giovedì 16 luglio 2015

PAPALAGI di Tuiavii di Tiavea (una perla regalata dalle buone onde del web)


Papalagi (*)
 (*) Per papalagi si intende l'uomo bianco, nella lingua samoana


Ribattuta dalla prima edizione della casa editrice "Millelire" Stampa Alternativa. La traduzione è di Amina Pandolci tranne per l'ultimo capitoletto che manca alle edizioni italiane ma è presente qui, tradotto dall'edizione spagnola, dalla quale sono tratte anche le vignette.


Introduzione

Tuiavii non ebbe mai intenzione di presentare in Europa questi discorsi e tanto meno di farli stampare; essi erano concepiti esclusivamente per le sue genti polinesiane. Tuttavia è importante sapere con quali occhi un uomo ancora così strettamente legato alla natura vede noi e la nostra civiltà. Attraverso i suoi occhi impariamo a vedere noi stessi da un angolo di visuale che non potrebbe mai essere nostro.
Questi discorsi rappresentano un richiamo a tutti i popoli primitivi dei mari del sud a tenersi lontani dai popoli cosiddetti illuminati del continente europeo. Tuiavii era convinto che i suoi antenati avevano commesso un gravissimo errore lasciandosi sedurre dalle luci dell'Europa.
Egli possedeva in straordinaria misura il dono di saper vedere in maniera obiettiva, libera da ogni preconcetto. Nulla lo poteva accecare, e non v'erano parole che potessero distoglierlo da una verità. Egli vedeva per così dire la cosa in sé.
Tuiavii, l'isolano primitivo, considerava tutte le conquiste della civiltà europea come un errore, un vicolo cieco. Non riesce a vedere in che cosa consista il grande valore della civiltà europea, dal momento che essa distoglie l'uomo da se stesso, lo priva di autenticità, di naturalezza, lo rende peggiore. «Voi credete di portarci la luce, in realtà vorreste trascinarci nella vostra oscurità»
In una sorta di infantile sincerità e in una totale irriverenza sta, a mio avviso, il valore dei discorsi di Tuiavii per noi europei e anche la ragione di una loro pubblicazione.
Horn in Baden, 1920
ERICH SCHEURMANN

Del ricoprirsi del Papalagi, dei suoi molti panni e stuoie

Il Papalagi è continuamente preoccupato di coprire ben bene la sua carne. «Il corpo e le sue membra sono carne, solo quello che sta sopra il collo è il vero uomo»; così dunque mi disse un bianco che godeva di grande prestigio ed era considerato molto saggio. Voleva dire che degna di considerazione è solo la parte dove hanno dimora lo spirito e tutti i buoni e i cattivi pensieri. La testa. Quella, e in caso estremo anche le mani, il bianco le lascia volentieri scoperte sebbene anche la testa e le mani altro non siano che carne e ossa. Chi lascia vedere la propria carne, non può più vantare alcun diritto di essere chiamato civile. Quando un giovane sposa una fanciulla, non sa mai se è stato imbrogliato, perché non ha mai visto il suo corpo.
La carne è peccato. Così dice il Papalagi. Poiché il suo spirito è grande grazie al suo pensiero. Il braccio che si leva per il lancio nella luce del sole, è una freccia del peccato Il petto su cui ondeggia l'onda del respiro, è la dimora del peccato... Le membra con le quali la vergine ci offre una danza sono peccaminose. E anche le membra che si toccano per fare la creatura a gioia della grande terra, sono peccato. Tutto è peccato ciò che è carne. In ogni tendine c'è un veleno, un subdolo veleno che passa da creatura a creatura. Chi anche solo guarda la carne, sugge il veleno, ne è ferito, è altrettanto riprovevole e perverso quanto colui che la mette in mostra. Così dunque dicono le sacre leggi morali dell'uomo bianco.
Anche per questo il corpo del Papalagi è ricoperto dalla testa ai piedi di panni, stuoie e pelli, in maniera così fitta e spessa che non un occhio umano vi può giungere, non un raggio di sole, così che il suo corpo diventa smorto, bianco e appassito come i fiori che crescono nel profondo della foresta vergine.
Lasciate che vi descriva, più ragionevoli fratelli delle molte isole, quale peso un solo Papalagi porta sul suo corpo. Prima di tutto, sotto ogni altra cosa, egli avvolge il suo corpo nudo in una pelle bianca, ottenuta con le fibre di una pianta, chiamata pelle di sopra. La si solleva e la si lascia ricadere dall'alto verso il basso, da sopra la testa, sul petto e sulle braccia, fino all'altezza dei fianchi. Sopra le gambe e le cosce e fino all'ombelico, tirata dal basso verso l'alto, viene la cosiddetta pelle di sotto. Entrambe sono poi ricoperte da una terza pelle, più spessa, intessuta con i peli di un animale, un quadrupede lanoso, che viene allevato appositamente a questo scopo. Questi sono i veri e propri panni e consistono per lo più di tre parti, una che copre il busto, l'altra l'addome e la terza le cosce e le gambe. Le tre parti sono tenute insieme da conchiglie e funi fabbricate con i succhi disseccati dell'albero della gomma, così che da ultimo sembrano fatte di un pezzo solo. Questi panni sono nella maggior parte dei casi di un colore grigio come la laguna nella stagione delle piogge. Non devono mai essere colorati. Tutt'al più quello di mezzo, e anche qui soltanto per gli uomini che amano far parlare di se e corrono molto dietro alle donne.
l piedi infine vengono avvolti in una pelle morbida e in una molto rigida. Quella morbida è per lo più elastica e si adatta facilmente al piede, al contrario di quella rigida. Anche questa è fatta con la pelle di un robustissimo animale, la quale viene lasciata a bagno nell'acqua, poi raschiata con un coltello, battuta e stesa al suolo fino a che si è completamente indurita. Con questa il Papalagi si costruisce poi una sorta di canoa dal bordo molto alto, grande giusto quanto basta per farvi entrare il piede. Queste barche da piedi vengono poi legate e allacciate con cordoni e ganci intorno alla caviglia, così che il piede resta chiuso in un rigido guscio, come il corpo di una lumaca di mare. Queste pelli da piedi il Papalagi se le porta addosso dal levar del sole fino al tramonto, con esse fa i suoi viaggi, danza e le porta anche quando fa caldo come dopo la pioggia tropicale.
