domenica 12 aprile 2015

In Italia come in Francia: dal NOTAV al Sì ZAD


Depuis dimanche soir, les défenseurs de Chambaran dans l'Isère occupent une maison forestière (abandonnée de l'ONF) à 5 km du village de Roybon :


All’indirizzo degli Zadisti* – Quando può, lo Stato s’appoggia sempre su qualche complicità locale.
* Le Zad sono in francese le Zone da difendere (Zones A Défendre) dall’appetito e dall’alienazione produttivista come in Val di Susa, all’Expo e altrove nel mondo.

Prima di tutto, per eliminare ogni ambiguità, noi siamo solidali con le lotte di occupazione sostenute contro diversi progetti industriali e capitalisti che per ristrutturare il territorio, contribuiscono a ristrutturare le nostre vite. Siamo non solo solidali con le ZAD ma vi contribuiamo attivamente anche se non ci definiamo come zadisti. Tuttavia non siamo sempre d’accordo con quel che vi è portato. Il che è logico se si tiene conto della diversità della gente che lotta. Passeremo oltre, per ora sulla questione del mettersi d’accordo e della maniera di farlo, sulla quale torneremo forse in seguito. Abbiamo deciso di redigere questo primo contatto non per impartire delle lezioni che saremmo assai poco legittimate a dare, ma per condividere le nostre osservazioni, i dubbi e le inquietudini.
In questi ultimi tempi ci ha fatto evidentemente arrabbiare il fatto di aver saputo che dei “pro sbarramento” a Sivens o dei “pro Center parcs” a Roybon, si sono organizzati contro gli zadisti: sbarrare le strade per impedire l’arrivo di nuove persone in lotta e ridurre l’approvvigionamento logistico, degradare i veicoli degli zadisti o le capanne di accampamento, minacce, insulti, aggressioni ecc. Solidali con la gente sul posto, le reazioni e i discorsi di alcune/i zadisti ci hanno a volte lasciate perplesse. A Sivens certuni s’indignavano del fatto che la polizia non si sia interposta almeno per proteggere i veicoli amici e le persone. A Roybon certuni s’indignavano del fatto che i gendarmi non prendessero il tempo d’indagare sul sito in seguito al lancio di molotov allorché il fatto stesso che essi potessero penetrare sul sito non dovrebbe apparire come un’evidenza. Anche lì si sospettava e ci si indignava che i poliziotti abbiano lasciato fare senza interporsi... Lo Stato si ritrova di colpo con una nuova legittimità, chiamato a interporsi alla maniera dei caschi blu tra pro e anti e a fare l’arbitro del conflitto per mezzo della sua polizia, la stessa che ha già colpito e che non attende che un ordine per radere al suolo la ZAD, gli stessi che hanno assassinato Rémi Fraisse qualche mese fa. È un errore credere che ci sia la FNSEA o i piccoli padroni di Roybon da un lato e lo Stato con i suoi deputati eletti, i suoi servizi e i suoi poliziotti dall’altro; Vinci e Pierre et Vacances da un lato e lo Stato dall’altro. C’è invece un’unità di interessi convergenti. Del resto le comunità rurali, coinvolte nei progetti in questione non sono delle entità omogenee. Sembrerebbe persino che ci siano degli interessi di classe, delle gerarchie, delle imprese morali, materiali, ideologiche religiose... Stato e capitale trovano dei complici per interesse o adesione ideologica. Non bisogna dunque aspettarsi di vedere solo gente in uniforme a fronteggiarci.
Stato e capitale avanzano insieme. Questi progetti non possono vedere il giorno se non con la complicità dello Stato ma neppure senza il suo appoggio amministrativo, politico, finanziario e attraverso delle infrastrutture che lo Stato è il solo abilitato ad autorizzare. E se necessario con i suoi poliziotti. A Chefresne che doveva essere attraversato da una linea THT, i poliziotti hanno sloggiato un proprietario dal suo campo per permettere alla società industriale RTE di continuare a fare danni allorché l’industria in questione non aveva l’autorizzazione della giustizia, la quale a sua volta ha chiuso gli occhi... “Polizia nazionale, milizia del capitale” e “giustizia complice”. All’occorrenza certi slogan colpiscono giusto, ma a forza di ripeterli per riflesso non si prende più atto di quel che significano realmente.
