mercoledì 18 dicembre 2013

Cronaca di un ballo in maschera attorno alla spazzatura della storia





Ho incontrato per caso Etienne Chouard a Teil dove ero stato attirato, qualche mese fa, perché spargessi su una piazza semipubblica la mia critica della società spettacolare e dei suoi spettatori (servitori volontari, critici militanti sadomaso, sostenitori dei poveri che accettino di restare dei proletari e difensori dei bébés foca, tutti uniti nella non-lotta, senza saperlo).
Anche lui era là, invitato per la sua pedagogica volontà di diffusione di una sensibilità costituente appassionatamente indaffarata a mettere su carta, letteralmente ante litteram, la costituzione di una società a venire. Quale, però, se si scava un po’ oltre le tre meravigliose parole magiche che tutti adorano e manipolano (libertà, uguaglianza e fraternità) ?
Curioso come un bonobo in mezzo a una maggioranza di scimpanzé (a ognuno la sua scimmia di riferimento), mi sono messo all’ascolto traendone una forte sensazione di noia e di déjà-vu.
In effetti, perché non scrivere una costituzione se ne viene la voglia, prima di avere ritrovato il potere decisionale sulla propria vita (sola condizione che conferisca lo statuto di cittadino), ma anche perché, allora, non mettersi a giocare a Monopoli quando si è spiantati, prima di essere diventati capitalisti veri nella vita quotidiana.
In entrambi i casi, bisogna avere ben chiaro che la lotta reale per l’emancipazione dell’uomo o quella per diventare un maschio dominante, cambieranno forzatamente i dati al momento del passaggio dalla realtà fittizia di un immaginario progioniero delle celle quotidiane dello spettacolo a una situazione vissuta.
Non si è veri capitalisti nel Monopoli, non si è dei rivoluzionari in una classe di liceo dove si scrive una costituzione virtuale nello stesso modo in cui si è comunardi durante la Comune di Parigi, nel quartiere ateniese di Exarchia o in una qualunque manifestazione storica di un Movimento delle Occupazioni[1] ormai secolare.
Pur senza cogliere pienamente lo psicodramma politicante che accompagnava la figura di E. Chouard, mi ero irritato, facendolo sapere negli scambi di Teil, di fronte alla rivendicazione, perlomeno ingenua e confusionista da parte sua, del populismo e del nazionalismo. Gli avevo detto chiaro e tondo (prima di andarmene soprattutto a causa della noia di cui sopra) che a quel punto tanto valeva rivendicare direttamente il fascismo.

Qualche mese più tardi, ecco che lo psicodramma si snoda in tutta la sua ampiezza attraverso i blogs: dei gauchisti confusi (dicono altri gauchisti che pretendono di non esserlo) invitano Chouard a discutere di democrazia diretta e di costituzione.
Bestemmia. Tutta la panoplia statalista di un gauchismo che trascina dal maggio ’68 la sua impotenza e la sua confusione come un progetto rivoluzionario, s’offusca del fatto che la parola venga data a colui che è denunciato come un fascista, amico dei negazionisti e del putridume neonazista di estrema destra.

Sono figlio di un antifascismo reale che si è battuto in Italia per sbattere nella spazzatura della storia le leggi razziali e gli stronzi che le hanno preparate e infine difese durante il ventennio mussoliniano.
Le canzoni della resistenza che mi cantava mio padre antifascista hanno cullato la mia infanzia e ho dunque voluto, in seguito, che l’adulto che mi sono inventato le rispettasse davvero e non liturgicamente. Il che significa strappare le radici che producono il fascismo, tutto il contrario, cioè del farne un tabù, una rimozione e in ultima analisi uno strumento ideologico.
Nessuno mi farà rispettare una qualunque censura, nessuno  deciderà al mio posto chi è frequentabile e chi no.
Ho avuto spesso a che fare durante una ricca parte nomade della mia vita quotidiana con gente assai poco frequentabile (questione di punti di vista, dunque mai con fascisti caratteriali dichiarati, politicamente o no, perchè non posso sopportare la peste emozionale in azione: nessun dialogo con i coglioni, nessun dialogo con i provocatori). Ciò mi ha insegnato a rendermi libero di scegliere il modo e il momento per espellere gli indesiderabili dalla mia vita, combattendoli se necessario.
Ho sempre preso il tempo di decidere da solo, ascoltando bene gli altri, come un adulto non come un minore castrato e rivestito di una qualunque sovranità fittizia, obbligato a rimettersi sempre alla morale di un qualche padre, di un dio, di un maestro o di uno Stato che non è altro che la miserabile versione mercantile dei due simboli uniti e laicizzati di un unico potere sfruttatore e alienante (Dio+ Signore, Stato+Mercato).
Non tocca allo Stato (autoritario per natura) vietare il fascismo, sta a noi renderlo impossibile. Nessun fascismo, del resto, ha mai dominato in nessun posto senza la complicità decisiva dello Stato.