Poiché tutto ciò è assai innaturale, come il bianco del resto ben comprende, e rende i piedi come morti, tanto che cominciano a puzzare, e poiché in effetti la maggiore parte dei piedi europei non sanno più afferrare una cosa o arrampicarsi su una palma, per tali ragioni il Papalagi cerca di nascondere la sua follia ricoprendo la pelle di questo animale, che al naturale sarebbe rossastra, con molto sudiciume, che poi rende lucido a furia di strofinare, così che gli occhi non possono sopportarne il luccichio e si volgono altrove.
Una volta, in Europa viveva un Papalagi che divenne famoso e dal quale andava molta gente, perché diceva loro: «Non è bene che portiate ai piedi pelli così strette e pesanti, andate a piedi nudi sotto il cielo, fintanto che la rugiada della notte copre i prati, e tutte le malattie si allontaneranno da voi». Quest'uomo era molto sano e saggio; ma tutti hanno sorriso di lui e lo hanno presto dimenticato.
Anche la donna porta come l'uomo molte stuoie e panni intorno al corpo e intorno alle gambe. La sua pelle è perciò tutta segnata da cicatrici e ferite a causa dei lacci. I seni sono vizzi e spenti e non danno più latte, per l'oppressione di una stuoia che lei si lega intorno al petto, dal collo fino al basso ventre, e anche sulla schiena, una stuoia indurita e irrigidita con ossa di pesce, filo di ferro e vari legacci. Perciò la maggior parte delle madri non possono più allattare i propri figli e devono dare loro il latte in un rotolo di vetro, chiuso sotto e munito al di sopra di un capezzolo finto. E non e neppure il proprio latte, quello che danno loro, ma il latte di brutti animali rossastri e cornuti ai quali viene tolto con la forza, premendolo fuori da quattro tappi che hanno sotto la pancia.
Per il resto i panni delle donne e delle fanciulle sono molto più sottili e leggeri di quelli degli uomini, e possono anche essere variopinti e luccicare tanto da essere visti da lontano. Inoltre lasciano anche spesso intravedere collo e braccia e più carne di quelli degli uomini. Tuttavia è considerata buona cosa che una fanciulla si copra molto e allora la gente dice di lei con compiacimento: «È casta», e ciò sta a significare che rispetta le leggi dei buoni costumi.
Perciò non ho mai capito perché in occasione delle grandi feste e dei banchetti le donne e le fanciulle possono lasciar scoperta molta più carne sul collo e sulle spalle, senza che ciò sia vergogna. Ma forse questo rappresenta appunto il pepe della festa, che in tali occasioni venga permesso ciò che non è consentito tutti i giorni.
Solo gli uomini tengono sempre ben coperti il collo e la schiena. Dal collo fino ai capezzoli, le signore portano ben disteso un pezzo di panno rigido, grande quanto una foglia di taro. Sopra di esso posa, legato intorno al collo, un cerchio anch'esso bianco e rigido dello stesso panno, e questo rigido anello egli lo cinge con una striscia di panno colorato, che annoda come la fune di una barca e poi trafigge con un chiodo d'oro o vi mette sopra una perla di vetro, e lascia che il tutto gli penzoli davanti come un'insegna. Molti Papalagi portano anche rigidi anelli di panno bianco ai polsi; mai però alle caviglie.
Quell'insegna bianca e gli anelli bianchi ai polsi sono di grande importanza. Un Papalagi non compare mai senza questo ornamento davanti a una donna. Cosa molto grave è quando il rigido anello è diventato nero e non porta più nessuno splendore di luce. Molte signore importanti cambiano perciò ogni giorno gli anelli bianchi e rigidi sia al collo, sia ai polsi.
Mentre la donna possiede numerosi panni colorati da festa, che custodisce in molte casse, collocate ritte in piedi, e si dà molto pensiero di quello che indossa oggi o domani, se deve essere lungo o corto, e parla sempre con molto amore degli ornamenti che ci deve mettere sopra, l'uomo ha di solito un unico abito da festa e non ne parla quasi mai. Questa è la cosiddetta giubba a coda di rondine, di panno nero come la notte, che in fondo alla schiena finisce a punta, come la coda di un pappagallo della foresta. Con questo abito da festa anche le mani devono avere una pelle bianca, che ricopre strettamente tutte le dita, tanto che il sangue ribolle e affluisce al cuore. Per tale ragione è talvolta anche consentito che uomini ragionevoli tengano queste pelli solo in mano o che le infilino dentro il panno, all'altezza del cuore.
Non appena un uomo o una donna lasciano la capanna per passare sulla strada, subito si avvolgono in un ulteriore panno, che è pesante o leggero secondo che brilli il sole o faccia freddo. Poi si coprono anche la testa, gli uomini con un vaso nero e rigido, arrotondato e vuoto all'interno, come il tetto di una casa delle Samoa; le donne invece con grandi canestri e ceste rovesciate sui quali annodano fiori che non sfioriscono mai, piume, strisce di panno, perle di vetro e altri ornamenti di ogni genere. Assomigliano agli ornamenti che hanno sul capo le vergini durante una danza di guerra, solo che questo è molto più bello e anche nella danza o nella tempesta non può cadere. Gli uomini sollevano questi vasi da testa a ogni incontro, in segno di saluto, mentre le donne piegano solo lievemente in avanti il peso che portano sul capo, come una barca mal caricata.
