domenica 31 maggio 2015

Per tentar di capire quello sta accadendo, può essere utile voltarsi indietro e guardare


Gustavo Esteva: Morte e Trasfigurazione.

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MORTE E TRASFIGURAZIONE

Parole di Gustavo Esteva al Seminario Zapatista Il pensiero critico di fronte all’Idra capitalista. Oventic e San Crtistobal de Las Casas – Chiapas (Mex) 3-9 maggio 2015

Per tentar di capire quello sta accadendo, può essere utile voltarsi indietro e guardare come nacquero le teste dell’idra che vogliamo tagliare. Alcune chiavi del futuro possono avere le loro radici nel passato.
La mia generazione creò la sua prima formazione politica nel 1958, istituendo l’Unione Generale degli Operai e Contadini del Messico –nientedimeno!- o il Movimento Rivoluzionario Magisteriale, di Othón Salazar, che con certezza studiò a Ayotzinapa nel 2° anno di normale[1]. Fu la settimana santa del 1959, con lo sciopero che paralizzò il paese, Vallejo incarcerato, 9mila ferrovieri licenziati, l’ingresso di Fidel a L’Avana …
Alcuni di noi cercarono un impegno, più o meno sfortunato, sulle orme del Che. Però fu decisivo lo spirito degli anni ’60.
Furono gli anni del manifesto di Port Huron, allorché i giovani statunitensi scrissero l’agenda per tutta una generazione, per imparare da soli, più che dagli adulti, e porre i propri privilegi a servizio del cambiamento.
Si misero in marcia … ma senza saper bene verso dove dirigersi. Furono il ribelle senza causa incarnato da James Dean. Allorché chiesero a Marlon Brando contro cosa si stesse ribellando in The Wild One ringhiò seccamente: “Che accade qua dentro?”. Non lo sapevano. Ma i Beatles avevano ascolto ancor prima di nascere.
Furono gli anni del sogno di Martin Luther King: non era il momento di sorbire la droga del gradualismo, ma il tempo di rendere subito reali tutte le promesse.
Leader politici fra loro assai diversi simboleggiavano il cambiamento, Krusciov e Giovanni XXIII, Fidel e Nasser …
Autori inattesi aprivano nuove strade. Apparvero i manoscritti del 1844 …
Nel 1960 solo il 10% dei nordamericani aveva la televisione; dieci anni dopo, solo il 10% ne era privo. McLuhan ci spiegò come si stesse così formando una tribù mondiale che abitava il villaggio globale.
Fu il momento di Atlantic City, Betty Friedan, il decollo del movimento femminista.
Negli Stati Uniti nacquero un milione di ‘comuni’ e prese forza il Movimento di Ritorno alla Terra: radicarsi nel campo.
La lista è interminabile. È esistito realmente uno spirito degli anni sessanta, in tensione fra una corrente individualista e un’altra solidaristica e comunitaria.
Tutto venne messo in discussione: la famiglia, il lavoro, l’educazione, il successo, la saggezza, la pazzia, l’educazione dei bambini, l’amore, la scienza, la tecnologia, il progresso, la ricchezza …
Improvvisamente, tutta la gioventù del mondo era unita e trovava un linguaggio comune per rispondere a tutte le domande. Era necessario cambiare tutto. Vi furono momenti in cui all’improvviso si vide tutto quello che una società aveva di intollerabile, assieme alle possibilità di un’altra realtà sociale.
Vi fu una profonda rivoluzione di tutte le problematiche umane. Per una gran parte della popolazione del mondo il Medio Evo ebbe fine negli anni sessanta. In questo clima, con questa visione, in queste condizioni, si desiderò tutto. “Il cielo è il limite”, “Assalto al paradiso” divennero espressioni correnti. La prima oggi viene tradotta con “tutto è possibile”. Questo era ciò che significava e che pensavamo dicendolo. La seconda esprimeva un’intenzione  precisa: assaltare il cielo, prenderlo nelle mani. Era stato possibile camminare sulla luna. Come non era possibile assaltare il cielo politico e sociale? E non fu casuale che venisse usata la stessa frase forgiata da Marx, in una lettera a un amico, per parlare della Comune di Parigi, dove per la prima volta si vide il popolo cacciare i governanti e dare l’assalto al cielo.
Quegli ‘anni dorati’, dal 1960 al 1973, furono il vertice di un periodo di prosperità senza precedenti. Traballante, per i suoi stessi eccessi, il capitale aveva fatto concessioni. Era riuscito ad uscire dalla ‘grande depressione’ con la Grande Guerra, ma il suo recupero fu possibile solo grazie al New Deal (Nuovo Corso). I sindacati divennero forza reale della politica pubblica, fecero aumentare anno dopo anno i salari reali e nacque lo ‘stato del benessere’ (Welfar State). Ricette keynesiane crearono la domanda che il capitale era incapace di creare. La guerra, la morte di cento milioni di persone, assicurò il successo del pacchetto … e così si ebbero i ‘30 anni gloriosi’, con miglioramenti nelle condizioni della gente, un’espansione capitalista spettacolare e mobilitazioni dei lavoratori che andavano dalla cucina alle scuole e alle fabbriche, con ‘comuni’, picchettaggi e guerre di guerriglia. Sembrava proprio che la rivoluzione stesse arrivando.
Una eccitazione carica di speranza percorreva il mondo. Sembrava di essere alla vigilia del parto della nuova società. Sembrava che il delirio tecnologico della civiltà occidentale avesse incontrato la sua nemesi. La triste alternativa fra un mondo occidentale democratico che aveva venduto l’anima alla burocrazia sembrava giungere finalmente a una reliquia del passato. E la nuova alternativa era una società democratica diretta … piena di anima. Dietro lo splendore di questa grande visione, confluiva una sola ondata poderosissima e inarrestabile, l’emancipazione.
Nel maggio di Parigi, nel ‘68, stava confluendo tutto questo. Si mescolavano socialisti utopici con anarchici, freudo-marxisti e surrealisti. I nomi dei gruppi danno l’idea del momento: il “Comitato d’Azione Freud-Che Guevara”, il “Comitato Rivoluzionario di Agitazione Transessuale” … I loro lemmi erano chiari: “Tutto il potere all’immaginazione”; “È il sogno che è reale”. Per i situazionisti le rivoluzioni che si avvicinavano sarebbero state dei festival, “perché festoso è il tono stesso della vita che annunciano”. Sartre sottolineava: i giovani “non desiderano  un futuro come il nostro, noi che abbiamo dimostrato di essere codardi, avviliti dall’obbedienza, vittime di un sistema chiuso”. Morin vedeva “l’estasi della storia”, Touraine “il primo movimento sociale antitecnocratico”, Malraux “la risposta a una crisi della civiltà” …
I giovani contaminarono gli adulti. A Parigi ci fu lo sciopero generale più partecipato e prolungato della storia.
Una nuova era sembrava essere sulla soglia. L’agenda dei giovani di Port Huron sarebbe divenuta realtà:
Cercare alternative autentiche a ciò che abbiamo, fare tramite queste  esperienze sociali  per auto-governarsi. Dare un senso alla vita … Senza egoismi individualisti … rimpiazzeremo il potere basato sul possesso, il privilegio o le convenzioni col potere e la relazione basati sull’amore, la riflessione, la ragione e la creatività … il lavoro deve avere come incentivo qualcosa di più importante del denaro o della sopravvivenza. Deve essere educativo, non abbrutente; creativo, non meccanico; auto-diretto, non manipolato; che stimola l’indipendenza, il rispetto degli altri, un senso di dignità e la disponibilità a accettare le responsabilità sociali. 
Bello, nevvero? In questo clima vivevamo, a questo credevamo … però venimmo sconfitti.
De Gaulle minacciò di portare i carri armati a Parigi e il movimento ebbe termine. In Messico accadde il 2 di ottobre. La primavera di Praga venne cancellata dai carri armati. Le guardie rosse in Cina fecero quello che fecero. Martin Luther King e Robert Kennedy furono assassinati. A Woodstock, “la nuova società abortì, drogata e felice” …
Vi é una lunga serie di spiegazioni per la nostra sconfitta. Il food power che modificò contro di noi il modello mondiale dell’alimentazione; l’embargo petrolifero e gli interventi della Banca Centrale statunitense, che contaminarono tutto; l’individualismo di molti giovani rivoluzionari che impedì al movimento di andare oltre … Tutto questo ha pesato. Era parte della guerra che la famosa Commissione Trilaterale andava tessendo segretamente, la fusione del gran capitale con il grande governo. Ma il fattore decisivo può essere stato il fatto che si pensò possibile che il cambiamento venisse realizzato attraverso le strutture di governo. Si voleva cambiarle, trasformarle in altra cosa, ma allo stesso tempo si voleva utilizzarle per la grande trasformazione che si cercava di realizzare. Su questo terreno, che non è quello della gente, subimmo la grande sconfitta. Alcuni di noi impararono la lezione. Non c’era nulla da sperare dai governi, dall’alto. Il cambiamento non può venire da lì. Continuiamo a sorprenderci che alcuni continuino a guardare in questa direzione.
L’‘apertura democratica’ di Luis Echeverria, la sua lettura del ‘68, aveva tre componenti: inventare l’opposizione politica, dare denaro alle università e offrire opportunità agli universitari. Vari leader del ‘68 passarono dalle carceri a posti di governo. Altri incentrarono la loro vita nel nuovo partito che avrebbe catturato l’anima della sinistra e altri ancora si misero a insegnare e studiare.
In questo decennio ebbe luogo un grande dibattito nazionale e internazionale, che si svolse soprattutto fra marxisti, per decidere cosa fare dei contadini. Quelli di noi che credevamo nei contadini vennero chiamati campesinisti, per squalificarli. Quelli, cosa ancor peggiore, che credevano nei popoli indigeni, vennero qualificati etnicisti.
Ci afferrammo a una filiazione di Zapata per creare con scompiglio il Coordinamento Nazionale Piano di Ayala[2]. Per questa ragione, e altre ancora, Reyes Heroles, ministro degli interni, parlò del risveglio del Messico selvaggio.  López Portillo si autodefinì l’ultimo presidente della rivoluzione quando nazionalizzò le banche … e rovinò il paese.
Eravamo confusi, è fuor di dubbio. Tardammo a renderci conto della sconfitta e ancor di più nel capirne le ragioni. Tuttavia qualcosa stavamo imparando.
La mia organizzazione nel 1980 si chiamò Autonomia, Decentramento e Gestione perché, ci dissero, era ciò che voleva la gente con la quale lavoravamo. Celebrammo, nel centro di Città del Messico, la ‘festa dell’autonomia’ che era sbocciata dopo il terremoto[3]. Alcuni di noi andarono sulle montagne del Guerrero. Da lì, come ho scoperto in un ritaglio di giornale giallognolo che mi è capitato fra le mani venendo qua, dissi a un giornalista fuorviato, il 3 marzo del 1985, parole che mi paiono aver ancora oggi un  senso.
Per dialogare, diceva Machado, prima cosa é ascoltare; poi, di nuovo ascoltare. Ma dobbiamo, quindi, saltare giù dal treno delle concezioni mitiche. Come possiamo dialogare se abbiamo occhiali opachi e i nostri auricolari lasciano ascoltare solo la nostra musica? Come dialogare se non è possibile guardare l’altro negli occhi, ascoltare le sue parole e osservare assieme a lui la nostra realtà comune, perché lo impediscono le bende ideologiche che ci paralizzano come se fossero camice di forza?
Era questa, la difficoltà. Continuavamo ad essere paralizzati da una specie di accecamento. Così ci aveva ridotto la sconfitta che oggi conosciamo col nome di ‘globalizzazione neoliberista’ …
Ormai sappiamo cosa ha prodotto: ha smantellato tutti i progressi sociali e riportato alla situazione precedente al nuovo corso … e alla crisi del 1929. Riallocò i mezzi di produzione, deterritorializzò il capitale, accrebbe la concorrenza fra lavoratori, smantellò il potere sindacale e lo ‘stato del benessere’ e organizzò la spoliazione delle terre.
Il massacro di Ludlow, nell’aprile del 1914, dove vennero assassinati i minatori del Colorado in sciopero, descrive la situazione dei lavoratori di cent’anni or sono: solo il 5% di essi era sindacalizzato. Fu ciò che il nuovo accordo ha voluto correggere. Ormai siamo tornati lì. Solo il 6,6% dei lavoratori del settore privato degli Stati Uniti è attualmente iscritto ad un sindacato. Si era arrivati a una cifra cinque volte maggiore. Il declino del settore è oggi una realtà irreversibile.
Sono stati cancellati i progressi di un secolo in materia di disuguaglianza economica e di accumulazione della ricchezza, quelli che avevano creato l’illusione che la società capitalista avrebbe potuto essere ugualitaria e che tutta la gente avrebbe potuto appartenere alla classe media.
Aldous Huxley nel 1958 pronosticò quanto sarebbe accaduto:
Grazie a metodi sempre più efficaci di manipolazione mentale, la natura della democrazia verrà cambiata. Permarranno le vecchie forme pittoresche; le elezioni, i parlamenti le supreme corti e tutto il resto. Però la realtà sottostante sarà una nuova categoria di totalitarismo non violento.
Si sbagliò. Questo totalitarismo ricorre oggi a forme terribili di violenza in una guerra aperta contro la gente.
Non so quanti della mia generazione si sentirono orfani dopo il collasso dell’Unione Sovietica o l’apertura della Cina. Non fu il caso mio, perché da tempo questi paesi  avevano cessato di essere i miei referenti, però condividevo la perplessità di quasi tutti. Andai a vivere a otto chilometri da dove era nata la mia nonna zapoteca, in un villaggio in Oaxaca. Lì ruminavo il mio sconcerto … e mi aggrappavo ai miei, ai popoli che mi fecero nascere.
Il primo gennaio del 1994 mi trovavo lì. Si è affermato con ragione che la sollevazione fu il risveglio per tutti i movimenti antisistemici. Ma vorrei affrontare il tema in termini più personali. Fu una scossa turbinosa e ingarbugliata. Vi erano cose evidenti da fare. Uscire nelle strade, ad es., per dire che non erano soli. A marzo, afferrai la mano di non so chi in un cerchio di pace nella cattedrale di San Cristóbal. Era cosa giusta. Erano gesti anonimi. Ma in aprile commisi uno sproposito: scrissi un libro sullo zapatismo … per spiegarlo. Feci di peggio: lo pubblicai.
Non mi sono emendato. Dieci anni dopo tornai a fare la stessa cosa. Ne sono pentito[4].
Seguitai a bussare a varie porte per chiarirmi le idee. Paul Baran e Paul Sweezy negli anni sessanta erano stati fari intellettuali importanti per la mia generazione. Tornai a dar loro un’occhiata, a quello che scrissero allora e a quello di ora.
La dinamica neoliberista, dicevano, creò una forma di stasi prolungata, stabile e permanente, che mise nell’angolo il capitale. Venne rotta la tregua sociale: fin dal 2.000 si arrestò la creazione di nuovi posti di lavoro. Secondo Sweezy, la finanziarizzazione del processo di accumulazione del capitale costituiva lo sforzo disperato di sfuggire alla stagnazione economica. La finanziarizzazione agiva come una droga o come uno stimolante come per alcuni atleti. Consente di vincere una battaglia … ma porta a perdere la guerra.
Noialtri -scrissero Magdoff e Sweezy nel 1987- diventammo adulti negli anni 30 e così ricevemmo la nostra iniziazione alle realtà dell’economia politica capitalista. Per noi, la stagnazione economica, nella sua forma più atroce e penetrante, comprese le sue ramificazioni di forte portata su tutti gli aspetti della vita sociale, fu un’esperienza personale marcante. Sappiamo di cosa si tratta e quello che comporta; non abbiamo necessità di definizioni né spiegazioni.
Deploravano il modo in cui le nuove generazioni ignoravano l’idea stessa di stagnazione e non trovavano il modo per collegare la propria esperienza a quanto stava accadendo. Si, avevano ragione. La tendenza alla stagnazione sta alla radice di ogni società capitalista matura. Una cosa è certa: la finanziarizzazione è un rimedio salvifico tanto disperato quanto pericoloso.