È curioso che mentre tutto dovrebbe spingere a prendere atto e assumere una lotta contro lo Stato e il Capitale, lo Stato ridiventi d’un colpo una sorta d’entità neutra. Prendere atto, vuol dire anche tentare di organizzarsi al meglio per difendere la zona e le attività di lotta in modo autonomo. Evidentemente, la situazione sul terreno è complicata e l’autodifesa vuol dire porre qualche questione ambiziosa. Tuttavia abbiamo forse altra scelta? Immaginiamo che possa esistere presso certune/i delle strategie mediatiche - “guardate come i professionisti e lo Stato sono cattivi e noi buoni” - che mirano a legittimare la lotta, ma ciò vuol dire, ancora una volta, dimenticare il ruolo dei mass media in queste storie, la loro complicità con quelli che comandano, la loro sottomissione ideologica e materiale all’aria del tempo. Ci sembra più pertinente proporre delle analisi e rispondere a partire da una posizione chiara d’opposizione allo Stato, piuttosto che ridargli un po’ di colore, passando per di più per una comunicazione di cui sarebbe altrettanto necessaria la critica, compreso in seno a una stampa “alternativa” che più si sviluppa meno sembra incarnare la sua dimensione sovversiva. Ridare in tal modo vita allo Stato vuol dire soccombere all’ideale astratto del cittadino in quanto amministrato. Il “cittadinismo” radicale stadio supremo dell’alienazione?
Non è solo che Stato e Capitale marciano insieme. Lo Stato si è sempre impegnato a trovare dei relais, dei notabili locali, delle frange reazionarie fino a lasciarle organizzarsi in milizie. Creare una situazione putrefatta è per lui pane benedetto. Così come lasciare ad altri fare il lavoro sporco. Lo Stato favorisce un clima di tensione poco propizio allo sviluppo del movimento, mantiene la pressione e la paura sulla gente che lotta, semina il dubbio in certune/i in riferimento alla legittimità delle lotte. Aggiungiamo che i primi a subire le pressioni da parte di poliziotti o dei loro sostituti cittadini sono quelli che lottano e abitano già il luogo prima dell’inizio del conflitto. Non è una ragione per vietare di sostenere alcune posizioni e compiere certe azioni, né di rendere asettiche le proprie attività di lotta, ma organizzarsi insieme è innanzitutto prendere coscienza delle realtà differenti di ciascuna e ciascuno, tentando di partorire qualcosa di comune senza tacere le divergenze.
Lo Stato e le industrie s’appoggiano quando possono sulle popolazioni locali. Era già il caso al momento dell’installazione della centrale nucleare di Flamanville, nella Manica, tra il 1975 e il 1977. Molti siti in bassa Normandia erano allora in ballottaggio per ricevere gli effetti benefici dell’atomo. Flamanville è stata l’eletta, meno per ragioni tecniche che per la mobilitazione immediata delle opposizioni negli altri siti (nel Calvados delle macchine di cantiere erano state immediatamente bruciate) e soprattutto per il sostegno della popolazione locale. In effetti, certi notabili erano adepti del nucleare dopo l’installazione dell’impianto di trattamento delle scorie de La Hague a qualche decina di chilometri. Anche dei pretonzoli predicavano la buona parola atomica. Ma soprattutto a Flamanville c’era una popolazione operaia che aveva perduto il lavoro. Una miniera di ferro aveva chiuso le porte qualche anno prima. Evidentemente l’installazione è stata vista di buon occhio da una parte di loro. La falaise sulla quale si arrampicavano per scovare il ferro avrebbe lasciato il posto a un cantiere titanico, poi a una centrale che si sarebbe dovuta ben intrattenere. Ricatto al lavoro. Di fatto gli oppositori/oppositrici che conducevano già un’occupazione del sito non si sono urtati soltanto con lo Stato e EDF, ma anche con cittadini locali arrabbiati e pronti a battersi. Comunque sia, gli industriali e lo Stato scelgono i siti in funzione delle mobilitazioni che incontrano e dei relais possibili in seno alle popolazioni locali.
Il sito di Notre Dame des Landes fa forse eccezione a causa della sua lunga storia di opposizioni. In quel sito ci sono state molteplici lotte in passato, dalle relazioni tra contadini e operai del 68 alle lotte antinucleari contro le centrali di Carnet e del Pellerin. Anche per questo la lotta si è fatta cisti, come direbbe Valls. Non si può, tuttavia, riprodurre dovunque questo contesto in maniera identica senza prendere atto delle situazioni locali. Ciò vuol dire, forse, che far vivere queste lotte e soprattutto amplificarle è più difficile di quanto si creda. Ma non importa. Già a Chooz, all’inizio degli anni ottanta, operai siderurgici e antinucleari avevano capito che un’ipotetica vittoria (quale vittoria?) non era necessariamente il solo scopo della lotta. La loro parola d’ordine era “costerà caro farci saltare”. La stessa lucidità ha percorso la ripresa delle lotte anti THT nella Manica, dopo il campo di Valognes del 2011. In quel caso sembra proprio che dei documenti interni degli industriali coinvolti confermino un certo effetto dei sabotaggi e delle diverse attività di lotta. Che ciò si generalizzi e gli effetti si faranno ancora più sentire.


Caen, Marzo 2015.
Laura Blanchard e Emilie Sievert
Blanchard.sievert@riseup.net