Solo la notte, quando il Papalagi brama la sua stuoia, egli si toglie di dosso tutti quei panni, ma subito se ne infila un altro, un pezzo unico aperto sui piedi, che lascia scoperti. Anche le donne e le fanciulle portano questo panno da notte, per lo più riccamente adorno intorno al collo, sebbene di questo si veda ben poco. Non appena il Papalagi si è steso sulla sua stuoia, subito si ricopre dalla testa ai piedi con le piume strappate dalla pancia di un grande uccello e rinchiuse in un grande telo perché non possano disperdersi e volare via. Queste piume inducono il corpo a sudare e il Papalagi così pensa di essere steso al sole, anche quando non lo è. Perché, in realtà, del vero sole il Papalagi non si interessa molto.
È ora ben chiaro che, con tutte queste cose addosso, il corpo del Papalagi diventa bianco e smorto, senza il colore della gioia. Ma lui ama fare così. In effetti le donne, specialmente le fanciulle, sono preoccupate di proteggere la pelle, perché non si arrossi nella grande luce, e a loro difesa, non appena si espongono al sole, si aprono un tetto sopra la testa. Come se il pallido colore della luna fosse loro più gradito del colore del sole. Ma al Papalagi piace farsi in tutte le cose una saggezza e una legge secondo il suo pensiero. Poiché il suo naso è appuntito come il dente di un pescecane, lo trova bello; e il nostro, che è sempre tondo e morbido, lo trova brutto, sgraziato, mentre noi diciamo esattamente il contrario.
Essendo i corpi delle donne e delle fanciulle così accuratamente ricoperti, gli uomini e i giovanetti provano un intenso desiderio di vedere la loro carne, come è naturale. Notte e giorno ci pensano e parlano molto delle forme delle donne e delle fanciulle, e sempre in modo che ciò che è bello e naturale appaia un grande peccato, come qualcosa che può essere visto solo nell'ombra più fonda. Se lasciassero vedere la carne più apertamente, potrebbero dedicare i loro pensieri ad altre cose, e i loro occhi non si storcerebbero e le loro bocche non pronuncerebbero parole vogliose ogni volta che incontrano una fanciulla.
Ma la carne è peccato, è di demonio. C'è pensiero più stolto, cari fratelli? Se si dovesse credere alla parola del bianco, si dovrebbe con lui desiderare piuttosto che la nostra carne fosse rigida come lava e priva di quel dolce calore che viene da dentro. Ma noi vogliamo ancora rallegrarci della nostra carne che può parlare con il sole, di poter muovere le gambe come il cavallo selvatico perché nessun panno le lega e nessuna pelle appesantisce i piedi, di non essere costretti a fare attenzione perché il nostro copricapo non ci cada dalla testa. Godiamoci la gioia che ci dà la vergine che è bella nel corpo e mostra le sue membra al sole e alla luce della luna. Stolto, cieco e senza il senso della vera gioia è il bianco che deve tanto ricoprirsi per essere senza vergogna.

Dei cassoni di pietra, delle fessure di pietra, delle isole di pietra e di ciò che vi sta frammezzo

Il Papalagi vive in un guscio solido come una conchiglia marina. Vive fra le pietre come la scolopendra fra le fessure della lava. Le pietre sono tutt'intorno a lui, accanto e sopra di lui. La sua capanna somiglia a un cassone di pietra messo in piedi.
Una cassa che ha molti scomparti ed è tutta bucata.
C'è un solo punto in cui si può entrare e uscire da questa cassa di pietra. Questa apertura il Papalagi la chiama ingresso quando entra nella capanna, uscita quando ne esce fuori, sebbene entrambe siano una sola e unica cosa. In questa apertura c'è una grande ala di legno che bisogna spingere con forza per poter entrare nella capanna. Ma anche così si è soltanto al principio e bisogna spingere ancora parecchie ali prima di essere veramente nella capanna.
La maggior parte delle capanne sono abitate da più persone di quante ne vivano in un solo villaggio delle Samoa, perciò è necessario sapere con esattezza il nome della famiglia che si vuole andare a trovare. Poiché ogni famiglia ha per sé una parte speciale della cassa di pietra o sopra o sotto o più avanti. E una famiglia spesso non sa nulla delle altre, nulla di nulla, come se fra loro non ci fossero solo pareti di pietra, ma Manono, Apolima, Savaii (tre delle isole Samoa, n.d.r.) e molti mari. Spesso sanno appena il loro nome, e quando s'incontrano nel buco da cui si entra si fanno solo di malavoglia un cenno di saluto o si borbottano dietro come insetti ostili. Come se fossero infastiditi di vivere l'uno accanto all'altro.
Se la famiglia sta in alto, proprio sotto il tetto della capanna, allora bisogna salire molti rami a zig-zag o in tondo, fino a che si arriva al punto dove il nome della famiglia sta scritto sul muro. Lì ci si trova davanti un grazioso capezzolo femminile finto sul quale si preme fino a che risuona un grido che chiama la famiglia. La famiglia guarda attraverso un piccolo buco rotondo munito di piccoli ferri, per vedere se si tratta di un nemico. In tal caso non apre. Se invece riconosce l'amico, allora subito slega una grossa ala di legno, accuratamente serrata, e la tira verso di sé, in modo che l'ospite attraverso Il passaggio possa entrare nella capanna vera e propria. Questa è a sua volta divisa da molte ripide pareti di pietra, e si passa di ala in ala, da un cassone a un altro cassone sempre più piccolo. Ogni cassone, che il Papalagi chiama stanza, ha un buco (quando è grande anche due o tre) attraverso il quale entra la luce. Questi buchi sono chiusi con un vetro, che si può togliere quando si vuole far entrare aria fresca nei cassoni, cosa quanto mai necessaria. Ci sono però anche molti cassoni senza buchi per l'aria e per la luce.