Ora, all’opposto della lettura confusionista che l’immancabile sindacalista di servizio ha fatto dell’intervento di Chouard sabato scorso ad Aimargues, questi non ha affatto criticato lo Stato. Ne vuole un altro. Il suo. OPS, il nostro, quello che inventeremo facendo scendere le tavole sacre di una nuova Costituzione perfetta, giustissima e irrecuperabile. Si potrebbe dire divina.
Laicizzare la mitologia giudeo-cristiana, ecco quel che hanno fatto per secoli dei credenti diversi, autoritari e allucinati (il che non impedisce né la sensibilità né l’intelligenza ma rende entrambe sistematicamente mostruose).
Ecco perché Chouard fa l’apologia di Robespierre, questo credente angosciato nell’Essere Supremo e nella Dea Ragione, questo antenato senz’altro involontario ma non per questo casuale del baffuto Piccolo Padre dei Popoli, Papa rosso pestifero che aveva studiato dai gesuiti ( guarda un po’, proprio come l’ultima star dello spettacolo, Papa Francesco, imbalsamato da vivo - Mandela almeno hanno aspettato che crepasse -, che pare venuto sulla terra per accarezzare nel senso delle catene la sua adorata gente da poco).
Ecco perché, sabato Chouard s’è trovato d’accordo ideologicamente con un buon numero dei suoi detrattori antifascisti, sindacalisti o devoti di base, sull’ipotesi sub-realista di uno Stato buono, non sfruttatore, non alienante.
Una buona parte dei partecipanti a questo incontro tranquillo, me compreso, sono partiti quando è cominciato il gioco costituzionale alla ricerca della formula di uno Stato senza macchia e senza peccato. Qualche piccolo gruppo ha stabilito una comunicazione conviviale e autonoma prima di riprendere ognuno il proprio cammino.
Nessuna veglia antifascista è stata necessaria per salvare una democrazia che comunque non esiste se non quando la “imponiamo” con i nostri comportamenti libertari, ma il fantasma ben fascista dello Stato rode, purtroppo, dai due lati delle barricate di carta della società dello spettacolo.
Quasi un secolo dopo i fatti, non si sa ancora, definitivamente, se Durruti, e con lui la democrazia diretta della Catalogna e dell’Aragonese (1936-38), sia stato assassinato di fronte da una pallottola franchista o di schiena da una palla stalinista; si sa, però che è stato fatto fuori dallo Stato (di destra o di sinistra, come per Rosa Luxembourg) per impedire la realizzazione collettiva di una democrazia consiliare.
La democrazia reale è incompatibile con lo Stato. Leggendo Abensour, Graeber, Pannekoek, Vaneigem e molti altri piuttosto che Robespierre, si può facilmente rendersene conto in tutta autonomia, naturalmente se quest’autonomia esiste.

Certo, altre lotte ci attendono, ma non credo che attenderanno a lungo.


Sergio Ghirardi


[1] Il Movimento delle Occupazioni, cominciato con l’occupazione delle fabbriche da parte degli operai (1919-22), è poi riapparso nel 1968 con il Movimento delle Occupazioni (prolungatosi soprattutto in Francia con il CMDO, Consiglio per la continuazione delle occupazioni, costituitosi alla Sorbona la sera del 17 maggio). Oggi torna d’attualità con le diverse manifestazioni di Occupy Wall Street e altri progetti simili. In sintesi: Occupy the Life.