Nel 1997, Sweezy sottolineò che la questione cruciale della sovra-accumulazione attuale deve essere letta nella inevitabile interrelazione fra la monopolizzazione globale, la stagnazione e la finanziarizzazione del processo di accumulazione. Non è una crisi, che ha sempre una soluzione ed è transitoria, ma uno stato di cose permanente, con conseguenze catastrofiche per la vita sociale, che non ha vie di uscita nel suo proprio contesto.
Gli anni della prosperità, ora lo si vede con chiarezza, sono stati un’anomalia, un periodo di follia nel quale il padre ha sperperato ciecamente il patrimonio familiare. Tutti ora ne soffrono le conseguenze. Dato che ora il capitale non può più investire nella produzione, l’idra attuale si consegna senza riserve a una febbre distruttiva. Come altri hanno detto in questo incontro, i danni per la Madre Terra mettono a rischio la sopravvivenza della specie umana.
La distruzione del tessuto sociale e politico è ancora più grave. Ogni settimana scompare una lingua. Scompaiono culture intere. Forme antichissime di esistenza sociale, che erano riuscite a resistere a tutti gli attacchi e nutrivano la convivenza umana, sono gravemente minacciate. La cosa più grave è la frammentazione individualista che esaspera la violenza e limita le possibilità di organizzare una risposta collettiva al disastro.
L’impeto distruttore è a volte cieco, folle, del tutto irrazionale, puro furore avido. Però altre volte è frutto di un calcolo patologico, che pensa ai precedenti, quando grandi distruzioni favorirono la rinascita capitalista. Si è tornati a sognare questo incubo in termini da togliere il respiro.
La frammentazione colpisce  sempre più persone appartenenti allo stesso gruppo, ragazzi contro ragazzi, lavoratori contro lavoratori, comunità contro comunità. Ci stiamo avvicinando alla sindrome jugoslava, al di là della guerra civile in cui ci troviamo, quando amici e vicini che erano vissuti assieme per secoli cominciarono ad ammazzarsi gli uni gli altri. Appena poche settimane or sono a Oaxaca si fu sul punto di una rissa spaventosa. Lavoratori semischiavi delle mafie del trasporto urbano presero dei tubi metallici per scontrarsi con lavoratori semischiavi delle mafie del mercato centrale. Accade fra loro, nelle famiglie, fra vicini, fra comunità …
L’espropriazione generale si aggrava. Parole eleganti quali ‘estrattivismo’ minerario o urbano, nascondono la rapina brutale.
La facciata democratica della quale il capitale aveva necessità per la libera azione del mercato si è trasformata in ostacolo, come pure le frontiere dello Stato nazionale, che erano state strumento privilegiato per l’espansione del capitale. La nozione di sovranità nazionale è sempre più un ricordo di tempi passati.
Nella storia vi sono stati momenti simili a questo. Però forse non ve ne è stato alcuno in cui il disastro sia tanto grande e spaventoso. Fa parte del disastro il fatto anche il fatto che si distenda uno spesso velo sopra quello che accade; si pensa perfino che le difficoltà presenti presto termineranno e torneranno i ‘bei tempi’.
I messaggi che a volte inviano coloro che protestano nelle strade, in Europa, è ambiguo: vi è qualcosa di peggiore dell’essere sfruttati, ci dicono: è il non essere sfruttati. Non c’è per caso qui attorno qualche capitalista disposto a rimetterci le catene? Si lotta per il posto di lavoro  così come si lotta per l’aumento del salario, e non vi è dubbio che siano lotte legittime e che sia necessario continuare a farle. Ma esse restano all’interno del quadro dominante, con la convinzione che è possibile vincere alcune di queste battaglie –cosa certa- ma si sta perdendo la guerra[5].
Il soggetto storico della trasformazione si è disarticolato. Gli eroi sono stanchi. Non tornerà a esistere un’organizzazione potente del proletariato industriale che per tanti anni fu per la mia generazione la promessa e la speranza del cambiamento. Quello che ne rimane  è come un vascello alla deriva.
Il regime politico creato dalla Rivoluzione Messicana[6] e che era una variante di quello configuratosi nel secolo XIX, é stato ormai smantellato. Non è solo il fatto che la Costituzione sia ormai un documento senza coerenza né sostanza, uno strumento per la manipolazione, il controllo e la rapina. Il fatto è che lo stesso ‘stato di diritto’, che mai è stato forte in questo paese,  ha cessato di esistere. Nel 2009 la Corte Suprema ha battuto gli ultimi chiodi sulla sua bara, certificando per scritto che il governo può sopprimere  le garanzie costituzionali e reprimere i movimenti sociali. Così, criminalizzando la protesta sociale e l’iniziativa cittadina, le istituzioni statali sbarrano adeguatamente l’unico cammino che ci resta per riorganizzare la società dalla base, e stabilire da lì le norme che devono regolare la nostra convivenza.
Nella confusione, per la mia fretta di distinguere il capitalismo di prima da quello di ora, mi sono azzardato a suggerire che forse non si chiamava capitalismo perché ormai non accumulava relazioni capitaliste di produzione. È una provocazione, interessante, ma la sua analisi tecnica è lunga, complessa, noiosa e poco fruttuosa. Non è utile per l’azione.
La vecchia domanda del che fare circola nuovamente fra noi e genera ansietà perché le vecchie risposte non sono più attuali. Con il secolo è morta la formula leninista che lo presidiò. Ma l’immaginazione resta paralizzata una volta che si abbandonano leader, avanguardie e partiti, come qualsiasi idea di occupare gli apparati dello Stato.
Consentitemi di affrontare di nuovo la questione in termini personali. Non ho programmato di morire nei prossimi giorni, ma sono cosciente di essere nella fase ultima della mia vita. La gente della mia età, dalle mie parti, viene giudicata persona di giudizio. Ma io credo di averlo perso, il mio, e a chi mi domanda che fare, rispondo sempre: non lo so.
Non è facile ammettere questo alla mia età. Si pensa che uno lo sappia. Ma non è così.
Come avrete notato sono una persona lenta a capire. Ma sono cocciuto. Non desisto. Voglio continuare a capire. Per questo vengo spesso in questo luogo per vedere cosa posso pescare. Si, lo so. Non devo idealizzarvi né copiarvi. Ma allora cosa … ci sono cose che molti di noi hanno portato via con sé: un mondo in cui stanno molti mondi, comandare obbedendo, camminare domandando, i sette principi … sono buone guide, indirizzano su buoni sentieri, alcuni impervi e difficili …
In verità non credo di poter offrire ciò che ci hanno chiesto. Vedo, soffro, mi addoloro, sperimento ogni giorno la tormenta che essi vedono. Ma non ho idee da proporre, orientamenti da indicare. Il massimo che posso fare è condividere quello che vedo nel mio mondo o nelle mie avventure quaggiù, quello che ascolto, e continuo a cercare di imparare.
Nel mio mondo, fra gente indigena, contadina e  emarginati urbani, vedo molta gente che si muove nel senso di organizzarsi. Alcuni hanno già recuperato le loro assemblee comunali, municipali, di quartiere. Devono impegnarsi a proteggerle continuamente dai partiti che li frazionano, dalle chiese che li dividono, dai funzionari che vogliono comprarli, dalle corporation che cercano di fregarli. Ma così fanno. Ci sono anche alcuni che vogliono spingere più avanti questa organizzazione che hanno realizzato e concordano coalizioni.
Altri non arrivano a tanto, ma hanno già un collettivo, un mezzo di comunicazione libero, una cooperativa.
Vedo che molti di questi cercano sempre più maggior autonomia. Decidono di produrre il proprio cibo, curarsi e imparare da soli, non dipendere da nulla e da nessuno.
Vedo anche fare cose che mi affascinano. Il nuovo per loro non è tanto organizzarsi ma il perché farlo: non lottano per conquistare gli apparati statali o per sedurli, per ottenerne qualcosa, perché soddisfino qualche loro richiesta. Ciò che vogliono è renderli irrilevanti, non necessari. Vi sono molti che non possono, sia perché dipendono dalla lana che perviene da essi o perché devono scontrarsi col governo per resistere a qualche puttanata.
Vedo sempre più fra loro una pratica che anni or sono chiamavamo circolazioni di lotte popolari, senza saper bene di cosa parlavamo. Oggi parlano di mutua educazione. Così come si sono lasciati educare da piante, animali e boschi, ora dedicano il tempo a educarsi gli uni gli altri, a imparare dalla lotta di ciascuno.
A volte questo assume forme affascinanti. A San Diego un mese fa mi hanno avvicinato i compagni della Sesta di Tijuana e mi hanno consegnano una maglietta con la scritta Ayotzinapa, Ferguson, Palestina. Ci hanno tolto talmente tanto che ci hanno tolto perfino la paura. Non è stato un fatto isolato. Compagni palestinesi hanno scritto a coloro i erano pieni di rabbia per il razzismo selvaggio della polizia di Ferguson. Collegare tre lotte che sembrano non avere nulla in comune spinge a pensare perché alcuni le hanno collegate. E quindi imparare a collegare quello che c’è da collegare. E mi ha sbalordito, alcuni giorni dopo, vedere che la maglietta era già emigrata al centro degli Stati Uniti e poi all’Est, e che i compagni del Movimento per la Giustizia di Quartiere, a Nuova York, che continuano imperterriti la loro solidarietà con Bachajón, avevano già la maglietta. Suppongo che da tutto ciò vi sia qualcosa da apprendere.
Il 22 marzo di quest’anno, da Amatlán, Morelos, il Congresso Nazionale Indigeno ha indicato con chiarezza che per resistere all’orrore e arrestare la guerra scatenata contro di noi “non bastano gli slogan” e “neppure lo si potrà fare affannandosi a seguire i calendari, le geografie e i modi di quelli che stanno in alto, ma abbiamo bisogno di costruire un nuovo paese, un nuovo mondo.”
Nelle loro dichiarazione, hanno rinnovato la decisione di “continuare a tessere un nuovo mondo possibile e necessario, infatti solo così potrà risplendere la pace  sui nostri popoli e aver fine la repressione.”
È questo il clamore generale. Lo ha detto brillantemente Arundati Roy: “L’altro mondo non solo è possibile ma è già in marcia; se, in un giorno tranquillo, ascoltate con attenzione, potete sentire il suo respiro”.
Com’è questo respiro?
Gli studiosi della rivoluzione, e fra loro alcuni che avevano partecipato a qualcuna di esse, già da tempo hanno enumerato le condizioni che indicano una situazione rivoluzionaria. Secondo questi, la possibilità esiste quando si combinano varie condizioni: crisi nel modo di funzionare della società, allorché le istituzioni cessano di svolgere correttamente le loro funzioni; una rapida cristallizzazione delle classi sociali e dei gruppi in conflitto; quando le loro idee e pratiche si coagulano e quando gruppi di solito dispersi, come gli studenti e i gruppi etnici, mostrano capacità di dare risposte collettive; nascita di organizzazioni e di ideologie che offrono una prospettiva alternativa a quella dominante; crisi dell’elite di governo, delle classi dominanti e degli apparati statali, e crisi morale, che mette in dubbio le strutture accettate del potere, dell’egemonia ideologica e del senso comune; tutto ciò in un contesto internazionale che facilita o almeno consente che accadano processi rivoluzionari.
Il fatto che tutte queste condizioni siano evidenti a tutti con crescente chiarezza, sollecita ovunque la tentazione rivoluzionaria, ma spesso conduce a reazioni tradizionali. Non si è generalizzata la convinzione che le vecchie forme di rivoluzione sono esauste, che ormai mancano di realismo e di senso. Questo stesso stende un velo sopra le iniziative che  sono andate gestendo e costruendo questo nuovo ordine sociale il cui respiro è udibile in un giorno tranquillo.
Per molte ragioni e motivi diversi, milioni di persone in Messico e nel mondo intero sono in movimento. Questo è il momento di valorizzare le loro iniziative e di ascoltare la gente comune.
Oggi non si tratta di fare la rivoluzione, o di programmarla e prepararla. Vi siamo dentro. Si tratta di decidere quale posizione assumiamo di fronte ad essa. Come diceva Benjamin, “non si può essere neutrali su un treno in corsa”. Il mondo si sta muovendo verso certe direzioni, alcune delle quali terrificanti. Essere neutrali davanti a questa situazione significa collaborare con tutto questo dramma.
Non abbiamo parole per descrivere quello che sta accadendo. Non siamo sull’orlo dell’abisso. Già vi siamo caduti dentro e sembra essere senza fondo. Dobbiamo agire. E la prima cosa da fare può essere quella di riscattare le infinite piccole azioni della gente comune, che è l’unica cosa che può produrre i grandi cambiamenti. Così è sempre stato. Perfino le più piccole azioni di protesta alle quali partecipiamo potrebbero trasformarsi nelle radici invisibili del cambiamento sociale.
Il mondo si è capovolto, diceva Howard Zinn, le cose vanno completamente male. Non è una questione di disobbedienza civile. Il nostro problema è l’obbedienza civile. Il nostro problema è che in tutto il mondo la gente è obbediente davanti alla povertà, alla fame, alla stoltezza, la guerra e la crudeltà. Il nostro problema è che la gente è obbediente quando le carceri sono piene di ladruncoli mentre i ladroni sono a carico del paese. Questo è il nostro problema.
Avere speranza in tempi difficili è fondato sul fatto che la storia umana non è solo crudeltà. È anche compassione, sacrificio, valore, bontà. Ricordarlo ci dà l’energia per agire, e quanto meno la possibilità di orientare questa trottola di mondo a girare in un’altra direzione[7].
E se agiamo, per piccola che sia l’azione, possiamo sperare in un grande futuro utopico. Il futuro è una successione infinita di attimi presenti, e vivere ora così come pensiamo che dovrebbero vivere gli umani, sfidando tutto il male che ci circonda, è in sé già un trionfo meraviglioso.
Il cambiamento rivoluzionario non arriva come un cataclisma improvviso ma come successione interminabile di sorprese.
Oggi regnano la violenza, il caos, il disordine, l’incertezza. Abbiamo bisogno di portare ordine e senso in questo mondo. E dobbiamo farlo adesso. Il cambiamento rivoluzionario è qualcosa di immediato, qualcosa che dobbiamo fare oggi stesso, dove ci troviamo, dove viviamo, dove lavoriamo. Implica iniziare ora stesso a disfarsi delle relazioni autoritarie e crudeli fra uomini e donne, padri e figli, fra un genere di lavoratori e un altro genere di lavoratori.
Questa azione rivoluzionaria non può essere repressa come un’insurrezione armata. Si sviluppa nella vita quotidiana, nei piccoli luoghi dove le mani potenti ma  goffe del potere statale non possono arrivare facilmente. Non è centralizzata né isolata, e pertanto non può essere distrutta dai ricchi, dalla polizia, dai militari. Si svolge in 100 mila luoghi nello stesso momento, nelle famiglie, nelle strade, nei quartieri, nei luoghi di lavoro. Repressa in un luogo, riappare fino ad essere ovunque.
Questa rivoluzione è un’arte. Richiede il valore, non la resistenza, piuttosto l’immaginazione.
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Le cose cadono a pezzi, il centro non può tenere. Pura anarchia dilaga nel mondo La marea insanguinata s’innalza e dovunque La cerimonia dell’innocenza è annegata. I migliori mancano di ogni convinzione mentre i peggiori Sono pieni di intensità appassionata.