Un samoano morirebbe ben presto soffocato in questi cassoni, perché qui non passa mai un soffio d'aria fresca come in qualsiasi capanna delle Samoa. E anche gli odori della cucina cercano una via d'uscita. Spesso però anche l'aria che viene da fuori non è migliore; e si fatica a capire come una creatura qui non debba morire, come per la nostalgia dell'aria non diventi un uccello, come non gli crescano le ali per potersi levare in volo e andarsene dove c'è aria e sole.
Ogni cassone ha un suo uso particolare. Il più grande e più illuminato serve per i ricevimenti e gli incontri della famiglia o per le visite, un altro per dormire. Qui sono stese le stuoie, vale a dire esse stanno sollevate su un traliccio di legno che ha delle lunghe gambe, affinché l'aria possa passare sotto le stuoie. Un terzo cassone è per consumare il cibo e per fare le nuvole di fumo, un quarto serve a raccogliervi le scorte di cibo, nel quinto si cucina, e nell'ultimo e più piccolo ci si bagna. Questo è il luogo più bello di tutti. È ricoperto di grandi specchi, il pavimento e decorato con un rivestimento di pietra colorata e nel mezzo c'è una grande conca di metallo o di pietra in cui scorre acqua che è stata al sole e acqua che non è stata al sole. In questa conca, che è molto grande, addirittura più grande della tomba di un capo, ci si entra per ripulirsi e lavarsi di dosso la molta polvere dei cassoni di pietra. Naturalmente ci sono anche capanne con più cassoni ancora. Ce ne sono persino di quelle in cui anche ogni bambino ha il suo cassone e anche ogni servo del Papalagi; sicuro, persino i suoi cani e i suoi cavalli hanno i loro cassoni.
Fra questi cassoni il Papalagi trascorre dunque la sua vita. Sta ora in questo, ora in quel cassone, secondo l'ora e il momento. I suoi figli crescono qui, alti sopra la terra, spesso più alti di una palma adulta, in mezzo alle pietre. Di tanto in tanto il Papalagi lascia i suoi cassoni privati come lui li chiama, per trasferirsi in un altro cassone, riservato ai suoi affari, per i quali non vuole essere disturbato e non vuole avere intorno donne e bambini. In queste ore le donne e le fanciulle stanno nella cucina e cuociono il cibo, o tirano a lucido le pelli da piedi, o lavano panni. Quando sono ricche e possono tenere dei servi, sono questi che fanno il lavoro, mentre loro vanno a fare visite o a prendere nuove provviste.
In questa maniera vivono in Europa tante creature quante sono le palme che crescono a Samoa, anzi, molte di più. Alcune hanno il desiderio di boschi e di sole e di molta luce, ma questa in generale e considerata una malattia che bisogna combattere dentro di sé. Quando qualcuno non è soddisfatto di questa vita di pietra, si usa dire che non è normale.
Questi cassoni di pietra si trovano spesso molto numerosi l'uno accanto all'altro, come uomini spalla a spalla, e in ciascuno vivono tanti Papalagi quanti ce ne sono in un villaggio delle Samoa. A un tiro di pietra, dalla parte opposta, si leva un'altra fila di uguali cassoni, anch'essi spalla a spalla, e anche in questi abitano tante persone. Così fra le due file c'è soltanto una sottile fessura, che il Papalagi chiama strada. Questa fessura spesso e larga quanto un fiume e coperta di dure pietre. Bisogna camminare a lungo per trovare un tratto libero; ma qui sfociano altre fessure frammezzo ad altre case. Anche queste sono lunghe come ampi corsi d'acqua dolce e le loro aperture laterali sono anch'esse fessure di pietra del la stessa lunghezza. Così si può camminare per giorni interi in queste fessure fino a perdersi, prima di arrivare a vedere un bosco o un pezzo di cielo azzurro. Fra le fessure solo di rado si vede il vero colore del cielo poiché, dal momento che in ogni capanna si trova un fuoco e spesso anche molti fuochi, l'aria e sempre piena di fumo e di cenere come per l'eruzione di un grande cratere. Quest'aria piove giù nelle fessure, così che gli alti cassoni di pietra sembrano melma delle paludi e gli uomini hanno terra nera negli occhi e nei capelli e sabbia fra i denti.
Ma tutto ciò non impedisce agli uomini di correre in queste fessure da mattina a sera. Sicuro, ce ne sono molti che trovano in ciò uno speciale piacere. In alcune di tali fessure in particolare c'è una gran confusione e la gente vi scorre dentro come un denso limo.... Queste sono le strade in cui si trovano giganteschi cassoni di vetro dove stanno esposte tutte le cose di cui il Papalagi ha bisogno per vivere... panni, ornamenti, copricapi, pelli per le mani e per i piedi, provviste di cibo, carne, e vero nutrimento come frutti e verdure e tante altre cose ancora. Lì esse stanno esposte agli occhi di tutti, per attirare le persone. Nessuno però può prendere qualcosa anche se ne ha grande necessità, per far questo occorre uno speciale permesso e si deve fare omaggio di un sacrificio.