lunedì 16 dicembre 2013

Né vincitori né vinti: liberi tutti




Tra i prodotti dello spettacolo in mutazione ci mancava il giovane filosofo confusionista che mescola Marx e Gentile; che si dice laico e fa professione di fede fino a partecipare all'imbalsamazione preventiva del gesuita francescano, volgare promotore, sul mercato in crisi delle ideologie, dell'immagine grottesca di un papa pauperista, se non addirittura marxista e rivoluzionario.
Per un prete, l’amore mieloso per i poveri è sempre il miglior modo per eternizzarne la condizione. Per un filosofo, mescolare qualche formula radicale al sostegno peloso delle nuove tendenze reazionarie assolve il ruolo d’intellettuale-castratore di ogni sovversione che s’annuncia.
La Chiesa (nel caso specifico quella formale arcaica cattolica e romana, coadiuvata da quella universale e inconscia dell’umanità capitalizzata e ridotta a nulla su tutto il pianeta) s’incarica di un ultimo disperato tentativo di vampirizzare la teoria materialista del proletariato in quanto teoria rivoluzionaria dell’emancipazione dell’umano da tutti i poteri.
Il sistema è in crisi e ha in un rinnovamento dell’autoritarismo la sola chance di durare. Nello stato attuale di decomposizione della società, solo se gli schiavi rinunciano volontariamente alla libertà la schiavitù potrà continuare.
Peggio della schiavitù cosciente c’è solo quella di schiavi che si credono liberi. Per questo la personalità autoritaria e i suoi servitori volontari variano da fasi fasciste a fasi democraticiste ma stanno sempre dalla parte del superio, cioè del totalitarismo dominante spettacolar-mercantile che ha bisogno di individui inginocchiati in chiesa o al supermercato, di fronte a Stato e Mercato, in guerra o in una pace che assomiglia a un armistizio sempre più fragile.
Il pensiero critico merita di meglio che di essere ridotto, ancora una volta, dalla palabra filosofica accademica ad ancilla theologiae come nell’intervista che segue.
Sergio Ghirardi



Dov’è la vittoria? Diego Fusaro: “Devastati dall’eurocrazia. Ma nontutto è perduto”

 

Intervista di Paolo Barbieri sul Fatto del 15 dicembre

Diego Fusaro, ricercatore in Storia della Filosofia presso l’Università San Raffaele, è uno studioso di Marx, di Hegel e della tradizione dell’idealismo italiano. Oltre ad aver creato a 16 anni il sito Filosofico.net, il più cliccato per il settore, ha scritto libri importanti come “Bentornato Marx”, “Minima Mercatalia”, “Essere senza tempo”, “Idealismo e prassi. Fichte, Marx e Gentile” ed è segretario delle due collane di filosofia Bompiani “Testi a fronte” e “Il pensiero Occidentale” dirette da Giovanni Reale.

L’Italia e la crisi. C’è un aspetto tipicamente italiano nell’affrontare una crisi economica che fa impallidire quella del ’29?
La crisi che stiamo vivendo non è, ovviamente, solo italiana. Personalmente, ritengo che l’aspetto più drammatico dell’odierna crisi globale stia nel fatto – del tutto coerente con le logiche di sviluppo del capitalismo post-1989 – che essa non venga percepita e affrontata come un prodotto storico e sociale, ma come un fenomeno naturale inemendabile, come un terremoto che non abbiamo prodotto e da cui non possiamo salvarci. Ciò vale a maggior ragione in Italia, dove la crisi è vissuta come l’analogon della peste dei Promessi sposi: lungi dall’essere considerata l’esito delle politiche neoliberali, la crisi è presentata dall’ordine del discorso dominante come una realtà minacciosa e indipendente dall’agire umano, un flagello naturale da cui – in attesa che cessi così come è iniziato – è possibile salvarsi unicamente in forma individuale, in coerenza con l’odierno individualismo trionfante.

Gramsci parlava di “cretinismo economico”. È questa una delle malattie italiane? La finanza che detta le leggi alla politica?
È una malattia, certo, ma non solo italiana. È la patologia tipica dell’era della tecnica capitalistica e della sua “immagine del mondo”, incentrata – come sapeva Heidegger – sulla riduzione dell’essente a pura quantità calcolabile, misurabile e illimitatamente sfruttabile. Gramsci come Gentile – i due più grandi filosofi italiani del ‘900 – ci insegnano che la realtà non coincide con una fredda somma di dati oggettivi che chiedono di essere asetticamente registrati dal pensiero calcolante, cifra dell’odierno “cretinismo economico”. Al contrario, è la risultante di una costruzione e di una mediazione simbolica operata dalla coscienza umana che si determina storicamente: è l’esito di un fare soggettivo che può sempre da capo essere trasformato, con buona pace della mistica della necessità oggi dominante sotto il cielo. La finanza come espressione del monoteismo del mercato e del fanatismo dell’economia segna il trionfo di quest’oblio dell’uomo e della cultura, ma poi anche del senso della possibile trasformazione socio-politica dell’esistente.