William Butler Yeats scrisse queste righe quasi cento anni or sono al termine della prima guerra mondiale. Fanno parte di The Second Coming, uno dei poemi più conosciuti e citati della lingua inglese. Ma nessuno vi pose attenzione. Dopo l’irresponsabilità del decennio del 1920 soffrimmo uno dei periodi più oscuri della storia umana. Oggi ci troviamo in un altro, che può essere anche peggiore. Non possiamo, non dobbiamo offrirci il lusso di alzare le spalle; chiudere gli occhi sarebbe suicida e criminale.
Si sono accese molte candele in questa oscurità ed esse brillano con intensità crescente[8]. Non c’è spazio per l’ottimismo, ma c’è spazio per la speranza, che non è la convinzione che qualcosa avverrà in un certo modo, ma la convinzione che qualcosa ha senso, indipendentemente da ciò che avverrà.
Oggi ha senso lottare.
Ha senso trasformare ogni giorno,  dovunque ci troviamo, tutte le relazioni crudeli e insensate che persistono fra di noi, e forgiare le nuove.
Ha senso far valere la nostra dignità contro tutti i sistemi.
Ha senso rendere irrilevanti quanti dominano e opprimono, forgiando l’emancipazione in ogni atto, ogni gesto, ogni parola, tutti i giorni.
Forse, lo dico timidamente e con titubanza, e mi trema la voce, ma solo questa, forse, dico, forse è arrivata la nostra ora. E si, sei un bastardo. Non so se saremo più bastardi o più porci. Però so che non staremo dormendo e non saremo codardi.