In queste fessure i pericoli vengono da ogni parte, perché la gente non solo corre intorno, viaggia e cavalca a destra e a sinistra, ma si fa anche trasportare in grandi cassoni di vetro che corrono su nastri metallici. Il fragore è grande. Le tue orecchie ne sono stordite, poiché i cavalli battono con i loro zoccoli sulle pietre, gli uomini vi camminano battendo con forza le loro dure pelli da piedi, i bambini strillano, gli uomini urlano di gioia o di spavento, tutti gridano. In tutto quel rumore non riesci neppure a farti capire.
Tutto questo insieme... i cassoni di pietra in cui vivono tante persone, le alte fessure di pietra che corrono su e giù come mille fiumi, gli uomini che vi camminano dentro, le grida, il rumore, la sabbia nera e il fumo sopra ogni cosa, senza un albero, senza cielo azzurro, senza aria pulita e senza nuvole, tutto questo è ciò che il Papalagi chiama una città. Una sua creazione di cui va molto fiero. Sebbene qui vivano tante persone che non hanno mai visto faccia a faccia un albero, mai un bosco, mai cielo aperto, mai il Grande Spirito. Uomini che vivono come gli animali che strisciano nella laguna e dimorano sotto i coralli, per quanto questi almeno abbiano la limpida acqua del mare che li lava e il sole che filtra con il suo fiato caldo. È davvero fiero delle sue pietre il Papalagi? Non lo so. Il Papalagi è un individuo con strani pensieri. Fa molte cose che non hanno alcun senso e che lo rendono malato, e tuttavia ne vanta i pregi e ne canta le lodi.
Parlavo dunque della città. Ci sono però molte città, alcune grandi, altre piccole. Le grandi sono quelle dove vivono i massimi capi di un paese. Tutte le città sono sparse come le nostre isole nel mare. Talvolta si trovano alla distanza di una semplice nuotata, spesso però anche a un intero giorno di viaggio. Tutte le isole di pietra sono collegate fra di loro da sentieri ben segnati. Ci si può arrivare però anche con la nave di terra, che è lunga e sottile come un verme e sputa continuamente fumo e scivola veloce su fili di metallo, più veloce di una barca a dodici remi in piena corsa. Se invece vuoi mandare a un amico che sta su un'altra isola solo un saluto non hai nessun bisogno di andare da lui o di scivolare su quei nastri metallici. Soffi le tue parole in fili di metallo, che vanno come lunghissime liane da un'isola di pietra all'altra. E arrivano, più veloci di quanto possa volare un uccello.
Fra tutte le isole di pietra c'è la cosiddetta campagna, come si chiama in Europa. Qui la terra è bella e fertile come da noi. Ci sono alberi, fiumi e foreste, e qui ci sono anche veri villaggi. Nonostante le capanne siano anche qui di pietra, tuttavia sono circondate da piante con molti frutti, e la pioggia le può bagnare da ogni lato e il vento può poi asciugarle.
In questi villaggi vivono uomini con animo diverso da quelli di città. Si chiamano contadini. Hanno mani più rudi e callose e panni più sporchi degli uomini delle fessure, sebbene abbiano assai più da mangiare di quelli. Ma loro non ci credono e invidiano quelli che chiamano fannulloni, perché non devono toccare la terra e metterci la semente e trarre i frutti. Vivono in ostilità con quelli, perché devono dare loro il nutrimento che viene dalla terra, devono cogliere i frutti che poi l'uomo delle fessure di pietra consuma, devono custodire e allevare il bestiame fino a che è ben grasso e anche di questo devono poi cedere loro la metà. In ogni modo devono faticare molto e procurare il cibo per tutti gli uomini delle città, e non vedono bene la ragione per cui costoro debbano avere panni più belli e mani più bianche e non siano anch'essi a sudare sotto il sole e a gelare sotto la pioggia.
Ma l'uomo che vive nelle fessure di pietra di questo non si preoccupa molto. È convinto di aver maggiori diritti dell'uomo della campagna e che le sue opere abbiano maggior valore che non il deporre o estrarre frutti dalla terra. Questa inimicizia fra le due parti non è però tale che fra loro vi sia guerra. In generale il Papalagi, sia che viva in città fra le fessure, sia che stia in campagna, trova che tutto va bene così com'è. L'uomo della terra ammira il regno degli uomini delle città di pietra quando ci viene, e l'uomo delle fessure di pietra canta grandi arie e gorgoglia quando passa nei villaggi dell'uomo della terra. L'uomo delle fessure lascia che l'uomo della terra ingrassi innaturalmente i maiali e questi lascia che l'uomo delle fessure di pietra costruisca i suoi cassoni di pietra.
Ma noi, che siamo liberi figli del sole e della luce, vogliamo restare fedeli al Grande Spirito e non vogliamo appesantirgli il cuore con le pietre. Solo creature smarrite, malate, che non stringono più la mano di Dio, possono vivere felici fra fessure di pietra senza sole, ne luce, né vento. Concediamo al Papalagi la sua dubbia felicità, ma spezziamo in lui ogni tentativo di costruire anche nelle nostre soleggiate contrade i suoi cassoni e di uccidere la gioia di vivere con pietre, fessure, sporcizia, rumore, fumo e sabbia, come è suo intendimento.

Del tondo metallo e della carta pesante

Ragionevoli fratelli, ascoltate con fiducia e siate felici di non conoscere il male dei bianchi e le loro angustie. Voi tutti mi siete testimoni che il missionario dice: «Dio è amore. Un onesto cristiano farebbe bene a tenersi sempre davanti agli occhi l'immagine dell'amore. Solo al grande Dio va quindi anche la devozione del bianco». Ebbene, il missionario ci ha mentito, ci ha ingannati, il Papalagi lo ha corrotto affinché ci ingannasse con le parole del Grande Spirito. Perché il tondo metallo e la carta pesante, ch'egli chiama denaro, questa è la vera divinità dei bianchi.