Come giudica lo stato della scuola e dell’università italiane? 
Anche in questo caso, la situazione è tragica, ma non seria. Nella notte del mondo propria del fanatismo dell’economia, tutto è ridotto al rito del consumo e dello scambio, alla fanatica liturgia della circolazione senza misura. Non vi si sottrae nemmeno più la scuola. Valutati secondo un demenziale sistema di “debiti” e “crediti”, gli studenti delle scuole secondarie siano oggi ministerialmente definiti “consumatori di formazione”; i presidi sono sviliti a managers d’azienda, e la lingua greca è sostituita da una orwelliana neo-lingua, l’inglese non di Wilde e di Shakespeare, ma dello spread e della spending review. Ciò segnala l’avvenuta riduzione, in forma compiuta, dell’umano a merce, della nuda vita a funzione variabile della logica mercatistica. Mai prima d’oggi la forma merce si era elevata a mezzo di comunicazione totale di una cultura.

Nel mondo globale la cultura italiana sembra marginalizzata. Colpa della globalizzazione o dell’Italia?
Colpa di entrambe, direi. Della globalizzazione, giacché essa consiste non certo in un pacifico universalismo che diffonde la cultura e le tradizioni diverse, ma in una perversa logica di reductio ad unum, con cui la pluralità linguistica e culturale dei popoli viene annientata in nome dell’unico profilo globalizzato del consumatore. Ciò è la negazione perfetta della cultura, dato che quest’ultima esiste solo là dove vi siano almeno due culture che dialogano e si relazionano. Ma poi è anche colpa dell’Italia, giacché – Gramsci docet – ha da sempre, inscritta nelle sue radici, una vocazione cosmopolitica e non nazionale della cultura: vocazione che oggi culmina nell’osceno oblio della lingua nazionale, sostituita da indecorosi inviti a parlare in inglese; ma poi anche nella vergognosa rimozione degli autori e dei pensatori della tradizione italiana: chi studia ancora, ad esempio, i grandi Croce, Gramsci e Gentile?

La corruzione è un cancro del paese. Da cosa dipende la mancanza di senso dello stato e di senso etico da parte degli italiani?
Da molteplici fattori, temo. È difficile per me giudicare l’Italia e gli Italiani, poiché io stesso sono italiano: e, per inciso, sono fiero di esserlo. Provo un disprezzo totale per chi (a destra come a sinistra) sta distruggendo l’Italia oggi, svendendola alla finanza europea e annientando la cultura italiana, di cui bisognerebbe invece essere fieri. Ad ogni modo, credo che la ragione principale della corruzione e dallo scarso senso statale ed etico del nostro popolo debba essere ravvisata non solo nel fatto che siamo pervenuti solo tardi a un’unità statale, peraltro più fragile rispetto a quella di altre realtà europee. Accanto a questo motivo, vi è quello – sia detto al di là di ogni troppo facile retorica – che abbiamo avuto le peggiori classi politiche di sempre.

A suo giudizio la presenza del Vaticano è negativa per lo sviluppo civile del paese? Giovanni Gentile, filosofo da lei studiato, era contrario ai Patti Lateranensi…
È una domanda difficile. In questo, resto hegeliano: la Chiesa dev’essere non sullo stesso piano dello Stato, ma sottomessa ad esso. E, tuttavia, la presenza del cristianesimo in Italia è, per molti versi, positiva: come insegna Gentile, là dove non arriva la filosofia, è giusto che arrivi la religione. Prova ne è, oltretutto, che, morto il marxismo, il solo oggi a farsi carico della questione sociale, se non altro a livello simbolico, è Papa Francesco: là dove la cosiddetta sinistra si è del tutto deproletarizzata (ha cioè abbandonato ogni interesse per gli ultimi e per i lavoratori), proprio mentre la società si è venuta sempre più proletarizzando, complici anche le oscene logiche del precariato. Se per laicità intendiamo il giusto riconoscimento della libertà di coscienza e delle sue conseguenze in ogni campo, allora io sono laico al cento per cento. Se per laicità intendiamo l’armata Brancaleone dei laicisti à la Odifreddi o à la Flores D’Arcais, che trasformano la laicità in un fronte integralista e fanatico nemico di ogni religione, allora non sono laico e credo anzi che il laicismo sia una patologia pericolosissima.

