non più come macchine da guerra che la società produttivistica utilizza cinicamente per sfornare gerarchie di dominio.
Ben oltre una decrescita comunque necessaria e auspicabile, soltanto la promessa di un affinamento della felicità smuoverà gli esseri umani di un nuovo mondo psicogeografico, finalmente liberi dall’ossessione della crescita economica.

Avventurandosi, sia pur timidamente, oltre le tracce dei bonobos che praticano già una prima soglia istintiva del superamento dell’animalità conflittuale, l’umanità ha introdotto, prima di perdersi nella giungla perversa del produttivismo, l’opzione consapevole di un’organizzazione sociale solidale che renda realizzabile la soddisfazione senza fine di tutti i desideri.
La democrazia consigliare è il tentativo concreto della tendenza dell’umano alla felicità sociale in via di lento consolidamento. L’umanizzazione dell’uomo resta, però, ancora estremamente fragile perché la scimmia umana è sempre attirata dalla facilità della risoluzione effimera della questione sociale attraverso il conflitto e il dominio soprattutto maschile.
Non bisogna mai dimenticarsi che l’essere umano non è né buono né cattivo in assoluto. L’essere umano è capace di tutto, dal meglio al peggio: della Comune e di Auschwitz, dell’amore per l’altro e del cannibalismo.

Come passare dalla repubblica borghese alla democrazia consigliare?
A questo si deve rispondere anche teoricamente, mentre si sostengono le lotte transizionali di resistenza al mostro che sta distruggendo la vita sul pianeta.
Attenzione, però, a ogni purismo, a ogni manicheismo moralista: il ridicolo delle lotte ideologiche, il loro effetto boomerang costante, favoriscono un distacco elitista impotente nel correggere gli errori e superare i limiti della rivolta.
Giustissimo denunciare la manipolazione recuperatrice di ogni focolaio di lotta da parte della politica burocratica; senza mai far venir meno, però, la solidarietà con ogni spontanea resistenza all’addomesticamento.
Sappiamo che continuando a commettere gli stessi errori che hanno portato alle sconfitte passate, si finisce per ottenere sempre gli stessi sconfortanti risultati nulli. Tuttavia, dobbiamo attaccare puntualmente gli errori e non la passione che spinge a lottare per l’emancipazione.

Così come i repubblicani hanno saputo scalzare l’ancien régime della monarchia di diritto divino, noi dobbiamo ora archiviare quello della repubblica di diritto commerciale per sostituirla con la società del dono e della ricchezza condivisa.
L’obiettivo mancato dal proletariato industriale, sconfitto dal consumerismo ancor più che dalla repressione degli eserciti e delle polizie dello Stato capitalista, è diventato quello dell’umanità intera, costretta ormai a lottare per l’emancipazione, non più semplicemente classe contro classe, ma globalmente contro la dinamica nichilista del capitalismo che sta distruggendo la vita umana sul pianeta. Sarà probabilmente un percorso tortuoso al quale il sistema dominante opporrà tutte le sue forze per sopravvivere. Non esiste, tuttavia, alternativa alla rivoluzione sociale se non una catastrofica rovina per la specie umana.
Le multinazionali e la finanziarizzazione dell’economia hanno sconvolto i fragili equilibri tra sfruttamento dell’uomo e della natura e conquiste sociali che davano agli sfruttati il senso di un minimo progresso. Il progresso è finito. Al suo posto c’è ormai la progressione incessante della decomposizione della società umana giustificata dall’ideologia della crisi che nasconde a stento l’emergere prepotente della crisi di tutte le ideologie.
E questa è la buona novella: non ci resta che abbandonare il mostro al suo destino. Destra e sinistra non significano più nulla non perché la conflittualità sociale sia sparita ma perché si è allargata al mondo intero, opponendo ormai direttamente i difensori della vita ai produttori di una morte sempre meno redditizia ma pur sempre seducente per le masse di zombi che la seguono come unica fonte possibile di felicità.
Di fronte a un tale scempio della volontà di vivere, solo il progetto radicale d’emancipazione dal totalitarismo nichilista che imperversa offre una possibilità di salvezza.
L’istinto di sopravvivenza che sussiste anche nell’animale più malato si confonde ormai con la poesia vitale di quanti continuano a voler vivere senza tempi morti e godere senza ostacoli una vita degna di questo nome. La realizzazione dell’utopia è diventata un ultimo obiettivo concreto per la specie in pericolo; agli antipodi, dunque, di quel consumerismo che fa incessantemente inseguire carote marcescenti che fanno morire di noia ancor prima che di fame, ogni volta che le si assaggia senza la minima gioia.