Traduzione a cura di Camminar domandando (www.camminardomandando.wordpress.com)
Le note sono tutte dei traduttori.
[1] Con riferimento è ai 43 studenti normalisti di questa scuola desaparecidos da fine settembre 2014, quasi certamente massacrati da esercito e polizia.
[2] Il Plan de Ayala (1911) fu un documento stilato dal leader rivoluzionario Emiliano Zapata durante la rivoluzione messicana.
[3] Un terribile terremoto sconvolse la città nel 1985. Di fronte all’inerzia delle autorità la gente reagì dando prova di notevoli capacità di autoorganizzazione.
[4] Elogio dello zapatismo Quaderni della Fondazione Neno Zanchetta, n.2, 1995 Lucca Libri ediz.
[5] Su questo tema, qui appena accennato, vedi: Dalla precarietà alla convivialità (o Buen Vivir) a partire dalla osservazione dei movimenti sociali latinoamericani di Gustavo Esteva e Irene Ragazzini – Relazione scritta per il Convegno  “Avere il coraggio dell’incertezza. Culture del precariato” , Parigi, 6-7 dicembre 2012, – comune-info.net/…/dalla-precarieta-alla-convivialita/
[6] Quella del 1910.
[7] Sul significato e valore della speranza vedi, di Esteva, La crisis como esperanza Bajo el Volcán, vol. 8, núm. 14, 2009, pp. 17-53 www.redalyc.org/pdf/286/28620136001.pdf.
[8] Ivan Illich, che certamente Esteva, suo ammiratore, ha avuto presente nel pronunciare queste parole, aveva scritto: “No. (Il consiglio) è quello di portare una candela nelle tenebre. Di essere una fiammella nelle tenebre”  (Cayley D. Conversazioni con Ivan Illich. Un profeta contro la modernità, Elèuthera, 1994, pag 101.