Lei è molto giovane. Cosa pensa dei giovani italiani?
Non penso affatto di essere giovane. Ho 30 anni, poco mi manca per essere “nel mezzo del cammin di nostra vita”, come cantava il Poeta. L’ultracapitalismo flessibile e precario è per sua stessa natura “giovanilistico”: se oggi si è considerati “diversamente giovani” fino a cinquant’anni, questo accade perché si è idealmente precari fino al termine della propria attività lavorativa sia nella vita sociale, sia in quella affettiva, incapaci cioè di stabilizzare la propria esistenza nelle tradizionali forme familiari (non a caso continuamente irrise come istituzioni borghesi del passato) e lavorative (il posto fisso e stabile, garantito e, dunque, tale da rendere possibile la stabile progettazione di un futuro). Con la grammatica di Marx, i giovani di oggi sono la prima generazione disintegrata nella struttura e integrata nella sovrastruttura: costretti al precariato e alle forme contrattuali più meschine, essi non oppongono resistenza all’esistente, accettandolo in forma irriflessa come una sciagura ineluttabile.

Ha fiducia nel futuro del nostro paese?
Con Gramsci, pessimismo dell’intelligenza, ottimismo della volontà. L’Italia versa attualmente nella situazione più tragica dal tempo di Attila ad oggi: il progetto criminale impropriamente detto “Europa” – sarebbe meglio chiamarlo “eurocrazia” – è il modo in cui la finanza sta distruggendo il nostro Paese amato dal sole e dal debito. Ma non tutto è perduto. Siamo ancora in tempo per invertire la marcia e per riprenderci tutto. Il primo gesto da compiere è abbandonare l’euro e tornare alla sovranità nazionale. Ci vuole un moto d’orgoglio, occorre trovare la fierezza di essere italiani o, come diceva Gentile, “sinceramente zelanti di un’Italia che conti nel mondo, degna del suo passato”.

venerdì 13 dicembre 2013

IL VANGELO SECONDO MANDELA


Madiba




Nel clima putrescente della santificazione di Mandela da parte di tutti quelli che non hanno mosso e mai muoveranno un dito contro le apartheid diverse, la repressione, i genocidi, l’inquinamento del vivente e i soprusi in genere, vi ho tradotto dal francese questo articolo del luglio 2010 di Alain Gresh che denuncia anticipatamente l’ipocrita imbalsamazione mediatica di Madiba e l’orribile amnesia politica dei servitori volontari del capitalismo planetario.

Sergio Ghirardi



“Un eroe del nostro tempo”, titola un numero speciale del Courrier international (giugno-agosto 2010). “Ha cambiato la storia” aggiunge il Nouvel Observateur del 27 maggio 2010. Accompagnate dal ritratto di un Nelson Mandela sorridente queste due copertine testimoniano di un’adorazione consensuale di cui il film Invictus di Clint Eastwood costituisce l’apoteosi.
Con la coppa del mondo di calcio il pianeta intero comunica nel culto del profeta visionario che rifiuta la violenza, che ha guidato il suo popolo verso una terra promessa dove vivono in armonia neri, meticci e bianchi. Il penitenziario di Robben Island dove fu rinchiuso per lunghi anni colui che i suoi compagni chiamavano Madiba - luogo di pellegrinaggio obbligato per gli ospiti stranieri – richiama un “prima” un po’ sfuocato, il tempo odiato dell’apartheid che non poteva che suscitare una condanna universale e innanzitutto quella delle democrazie occidentali.