Quando un europeo parla dell'amor di Dio, torce la faccia e sorride. Sorride dell'ingenuità del tuo pensiero. Tendigli però un tondo pezzo di metallo o una grande carta pesante, e allora subito i suoi occhi s'illuminano e molta saliva gli giunge alle labbra. Il denaro è il suo amore, il denaro è il suo Dio. Tutti i bianchi pensano a esso, anche quando dormono. Ce ne sono molti le cui mani si sono fatte ricurve e assomigliano nel gesto alle zampe delle grandi formiche della foresta, per il tanto afferrare quel metallo e quella carta. Ce ne sono molti i cui occhi si sono fatti ciechi a furia di contare il denaro. Molti che per denaro hanno dato la gioia, il riso, l'onore, la coscienza, la felicità, sì, persino la donna e il figlio. Quasi tutti perdono la salute per il tondo metallo e la carta pesante. Se lo portano addosso nei loro panni, fra dure pelli ben ripiegate. Di notte lo depongono sotto il guanciale, perché nessuno glielo porti via. Ci pensano ogni giorno, ogni ora, ci pensano ogni minuto. Tutti! Anche i bambini! Devono, sono costretti a pensarci. La madre lo insegna loro e lo vedono fare dal padre. Tutti gli europei. Quando passi nelle fessure di pietra della Germania a ogni momento odi il grido: «Marco!» E di nuovo: «Marco!» Lo senti dappertutto. Quello è il nome ch'essi danno al tondo metallo e alla carta pesante. In Francia si chiama franco, in Inghilterra scellino, in Italia lira. Marco, franco, scellino, lira sono sempre la stessa cosa. Tutti vogliono dire denaro, denaro e sempre denaro. Il denaro soltanto è il vero dio del Papalagi, ciò che egli venera di più.
D'altra parte nelle terre dei bianchi non ti è neppure possibile restare dal levarsi al cadere del sole senza denaro, del tutto senza denaro. Non riusciresti a placare la tua fame e la tua sete, non troveresti una stuoia per la notte. Ti chiuderebbero in una prigione e metterebbero il tuo nome sui giornali perché sei senza denaro. Devi pagare, cioè dare denaro, per il terreno su cui cammini, per la terra su cui sorge la tua capanna, per la stuoia su cui dormi la notte, per la luce che illumina la tua capanna. Pagare per poter tirare a un piccione, per poter bagnare il tuo corpo nel fiume. Se vuoi andare là dove la gente si diverte, dove si canta o si balla, oppure vuoi chiedere consiglio a un fratello, per ogni cosa devi dare molto metallo rotondo e carta pesante. Devi pagare per ogni cosa. Ovunque, trovi un tuo fratello che allunga la mano e ti disprezza oppure si infuria se non ci deponi del denaro. E il tuo umile sorriso e lo sguardo più affettuoso non ti sono d'aiuto per addolcire il suo cuore. Lui spalancherà le fauci e ti griderà dietro «Miserabile! Vagabondo! Perdigiorno!» Tutte queste parole hanno lo stesso significato e rappresentano la più grande vergogna che possa ricadere su una persona. Sicuro, persino per la tua nascita devi pagare, e quando muori la tua famiglia deve pagare per te, perché sei morto e perché il tuo corpo possa trovare posto sottoterra, come pure per la grande pietra che faranno rotolare sulla tua tomba a eterno ricordo.
Ho trovato una sola cosa per la quale in Europa non viene ancora richiesto denaro e che ciascuno può usare nella quantità che vuole: l'aria da respirare. Credo però che si tratti solo di una dimenticanza, e non esito ad affermare che se in Europa qualcuno udisse queste mie parole, subito penserebbe a far incassare metallo rotondo e carta pesante anche per questo. Poiché tutti gli europei sono continuamente alla ricerca di nuovi motivi per pretendere denaro.
Senza denaro in Europa sei un uomo senza testa, un uomo senza membra. Un niente. Devi avere denaro. Ne hai bisogno per il cibo, per l'acqua da bere, per il sonno. Quanto più denaro possiedi, tanto migliore è la tua vita. Se hai denaro puoi avere in cambio tutto il tabacco che vuoi, gli anelli o i panni più belli. Hai molto denaro? Puoi avere molto. Perciò tutti ne vogliono avere molto. E ciascuno vuole averne di più degli altri. Da qui l'avidità e l'occhio teso al denaro in ogni ora del giorno. Getta un tondo metallo nella sabbia e i bambini vi si lanceranno sopra, lotteranno fra di loro per prenderlo e chi lo afferra e lo tiene, il vincitore, è felice. Ma raramente qualcuno getta denaro nella sabbia.
Da dove viene il denaro? Come puoi arrivare ad avere tanto denaro? Oh, in molte e diverse maniere, facili e difficili. Quando tagli i capelli a un tuo fratello, quando gli strappi le erbacce davanti alla capanna, quando conduci una canoa sull'acqua, quando hai un pensiero importante. Sì, per amore di giustizia va detto: anche se tutto richiede molta carta pesante e metallo rotondo, è anche facile ottenerne per tutto ciò che fai. Basta che tu ti dia da fare, cosa che in Europa si chiama lavorare. «Lavora e avrai denaro», dice una delle regole degli europei.