 29 maggio 2015 di Comitato Chiapas "Maribel" Bergamo

 tratto dalla fonte :

Comitato Chiapas "Maribel"http://chiapasbg.com/2015/05/29/esteva-morte-e-trasfigurazione/



domenica 17 maggio 2015

la rivoluzione è un'arte







La rivoluzione, come la politica (che non sono la stessa cosa, anche se si toccano), non è una scienza ma un'arte. Se la comprendiamo bene, la politica non è che la continuazione della guerra attraverso altri mezzi (al contrario del famoso detto), perché entrambe trattano dello stesso argomento: il potere. Politici e militari, gli uni e gli altri gente di potere, possono permettersi di non conoscere a fondo gli esseri umani. Fino a un certo punto possono supplire a questa ignoranza con il comando e la forza, anche se il grande Machiavelli glielo sconsiglia. Un rivoluzionario, invece, non avendo in sua mano il potere, ma lottando contro gli ingiusti poteri stabiliti, deve avere tra le conoscenze proprie della sua arte quella degli esseri umani. Come tante altre vere conoscenze, questa ha molto a che vedere con i sensi e l’esperienza (e con certe letture che la spiegano) e non si finisce mai di impararla.
(dallo scritto di Adolfo Gilly in Discusion sobre la historia)

lunedì 11 maggio 2015

Sfidare la modernità Capitalista II: La quarta guerra mondiale e come vincerla; Un tributo ai curdi e agli zapatisti