Cristo è morto in croce circa 2000 anni fa. Numerosi ricercatori si interrogano sulle concomitanze tra il  Gesù dei vangeli e quello storico. Che cosa si sa della vita terrestre del “figlio di Dio”? Di quali documenti disponiamo per rintracciare la sua predicazione? Le testimonianze riprese nel Nuovo Testamento sono affidabili?
Si potrebbe presumere che sia più facile inquadrare il Mandela storico tanto più che disponiamo di un vangelo scritto di suo pugno, ma anche di numerose testimonianze dirette. Eppure la leggenda di Mandela appare altrettanto lontana dalla realtà, se non di più, di quella del Gesù dei Vangeli, talmente sembra intollerabile ammettere che il nuovo messia era un “terrorista”, un “alleato dei comunisti” e dell’Unione Sovietica (quella del gulag), un rivoluzionario determinato.

Il Congresso nazionale africano (ANC), alleato strategico del Partito comunista sudafricano, si è lanciato nella lotta armata nel 1960, dopo il massacro nella township di Sharpeville, il 21 marzo, che fece diverse decine di morti; i neri manifestavano contro il sistema dei pass (passaporti interni). Mister Mandela fino ad allora adepto della lotta legale se ne persuase allora: la minoranza bianca non avrebbe mai rinunciato pacificamente al proprio potere alle proprie prerogative.
Dopo avere in un primo tempo privilegiato il sabotaggio, l’ANC utilizzò anche, certamente in modo limitato, l’arma del “terrorismo”, non esitando a mettere qualche bomba nei caffè.

Arrestato nel 1962 e condannato, Madiba rifiutò, a partire dal 1985 diverse offerte di liberazione in cambio di una rinuncia alla violenza. “È sempre l’oppressore, non l’oppresso, che determina la forma della lotta”, scriveva nelle sue memorie. “Se l’oppressore utilizza la violenza, l’oppresso non ha altra scelta che di rispondere con la violenza”. E fu questa soltanto, appoggiata dalla mobilitazione popolare crescente e sostenuta da sanzioni sempre più sostenute con il passare del tempo, riuscì a dimostrare l’inanità del sistema repressivo e a portare il potere bianco a fare autocritica. Acquisito il principio “un uomo, una voce”, Mandela e l’ANC seppero allora fare prova di souplesse mettendo in atto la “società arcobaleno” e accordando garanzie alla minoranza bianca. Dovettero persino – ma questa è un’altra storia – ridurre il loro progetto di trasformazione sociale.

La strategia dell’ANC beneficiò di un sostegno materiale e morale da parte dell’Unione sovietica e del “campo socialista”. Parecchi dei suoi quadri furono formati e preparati a Mosca o ad Hanoi. La lotta si estese a tutta l’Africa australe, dove l’esercito sudafricano tentava d’instaurare la sua egemonia. L’intervento delle truppe cubane in Angola nel 1975 e le vittorie riportate, in particolare a Cuito Carnevale nel gennaio 1988, contribuirono a far tentennare la macchina da guerra del potere razzista e a confermare il vicolo cieco nel quale si trovava. La battaglia di Cuito Carnevale costituì, secondo Mandela, “un crocevia nella liberazione del nostro continente e del mio popolo”. Non lo avrebbe dimenticato: fece del presidente Fidel Castro uno degli ospiti d’onore delle cerimonie della sua elezione alla presidenza, nel 1994.

In questo choc tra la maggioranza della popolazione e il potere bianco, gli Stati Uniti, la Gran Bretagna, Israele e la Francia (quest’ultima fino al 1981) combatterono dal “lato sbagliato”, quello dei difensori dell’apartheid, in nome della lotta contro il pericolo comunista. M. Chester Crocker, l’uomo chiave della politica dell’impegno costruttivo del presidente Ronald Reagan nell’Africa australe degli anni ottanta, sciveva: “Per la sua natura e la sua storia, l’Africa del Sud fa parte dell’esperienza occidentale ed è parte integrante dell’economia occidentale” (Foreign Affairs, inverno 1980-81). Washington che aveva sostenuto Pretoria in Angola nel 1975, non esitava ad aggirare l’embargo sulle armi collaborando a stretto contatto con i servizi di intelligence sudafricani, rifiutando ogni misura coercitiva contro Pretoria. Nell’attesa di un’evoluzione graduale, la maggioranza nera era chiamata alla moderazione.