In ciò regna però una grande ingiustizia, sulla quale il Papalagi non riflette, non vuole riflettere, perché in tal caso dovrebbe ammettere la sua stessa ingiustizia. Non tutti coloro che hanno molto denaro lavorano molto. (Sicuro, tutti vorrebbero avere molto denaro senza però lavorare). E questo succede così quando un bianco guadagna tanto denaro da avere la sua capanna, il suo cibo e la sua stuoia, e oltre a questo anche molte altre cose, subito per il denaro che ha in più fa lavorare il fratello. Per sé. Gli dà per prima cosa il lavoro che ha reso dure e sporche le sue mani. Gli fa portare via gli escrementi che lui stesso ha deposto. Se si tratta di una donna, allora si prende una fanciulla che lavori per lei. E costei deve ripulire le stuoie sporche, lavare le ciotole, pulire le pelli da piedi, accomodare i panni strappati e non deve far nulla che non serva a lei. In questo modo lui o lei hanno tempo per fare altri lavori più lieti, più importanti e più gravi, per i quali viene pagato più denaro, un lavoro che lascia le mani più pulite e i muscoli più contenti. Se è un costruttore di barche, l'altro deve aiutarlo a costruire le barche. Del denaro che costui guadagna dandogli il suo aiuto, e che quindi dovrebbe appartenere a lui solo, l'altro gliene prende una parte, e cioè la parte più grossa, e non appena gli è possibile prende a lavorare per sé due fratelli, e poi tre, e sempre in maggior numero devono lavorare per lui a costruire imbarcazioni, e alla fine sono cento e anche più. Fino a quando lui non ha più niente altro da fare che stendersi sulla sua stuoia, bere kava (bevanda narcotica estratta dalla radice della omonima pianta, n.d.r.) europea e bruciare rotoli di tabacco, poi consegnare le barche finite e farsi portare il metallo o la carta che gli altri hanno guadagnato lavorando per lui. Poi la gente dice: «È ricco». Lo invidiano e lo lusingano in molte maniere e gli dicono parole sonanti, poiché il valore di un uomo nel mondo del bianco non è la sua nobiltà o il suo coraggio o lo splendore del suo pensiero, ma la quantità di denaro, quanto ne può fare in un giorno, quanto ne conserva nella sua grossa cassa di ferro, così pesante che nemmeno un terremoto la può distruggere.
Ci sono molti bianchi che ammucchiano il denaro che altri hanno fatto per loro, lo portano in un luogo ben custodito, ne portano lì sempre di più fino a che non hanno più neppure bisogno di gente che lavori per loro, perché a questo punto è il denaro che lavora per loro. Come ciò sia possibile senza qualche diabolica magia, non sono mai riuscito a saperlo del tutto: ma è vero che il denaro diventa sempre di più, come le foglie di un albero, e che in questi casi l'uomo diventa ricco anche quando dorme.
Ora, quando uno ha molto denaro, molto più della maggior parte degli altri uomini, così tanto che potrebbe con esso rendere il lavoro più facile a cento, mille uomini, lui non dà loro nulla; mette le mani sopra il metallo rotondo e siede sopra la carta pesante e c'è avidità e voluttà nei suoi occhi. E se gli chiedi «Che cosa vuoi fare con tutto quel tuo denaro? Qui sulla terra non puoi fare molto più che rivestirti, placare la tua fame e la tua sete», allora non sa che cosa rispondere, oppure dice: «Voglio averne ancora di più. Sempre di più. E ancora di più»... E, così, ben presto ti avvedi che il denaro lo ha fatto ammalare e che tutti i suoi sensi sono posseduti dal denaro.
È malato e invasato perché ha dato la sua anima al metallo rotondo e alla carta pesante, e non ne ha mai abbastanza e non può smettere di desiderarne sempre di più. Non è più capace di pensare: «Voglio andarmene dal mondo senza molestie e senza ingiustizie, così come ci sono venuto, poiché il Grande Spirito mi ha inviato nel mondo anche senza metallo rotondo e senza carta pesante». Assai pochi pensano a questo. Per lo più restano nella loro malattia, non guariscono mai nel loro cuore e godono del potere che dà il molto denaro. Si gonfiano d'orgoglio come frutti marci sotto le piogge tropicali. Con voluttà lasciano che molti dei loro fratelli facciano i lavori più duri, per poter essi stessi ingrassare nella pigrizia e prosperare. E fanno questo senza che la loro coscienza si ammali. Si vantano delle loro belle dita pallide che ora non si sporcano più. Il pensiero di derubare continuamente gli altri delle loro energie e di usarle per se stessi non li disturba e non toglie loro il sonno. Non pensano affatto di dare agli altri una parte del tanto denaro che hanno, per rendere loro più facile il lavoro e più lieve la fatica.
Così in Europa c'è una metà che deve fare molto lavoro sporco, mentre l'altra metà lavora poco o niente del tutto. La prima metà non ha mai tempo per starsene al sole, la seconda ne ha molto. Il Papalagi dice: «Non tutti gli uomini possono avere ugualmente tanto denaro e mettersi tutti contemporaneamente seduti al sole». Secondo questa dottrina egli si prende il diritto di essere crudele, per amore del denaro. Il suo cuore è duro e il suo sangue freddo, sì, egli mente, inganna, è sempre disonesto e pericoloso quando la sua mano si tende verso il denaro. Spesso un Papalagi ne uccide un altro per denaro. Oppure lo uccide con il veleno delle parole, lo stordisce con esse per rapinarlo. Perciò di rado uno si fida di un altro, perché tutti sono consapevoli della loro grande debolezza. Per questo tu non sai mai se un uomo che ha molto denaro è buono nel fondo del suo cuore, perché potrebbe anche essere molto cattivo. Noi non sappiamo mai come e dove ha preso i suoi tesori.
In compenso però anche l'uomo ricco non sa se l'onore che gli viene fatto si riferisce alla sua persona o al suo denaro. Il più delle volte è rivolto al suo denaro. Perciò io non comprendo perché si vergognano tanto coloro che non hanno molto metallo rotondo e carta pesante e invidiano il ricco, invece di essere loro a farsi invidiare. Perché come non è bene cingersi di troppo pesanti collane di conchiglie, così è per il greve peso del denaro. Esso toglie all'uomo il respiro e alle membra la giusta libertà.