Intervento di John Holloway alla conferenza “Sfidare la Modernità Capitalista II” Amburgo 3-5 Aprile 2015
Un meraviglioso onore,una meravigliosa emozione.Sto imparando cosi tanto dal movimento di liberazione curdo.Ma è più che il movimento di liberazione curdo,è vero?Vi è uno straripamento,uno straripamento dal Kurdistan,e noi siamo quello che trabocca.Noi che siamo qui non solo per venirne a conoscenza,ma perché sono parte di noi come noi siamo parte di loro.Noi che siamo costantemente sotto attacco e siamo alla disperata ricerca di una via d’uscita.Siamo qui non solo per sostenerli,ma perché in loro vediamo una speranza per noi stessi.Noi che stiamo cercando di tessere un mondo diverso contro e al di là di questo mondo di distruzione e di morte e non sappiamo come farlo,e questo è il motivo per cui camminiamo chiedendo chiedendo camminiamo,camminando apprendiamo,abbracciando camminiamo.
Veniamo attaccati sempre più aggressivamente,in modo così aggressivo che a volte sembra una notte nera senza alba.La quarta guerra mondiale è come gli zapatisti la chiamano, ma il nome non ha importanza.La guerra del capitale contro l’umanità è il termine che abbiamo sentito negli ultimi due giorni.Ayotzinapa è il nome che oggi risuona nelle orecchie di quelli di noi che vivono in Messico e ben oltre,ma ci sono molte,molte immagini dell’orrore dell’aggressione capitalista:Guantánamo,l’annegamento di 300 migranti nel Mediterraneo solo poche settimane fa,ISIS e l’orrore apparentemente senza fine della guerra in Medio Oriente,il danno inflitto dalle politiche di austerità in tutta l’Europa ed in particolare alla Grecia,i continui attacchi al pensiero critico alle università di tutto il mondo.E così via,e così via.Tutti i simboli della violenta oscenità di un mondo in cui il denaro è signore e padrone.
Quarta guerra mondiale,dunque,non come un attacco consapevolmente controllato,ma come un assalto logicamente coerente e sempre rinnovato del denaro contro l’umanità.
II
La quarta guerra mondiale:crisi capitalista,disperato tentativo del capitale di sopravvivere,il capitale che lotta con ogni mezzo possibile per la sopravvivenza di un sistema che non ha senso, che non ha alcun significato oltre la propria riproduzione.L’esistenza stessa del capitale è un’aggressione.Si tratta di una aggressione che ci dice ogni giorno”dovete modellare la vostra attività in un certo modo,l’unica attività che è valida in questa società è un’attività che contribuisce agli utili del capitale,in altre parole il lavoro”.Questa è la teoria del valore lavoro,la teoria che è stata tanto diffamata negli ultimi due giorni.
La teoria del valore lavoro di Marx è di fondamentale importanza per tre ragioni.In primo luogo, ci dice che il capitale dipende dalla riconversione della nostra attività quotidiana in lavoro(ciò che Marx chiama lavoro astratto o alienato),in tale attività particolare che crea valore e in ultima analisi,il profitto per il capitale.Questo comunica la debolezza del capitale,che dipende da noi.In secondo luogo ci dice che questa conversione della nostra attività in manodopera è un processo totalizzante che ci subordina ad una logica unificante del profitto.Questo ci dice già che la rivoluzione deve essere un dipanarsi di questo processo di totalizzazione,un movimento di detotalizzazione (o autonomizzazione) la creazione di un mondo di molti mondi,come pongono gli zapatisti.
E in terzo luogo, ci dice che questa spinta per convertire la nostra attività (o fare) ha una dinamica:ciò deriva dal fatto che la grandezza del valore è determinato dalla quantità di tempo del lavoro socialmente necessario per produrre una merce e dal fatto che questo è in costante diminuzione.La debolezza del capitale è non dipende solo dalla conversione della nostra attività in lavoro,ma che dipende dall’essere in grado di farci lavorare più velocemente:la debolezza intrinseca diventa una tendenza alla crisi.
La teoria del lavoro di Marx è un grido, un grido di dolore e di rabbia contro l’oscenità di un tale modo di organizzare il nostro fare creativo,ma è anche un grido di speranza che questo sistema che ci sta distruggendo ha una debolezza fatale, il fatto che esso dipende da noi.E ‘importante dire questo perché molto quello che ieri è stato detto sembrava suggerire che Marx ha approvato una società basata sul lavoro quando quello che dice è esattamente il contrario.
Se non avete letto il Capitale, per favore leggetelo;se lo avete letto siete pregati di leggerlo ancora.Questa richiesta è indirizzata a tutti voi;specialmente agli anarchici tra di voi;e ancora di più soprattutto per i marxisti tra voi, e a te,David Graeber, e a te, David Harvey,e, se le mie parole in qualche modo possano raggiungervi nella vostra prigione sull”isola,a voi Abdullah Ocalan.
Il lavoro è la produzione di mancanza di significato.David Graeber ha detto molto bene ieri,ma anche Marx lo aveva detto 150 anni fa.Ma è più di questo:il lavoro è la distruzione delle forme umane e non umane di vita.
III
Il Capitale è aggressione e nella sua crisi c’è un intensificazione di tale aggressività.Nella crisi presente il capitale si scontra contro le sue capacità di imporre la logica di profitto,la logica del veloce-veloce-veloce senza senso sulla vita umana.Noi siamo la crisi del capitale.
Si cerca di trovare una soluzione in due modi.In primo luogo, spingendo più forte, diventando più autoritario,spingendo fuori strada tutti coloro che si pongono come un ostacolo alle sue ambizioni:Ayotzinapa, cinquanta prigionieri politici nello stato di Puebla, dove vivo.E in secondo luogo, giocando un grande gioco di finzione:se non siamo in grado di sfruttarti nel modi in cui abbiamo bisogno,facciamo finta che possiamo, e cerchiamo di espandere credito / debito;da qui l’enorme espansione del capitale sotto forma di denaro.Ma la crisi del 2008, annuncia chiaramente i limiti del gioco di lasciare fingere e costringe il capitale a diventare ancora più autoritario.Quarta guerra mondiale,guerra contro l’umanità.
Dobbiamo vincere questa guerra:dobbiamo vincere questa guerra:perdere è di accettare il possibile o probabile l’annientamento della vita umana.Vincendo la guerra non intendo legare i banchieri ed i politici sui pali della luce(per quanto interessante possa essere),ma rompendo la dinamica di distruzione che è capitale.Smettere di creare capitale,smettere di alimentarlo. Facciamo qualcosa di sensato invece, qualcosa di significativo,gettiamo le basi di un diverso modo di vivere.
La strategia di cercare di liberarsi del capitale riproducendo capitale,anche se su una base meno aggressivo,non funziona,per quanto ben intenzionati possano essere e comunque reali alcuni dei suoi effetti benefici.Guardate alla Bolivia,al Venezuela,guardate adesso alla Grecia;non esiste qualcosa come un capitalismo gentile;la Grecia ora ci sta mostrando di giorno in giorno che la strategia apparentemente realistica di creare un diverso tipo di società attraverso lo Stato è assolutamente irrealistica.
Non ha senso pensare che siamo in grado di smettere di creare capitale passando attraverso lo Stato,perché lo Stato è una forma di relazioni sociali,che deriva la sua esistenza dal capitale.Dobbiamo procedere in maniera diversa,in modi diversi,dove gli unici percorsi che esistono sono quelli che facciamo camminando su di essi.Ed è nostra responsabilità,una nostra responsabilità che non può essere delegata.Non può essere delegata ai politici,ma non può neanche essere delegata la movimento di liberazione curdo o agli Zapatisti.La lotta è nostra,qui ed -ora ad Amburgo o ovunque viviamo-ovunque viviamo e non solo dove siamo nati,o addirittura dove sono nati i nostri genitori, anche se, naturalmente,dove siamo nati e abbiamo vissuto è parte del luogo in cui viviamo ora.
Noi siamo al centro,questo che abbiamo avviato con:un auto contraddittorio noi,un noi che cammina chiedendo,cammina sognando.Soprattutto un noi che cammina tessendo.In pratica,creiamo le basi di una società diversa intrecciando in un movimento che va contro e oltre il legame capitalista della nostra attività in totalizzante,lavoro senza senso.Questo non è solo un progetto, è qualcosa che stiamo già facendo,e che è sempre stato al centro di tutte le lotte anticapitaliste.Spingiamo contro il capitale agendo contro lo sfruttamento,cioè intrecciando un mondo di molti mondi che spingono verso l’autodeterminazione.Tutti questi intrecci sono contraddittori,tutti devono affrontare il problema estremamente complesso dell’interfaccia con il mondo governato dal denaro in base al valore;è per questo che non possono davvero essere intese come autonomie,ma al meglio come autonomiste,come crepe o fessure nella trama della dominazione.
C’è una poesia in questo approccio:non necessariamente nel linguaggio,ma nel movimento stesso di lotta.Viviamo in un mondo che ancora non esiste,sperando che possiamo crearlo vivendolo.
Viviamo in un mondo che esiste potenzialmente,viviamo nel congiuntivo piuttosto che nell’indicativo.Questa non è una rivoluzione futura, questo non è un post-capitalismo che stiamo creando,si tratta di un nel-contro e al di là del capitalismo qui e ora.Rompiamo l’omogeneità del tempo,rompiamo i confini dello spazio.Per gli zapatisti, la dignità è il concetto centrale,la dignità di quelli in lotta,la dignità di tutti coloro che vivono nel-contro e al di là un mondo costruito sulla negazione della dignità.La poesia che è così evidente nei comunicati scritti da parte di chi era il subcomandante Marcos(ora Galeano),non è la poesia di una sola persona,ma la poesia di un movimento,e non è una decorazione aggiuntiva del movimento stesso:è il cuore del movimento stesso.Questa è la poesia non solo del movimento ma della tradizione del pensiero critico che attraversa Marx, Bloch, Adorno, Benjamin, Marcuse, Vaneigem e ben oltre.Questa è una poesia che è stata così presente in molte delle presentazioni negli ultimi due giorni.
IV
Questo approccio è molto interessante. C’è una bellezza in esso, e anche un’anima etica.Porta l’etica e la politica rivoluzionaria in linea:il mondo che creiamo è il mondo che pensiamo dovrebbe esistere.Ma è realistico? In questi tempi di guerra, in questi tempi di aggressione capitalistica acuta,la prefigurazione del mondo che vogliamo creare è un approccio realistico?Non è sufficiente essere moralmente giusto o poeticamente stimolante:vogliamo davvero vincere la quarta guerra mondiale ponendola a termine con la creazione di un mondo libero del capitalismo.
Non sappiamo. Sappiamo che il primo approccio (quello apparentemente realistico) non funziona,ma questo non significa che il secondo approccio funziona.Sappiamo anche che il secondo approccio è inevitabilmente contraddittorio,che non c’è purezza qui.Lottiamo per tessere un mondo diverso,in molti modi diversi,Si tratta di intrecci che si stanno verificando in tutto il mondo,intrecci che sono costantemente minacciati dal capitale,spesso schiacciati dal capitale,costantemente ripresi da noi.La tessitura in questo AudiMax negli ultimi tre giorni è un piccolo,ma spero significativo esempio.Non c’è un modello,non ci sono regole su come deve essere fatto.
Ma ci sono esempi eccellenti,esempi che si accendono al buio,che deprimono il cielo,che ci ispirano con la loro forza e bellezza.La lotta zapatista è un glorioso esempio di questo.La lotta curda con tutta la sua bellezza creativa di cui abbiamo sentito parlare,ne è un altro.