Il 22 giugno 1988, diciotto mesi prima della liberazione di Mandela e della legalizzazione dell’ANC, il sottosegretario del dipartimento di Stato americano, M. John C. Whitehead, spiegava ancora davanti a una commissione del senato: “Dobbiamo riconoscere che la transizione verso una democrazia non razziale in Africa del Sud prenderà inevitabilmente più tempo del voluto”. Pretendeva che le sanzioni non avrebbero avuto “alcun effetto demoralizzatore sulle elites bianche” e avrebbero penalizzato in primo luogo la popolazione nera.

Nell’ultimo anno del suo mandato, Reagan tentò un’ultima volta, senza successo, di impedire che il Congresso punisse il regime dell’apartheid. Era il tempo in cui celebrava i “combattenti della libertà” afgani o del Nicaragua e denunciava il terrorismo dell’ANC e dell’Organizzazione di liberazione della Palestina (OLP).

Il Regno Unito non fu da meno; il governo di Margaret Thatcher rifiutò ogni incontro con l’ANC fino alla liberazione di Mandela nel 1990. Al summit del Commonwealth di Vancouver, nell’ottobre 1987, essa s’oppose all’adozione delle sanzioni. Interrogata sulla minaccia dell’ANC di colpire gli interessi britannici in Africa del Sud essa rispose “Ciò mostra quale organizzazione terrorista sia l’ANC”.
Era l’epoca in cui l’associazione degli studenti conservatori, affiliata al partito distribuiva dei poster che proclamavano: “Impiccate Nelson Mandela e tutti i terroristi dell’ANC, sono dei macellai!”. Il nuovo primo ministro David Cameroun ha infine deciso di scusarsi per un tale comportamento, nel febbraio 2010! La stampa ha avuto buon gioco nel ricordargli che anche lui si era recato in Sud Africa nel 1989 su invito di una lobby anti sanzioni.

Israele rimase fino all’ultimo l’alleato indefettibile del regime razzista di Pretoria, fornendogli armi e aiutandolo nel suo programma militare nucleare e missilistico. Nell’aprile 1975, l’attuale capo di Stato Shimon Peres, allora ministro della difesa, segnò un accordo di sicurezza tra i due paesi. Un anno dopo, il primo ministro sudafricano Balthazar J. Vorster, antico simpatizzante nazista, era ricevuto con tutti gli onori in Israele. I responsabili dei due servizi di intelligence si riunivano annualmente e coordinavano la lotta contro il “terrorismo” dell’ANC e dell’OLP.

E la Francia? Quella del gen. De Gaulle e dei suoi successori di destra tesse delle relazioni senza complessi con Pretoria. In un ‘intervista pubblicata dal Nouvel Observateur citato prima, Jacques Chirac si fa gloria del suo sostegno antico a Mandela. Come numerosi dirigenti di destra ha su questo soggetto la memoria corta, mentre il giornalista che lo interroga non fa il minimo caso alla sua amnesia. Primo ministro tra il 1974 e il 1976, Chirac confermò nel giugno 1976 il contratto con Framatome per la costruzione della prima centrale nucleare in Africa del Sud. Nell’occasione l’editoriale di Le monde del 1 giugno 1976, notava: “La Francia è in curiosa compagnia nel piccolo plotone di partner considerati “sicuri” da Pretoria”. “Viva la Francia. L’Africa del Sud diventa una potenza atomica”, titolava su nove colonne, in prima pagina il quotidiano sudafricano a grande tiratura Sunday Time. Pur avendo precedentemente deciso, nel 1975, sulla pressione dei paesi africani, di non vendere più direttamente armi all’Africa del Sud, la francia onorerà per molti anni ancora i contratti in corso, mentre i suoi blindati Panhard e gli elicotteri Alouette e Puma saranno costruiti localmente sotto licenza.

Nonostante il discorso ufficiale di condanna dell’apartheid, Parigi mantenne almeno fino al 1981 numerose forme di cooperazione con il regime razzista. Alexandre de Marenches, l’uomo che dirigeva il servizio di documentazione esterno e di controspionaggio (Sdece) tra il 1970 e il 1981, riassumeva la filosofia della destra francese: “L’apartheid è certamente un sistema da deplorare ma bisogna farlo evolvere dolcemente”.
Se l’ANC avesse ascoltato i suoi consigli di moderazione (o quelli del presidente Reagan) Nelson Mandela sarebbe morto in prigione, l’Africa del sud sarebbe finita nel caos e il mondo non avrebbe potuto fabbricare la leggenda del nuovo messia.

Alain Gresh