Dai consigli locali al Consiglio internazionale delle Nazioni unite, un numero conseguente di Consigli intermedi assicureranno la catena completa del processo decisionale come egualitario, orizzontale e antigerarchico. Molti dei problemi di gestione del funzionamento di una democrazia diretta e reale saranno risolvibili con tecniche adeguate.
Perché i soggetti della comunità reale - la singola nazione in simbiosi con tutte le altre nazioni organizzate in Consigli -  arrivino finalmente a formulare il rifiuto e l’abrogazione della forma statale a favore di quella dei Consigli non si può che passare innanzitutto per l’eliminazione di alcune confusioni, luoghi comuni e falsi problemi.
Una democrazia diretta non esclude deleghe e mandati, ma li pretende irrevocabilmente reversibili a ogni istante. La delega dev’essere un dono del delegato che si rende disponibile a rappresentare una decisione comune, senza entrare in alcuna gerarchia di potere accumulabile e redditizio. Per questo il controllo delle deleghe e dei mandati sarà un compito delicato e indispensabile per il buon funzionamento di una democrazia consigliare.
Molte astuzie sono già note. Parlo di astuzie non di verità filosofiche, come l'estrazione a sorte degli eletti revocabili e altre tattiche di filtraggio dei ruoli sociali.

Con l’abolizione, non solo auspicabile ma imperativa, degli Stati, il concetto di nazione assumerà un ruolo importante che l’ideologia totalitaria dell’economia politica ha abolito surrettiziamente. Totalmente ripulita dai miasmi nazionalisti tanto cari ai fascismi e agli sciovinismi, la nazione comparirà come una condizione sociale naturale per tutti i componenti di qualunque comunità reale.
Come, per esempio, è già stato il caso di molte tribù indigene del nord America che parlavano di nazione Sioux o Cheyenne, il concetto naturale di nazione tornerà a indicare una comunità di elementi materiali e spirituali, biologici e culturali.
Essere nati in un luogo comune significa avere un legame affettivo, non di diritto o di potere, con una terra, con un gruppo, con un linguaggio, con una particolare luce nell’aria, con abitudini alimentari, clima, gusti estetici, musicali, filosofici, poetici ecc.
La nazione non esclude i barbari. Siamo tutti i barbari di qualcun altro e per fortuna siamo tutti meticci, cioè figli di una stessa diversa umanità. Non esistono clandestini, ma solo stranieri dalle abitudini diverse che devono essere armonizzate da una volontà comune, altrettanto esente da tremebonde difese ossidionali del territorio che da prepotenti invasioni barbariche. Il sentimento di ospitalità rompe ogni rapporto tra la nazione e l’appropriazione privativa del territorio.
I cittadini del mondo, autoctoni o stranieri sono sempre tanto a casa loro che in casa di altri.
In nome del principio di laicità si tratta di mettere in comune soltanto quel che è comune a tutti, lasciando al libero arbitrio dell’intimità di ciascuno la condivisione eventuale delle specificità e delle differenze.
Le affinità elettive s’occuperanno di armonizzare unioni e separazioni, avvicinamenti e distanze.
L’obiettivo caleidoscopico della nostra emancipazione passerà per la ripresa planetaria del Movimento delle Occupazioni.

Appunto: OCCUPY THE LIFE… (continua, questo è solo l’inizio…)



Sergio Ghirardi, venerdì 6 dicembre 2013



[1] Così potrebbe affettuosamente definirlo Daniel Cohn Bendit trasformatosi dall’anarchico primario che fu nell’icona di un ambientalismo europeista imbedded.
[2] La fiammata spartakista in Germania e il progetto libertario in Spagna tra il 1936 e il 1938 sono due esempi di una sensibilità consigliare che ha attraversato gli ideali concreti d’emancipazione di tutto il ventesimo secolo. Essa ha trovato in un’oggettiva alleanza tra capitalismo di Mercato e capitalismo di Stato un nemico feroce, pronto a tutto per salvaguardare la civiltà dello sfruttamento e dell’alienazione.
[3] 2007 : creazione del Consiglio Economico Transatlantico (senza che i parlamenti nazionali siano consultati) : più di 70 imprese tra cui AIG, AT&T,BASF, BP, Deutsche Bank, EADS, ENI, Exxon Mobil, Ford, GE, IBM, Intel, Merck, Pfizer, Philip Morris, Siemens, Total, Verizon, Xerox, consigliano il governo USA e la Commissione Europea.…
2011 : creazione di un gruppo di esperti USA-UE, il cui rapporto, 11 febbraio 2013, raccomanda il lancio di negoziati per la realizzazione del Grande Mercato Transatlantico.

[4]  Vedi in proposito : Naomi Klein, Shock economy, l’ascesa del capitalismo dei disastri, Rizzoli, Milano 2007.
[5] Vedi a proposito di psicogeografia: S. Ghirardi, Note per l’esplorazione psicogeografica di un nuovo mondo.
[6] Vedi sulle società gilaniche (dal greco gyné donna + lyein/lyo liberare) i lavori di Marija Gimbutas, Riane Eisler et James DeMeo.

[7] Vedi K. Marx e J. Camatte sul concetto di comunità e sulla differenza tra gemeinwesen (intesa come libera comunità soggettiva) e gemeinshaft (in quanto comunità del capitale).