fonte:  http://www.uikionlus.com/sfidare-la-modernita-capitalista-ii-la-quarta-guerra-mondiale-e-come-vincerla-un-tributo-ai-curdi-e-agli-zapatisti/

sabato 9 maggio 2015

Istituzioni immortali (e il carattere distruttivo)



Le istituzioni che durano oltre una normale vicenda umana hanno proprio per questo un aspetto maligno che viene sistematicamente sottaciuto.
Cosa può fare un individuo in una vita? Ben poco a fronte di strutture che lo sovrastano per la propria capacità di durare ben oltre le sue più rosee aspettative.
Il potere separato - tolto alle persone e affidato alle istituzioni - colpisce proprio coloro dai quali viene legittimato: siamo quindi artefici della nostra stessa impotenza proprio accettando questa realtà che dura oltre noi stessi.
La stessa cosa vale per tutto ciò che dura troppo a lungo, come le grandi corporation, i giganteschi patrimoni e la cultura stessa se fossilizzata e chiusa a ciò che nasce di nuovo.
Un bambino appena nato eredita la sua quota di debito pubblico e al tempo stesso la sua parte di obblighi e gerarchie costituite
L'unico modo per cambiare tutto questo è fare ogni tanto un "giubileo", o una rivoluzione, insomma un azzeramento salutare di ciò che esiste a favore di ciò che vuole nascere.
Walter Benjamin in un testo memorabile descrive bene l'importanza del "carattere distruttivo" e la sua necessità, a complemento dell'altra naturale tendenza, quella della conservazione di ciò che vale la pena di essere salvato.
Questa continua dialettica tra morte e vita, che tutti conosciamo sulla pelle e che ci accomuna in quanto "mortali" - come già definito dai Greci - pretende che anche le istituzioni siano della stessa pasta, che siano vive e al servizio dei viventi, che possano morire lasciando lo spazio al nuovo che nasce.
Il peso del passato morto sul presente e sul futuro, è l'essenza stessa del capitalismo e della sua qualità distruttrice di lavoro vivo adesso, a favore dell'accumulazione di lavoro morto.
E la sua capacità di sedimentarsi in eterno imprigiona il Pianeta che è vivo e tutti i suoi abitanti (gc 29/08/2012)

Il carattere distruttivo

La grande onda di Kanagawa di Katsushika Hokusai


Nel guardare indietro nella propria vita, potrebbe capitare di riconoscere che quasi tutti i legami più profondi, a cui in essa si è sottostati, hanno avuto origine da persone, sul cui carattere distruttivo erano tutti d'accordo. Un giorno si potrebbe incappare, forse per caso, in quanto fatto e quanto più forte sarà lo choc da cui si sarà colpiti, tanto più grandi saranno le chances per una rappresentazione del carattere distruttivo.
Il carattere distruttivo conosce solo una parole d'ordine: creare spazio; una sola attività: far pulizia. Il suo bisogno di aria fresca e di uno spazio libero è più forte di ogni odio.
Il carattere distruttivo è giovane e sereno. Distruggere infatti ringiovanisce, perché toglie di mezzo le tracce della nostra età; rasserena, perché ogni eliminare, per il distruttore, significa una perfetta riduzione, anzi un'estrazione della radice della propria condizione. A tale immagine apollinea del distruttore ci conduce ancora di più la considerazione di come si semplifichi infinitamente il mondo, se si appura che merita di essere distrutto. Questo è il grande vincolo che stringe armoniosamente tutto l'esistente. Questa è una visione che procura al carattere distruttivo uno spettacolo della più profonda armonia.
Il carattere distruttivo quando lavora è sempre fresco e riposato. E' la natura a prescrivergli il tempo, almeno indirettamente: poiché egli la deve prevenire. Altrimenti intraprenderà lei stessa la distruzione. Il carattere distruttivo non ha alcun modello. Ha pochi bisogni, e nulla gli importa meno che: sapere cosa subentra al posto di ciò che è stato distrutto. In un primo momento, almeno per un attimo, lo spazio vuoto, il luogo dove stava la cosa, dove la vittima ha vissuto. Si troverà certamente qualcuno che lo usa, senza prendere possesso.
Il carattere distruttivo è un segnale. Come un disegno trigonometrico è esposto da tutti i lati al vento, egli è esposto da tutti i lati al pettegolezzo. Proteggerlo da ciò è privo di senso.
Al carattere distruttivo non importa affatto essere compreso. Sforzarsi in questa direzione lo ritiene superficiale. L'essere frainteso non lo può danneggiare. Al contrario tutto questo lo provoca, come lo provocano gli oracoli, queste distruttive istituzioni statali. Il più piccolo-borghese dei fenomeni, il pettegolezzo, ha luogo solo perchè la gente non vuole essere fraintesa.
Il carattere distruttivo si lascia fraintendere; così non incoraggia il pettegolezzo. Il carattere distruttivo è nemico dell'uomo-astuccio. L'uomo-astucccio cerca la propria comodità e di questa l'astuccio ne è la quintessenza. L'interno dell'astuccio è la traccia, rivestita di velluto, che lui ha impresso nel mondo. Il carattere distruttivo cancella perfino le tracce della distruzione.
Il carattere distruttivo sta nel fronte dei tradizionalisti. Mentre alcuni tramandano le cose rendendole intangibili e conservandole, altri tramandano le situazioni rendendole maneggevoli e liquidandole. Questi vengono chiamati i distruttivi.
Il carattere distruttivo ha la coscienza dell'uomo storico, il cui sentimento fondamentale è un'insormontabile diffidenza nel corso delle cose, nonché la prontezza con la quale prende nota del fatto che tutto può andare storto. Perciò il carattere distruttivo è la fiducia stessa.
Il carattere distruttivo non vede niente di durevole. Ma proprio per questo vede dappertutto delle vie. Ma poichè vede dappertutto una via, deve anche dappertutto sgombrare la strada. Non sempre con cruda violenza, talvolta anche con violenza raffinata. Poiché dappertutto vede vie, egli stesso sta sempre ad un incrocio. Nessun attimo può sapere ciò che il prossimo reca con sé. L'esistente lui lo manda in rovina non per amore delle rovine, ma per la via che vi passa attraverso.
Il carattere distruttivo non vive per il sentimento che la vita merita d'essere vissuta, ma perché non vale la pena di suicidarsi."

Appunti sul «carattere distruttivo»
Potrebbe capitare a qualcuno che, nel riguardare alla propria esistenza, pervenga alla constatazione che quasi tutti i più profondi impacci che ha patito in questa vita siano derivati da persone sul cui «carattere distruttivo» tutti erano d’accordo. Potrebbe un giorno imbattersi forse per caso in questi dati di fatto e allora, quanto più forte lo shock che subirebbe, tanto maggiori le sue probabilità di arrivare a una descrizione del carattere distruttivo.
Sgomberare: con questa parola d’ordine si potrebbe illustrare con particolare evidenzal’azione del carattere distruttivo. «Fammi posto!» è l’intimazione sulla quale il carattere distruttivo imposta il suo operato. E si troverà prima o poi qualcuno che ne ha bisogno senza (occuparlo). Perché il carattere distruttivo non distrugge per compiacere se stesso:è un mandatario .Questo carattere distruttivo non è un Tersite, anzi, è giovane e allegro. Ne rappresenta addirittura l’immagine opposta, di una bellezza perfino apollinea: piena di giovinezza e di allegria. Infatti distruggere ringiovanisce perché toglie di mezzo i testimoni della nostra età; e rallegra perché ogni rimozione significa per colui che distrugge una schiarita, una perfetta - (per dirla in termini matematici) - riduzione se non estrazione della radice della propria condizione. A una simile, concezione apollinea del distruttore induce più che mai la comprensione di come si semplifichi straordinariamente il mondo ove lo si verifichi in base alla dignità d’essere distrutto. È il grande nastro che avvolge armonicamente ogni esistente. Ed è una visione che appare gradevole e consolante al carattere distruttivo. (Al contrario, nel caso del carattere edificante: ogni giorno le basi della sua esistenza si fanno più difficili, più condizionate, e sempre più condizionato diviene il suo operato, e più precario il suo equilibrio che non è, di per sé già, quello stabile del carattere distruttivo, ma quello labile del carattere creativo).
Il carattere distruttivo è sempre alacremente al lavoro. È la natura a dettargli i ritmi, indirettamente almeno: perché deve prevenirla. Altrimenti s’incaricherà essa stessa della distruzione.Il carattere distruttivo non ha immaginazione. Ha poche esigenze, e la minima è: sapere che cosa subentra a ciò che è distrutto. In un primo momento, per un attimo almeno, lo spazio vuoto: il posto dove era la cosa, dove era vissuto l’uomo. Si troverà poi prima o poi qualcuno che ne ha bisogno senza occuparlo.Il carattere distruttivo non ha nulla a che fare con quello decadente e altrettanto poco con quello demoniaco. Non gli importano le avventure private, ma solo la certezza di non vivere neppure un attimo senza una missione storica. Il carattere distruttivo non si uccide. Perché? Perché non c’è niente da eliminare. È in un punto d’indifferenza: la sua esistenza è creazione, il suo operare distruzione.

Walter Benjamin, Il carattere distruttivo, 1972 (trad.it 1980)

lunedì 4 maggio 2015

L’ambiente non amato




Alcuni giorni fa mentre andavo in bicicletta osservavo le mille sfumature di verde che le piante in questo momento hanno e i variopinti colori, sempre sulle tonalità del verde, della moltitudine di erbe che formano i nostri rigogliosi prati. Penso che le mie osservazioni ed il piacere per il cuore siano presenti in molte persone ogni giorno e in particolare nel periodo primaverile dove la Natura si riveste a nuovo.
Mentre assaporavo questo rinascere di vita il mio sguardo si è soffermato presso i bordi stradali, le erbe erano gialle, rinsecchite, prive di vita. Un sussulto e un disgusto mi hanno preso, come è possibile che sia avvenuta la morte di queste erbe mentre tutt’attorno c’è vita, colori e suoni. Questo spettacolo funereo purtroppo lo possiamo vedere troppo spesso ai bordi delle nostre strade. Casualmente mi sono imbattuto su di un camioncino che trasporta una cisterna e un operaio, ignaro del danno che stava facendo, manovrava una pompa e spargeva il veleno ai bordi delle strade.
Il veleno non è altro che un diserbate ad ampio spettro che fa morire tutte le specie di erbe, è un composto organico dannosissimo per la vita vegetale e animale, uccide ogni forma di vita, azzera totalmente la biodiversità. Ma la cosa più dannosa è nella natura stessa del diserbante, essendo una molecola fatta dall’uomo, non è riconosciuta dai microorganismi, prevalentemente batteri e funghi, che hanno il compito di “smontare” le molecole e renderle innocue, così questi veleni restano per moltissimo tempo e spesso terminano nelle falde acquifere che noi utilizziamo per gli usi domestici e per dissetarci.
Come possiamo essere così distratti e insensibili verso l’Ambiente, verso la Natura, le offese che noi arrechiamo ci ritornano ingrandite, gli esempi sono moltissimi, l’ultimo in ordine di tempo è dato dal batterio (Xylella fastidiosa) che sta distruggendo le piante di ulivo in Puglia con danni economici immensi e danni storici poiché molte delle piante, che stanno morendo, racchiudono un racconto lungo centinaia di anni. Si potrebbero portare infiniti esempi, la concentrazione della CO2 che continua a salire provocando squilibri nel clima a livello planetario e altro ancora.
Ma ora sta per aprire i battenti Expo, una vetrina mondiale che vede la Natura in primo piano, un incontro di popolazioni, usi e modi di vivere differenti. Si inneggia, si pubblicizza e si innalza come bandiera di comportamento sano “l’albero della Vita” e poi si cospargono di veleni la terra, si uccide solo per risparmiare qualche manciata di denaro per assumere operai che potrebbero sfalciare l’erba senza arrecare alcun danno all’ambiente.
Questo monito andrà perso, noi abbiamo la memoria corta, ora abbiamo una vetrina che si chiama Expo, dobbiamo apparire belli, rispettosi verso l’Ambiente e la Vita, poi abbassato il tendone continueremo a devastare il pianeta, continueremo imperterriti a cospargere i bordi delle strade con il veleno.
 


Besozzo 30.04.2015


Prof. Roberto Cenci