Ma non un solo Papalagi vuol rinunciare al suo denaro. Non uno. Chi non ama il denaro viene ... denso, è stupido. «La ricchezza» (cioè l'avere molto denaro) «rende felici» dice il Papalagi. E ancora: «Il Paese che ha più denaro è il più felice». Noi tutti, voi, illuminati fratelli, siamo poveri. La nostra terra è la più povera sotto il sole. Noi non abbiamo tanto metallo rotondo e carta pesante da riempirne una cassa. Agli occhi del Papalagi siamo poveri mendicanti. Eppure! Quando vedo i vostri occhi e li confronto con quelli del ricco signore, trovo che i suoi sono opachi e spenti e stanchi, mentre i vostri brillano della grande luce, brillano di gioia, forza, vitalità e salute. I vostri occhi li ho trovati solo nei bambini dei Papalagi, prima che imparino a parlare, perché fino a quel momento non sanno ancora nulla del denaro. Quanto siamo stati privilegiati dal Grande Spirito, che ci ha protetti contro il demonio! Il denaro è un demonio, perché tutto ciò che fa è male e fa male. Chi soltanto tocca il denaro, rimane prigioniero del suo incanto, e chi lo ama deve fargli dono di tutte le sue energie e di tutte le sue gioie, fintanto che vive. Amiamo dunque i nostri nobili costumi, che dispregiano l'uomo che chiede una mercede per ogni ospitalità che dà, per ogni frutto che porge. Amiamo i nostri costumi che non sopportano che uno abbia tanto più di un altro o che abbia molto e l'altro nulla di nulla. Affinché nel nostro cuore non diventiamo come il Papalagi, che sa essere lieto e felice anche se il fratello che gli sta accanto è triste e infelice.
Guardiamoci soprattutto dal denaro. Il Papalagi porge ora anche a noi il suo metallo rotondo e la sua carta pesante, per renderci avidi di essi. Essi dovrebbero farci più ricchi e più felici. Già molti di noi ne sono stati accecati e sono caduti in quella grave malattia. Ma se voi credete alle parole del vostro umile fratello, se sapete che vi dico la verità quando affermo che il denaro non rende né più lieti, né più felici, ma piuttosto mette il cuore e tutto l'uomo in grande confusione, che con il denaro non si può mai veramente venire in aiuto di una persona, renderla più lieta o più forte e più felice, allora anche voi comincerete a odiare il tondo metallo e la carta pesante come i peggiori dei vostri nemici.

Le molte cose fanno povero il Papalagi

E anche in questo riconoscerete il Papalagi, perché tenta di convincerci che noi siamo poveri e miserevoli e abbiamo bisogno di molto aiuto e compassione perché non possediamo le cose.
Lasciate che vi dica, miei cari fratelli delle molte isole, che cos'è una cosa. La noce di cocco è una cosa, il panno, la conchiglia, lo scacciamosche, l'anello che porti al dito, la ciotola in cui mangi, gli ornamenti che porti in capo. Tutte queste sono cose. Ma ci sono due generi diversi di cose. Ci sono le cose fatte dal Grande Spirito, senza che noi lo vediamo, e che a noi uomini non costano né denaro, né fatica alcuna, come la noce di cocco, appunto, la conchiglia, la banana; e ci sono cose fatte dagli uomini, che costano lavoro e fatica, come gli anelli, la ciotola o lo scacciamosche. Il signore intende quindi le cose che egli può fare con le sue stesse mani, le cose dell'uomo, e sono queste che ci mancano; poiché non può certo riferirsi alle cose del Grande Spirito. Gettate intorno lo sguardo, fino all'orizzonte, dove l'estremità della terra sostiene l'immensa volta azzurra. Tutto è pieno di grandi cose: la foresta con le sue colombe selvatiche, i colibrì e i pappagalli; la laguna con i suoi frutti, le conchiglie, le aragoste e gli altri animali d'acqua; la spiaggia con il suo volto chiaro e la morbida pelliccia della sua sabbia; la grande acqua, che può mostrarsi irata come un guerriero o sorridere dolcemente come una vergine del villaggio; la grande volta azzurra, che si trasforma a ogni ora del giorno e porta grandi fiori che ci danno luce d'oro e d'argento. Perché dovremmo essere tanto stolti da aggiungere a queste altre cose, da mettere cose dell'uomo accanto a quelle sublimi del Grande Spirito? Non potremmo mai comunque uguagliarlo, poiché il nostro spirito è troppo piccolo e debole di fronte alla potenza del Grande Spirito; e anche la nostra mano è troppo debole in confronto alla sua, grande e possente. Tutto ciò che possiamo fare è soltanto poca cosa e non vale la pena di parlarne. Possiamo rendere più lungo il nostro braccio per mezzo di una clava, possiamo allargare la nostra mano per mezzo di una ciotola di legno, ma non c'è mai stato un samoano e neppure un Papalagi che abbia fatto una palma o una radice di kava.
Naturalmente il Papalagi crede di poter fare queste cose, crede di essere forte come il Grande Spirito. E mille e mille mani non fanno altro che preparare cose, dal levarsi al cadere del sole. Cose dell'uomo, di cui non conosciamo lo scopo, di cui non vediamo la bellezza. E il Papalagi pensa sempre nuove cose, continuamente. Le sue mani tremano di febbre, il suo volto diventa grigio come la cenere e la schiena gli s'incurva; ma lui brilla di gioia quando riesce a costruire una cosa nuova. E subito tutti vogliono avere la cosa nuova, e la ammirano, si mettono davanti a essa e la cantano nella loro lingua.
O miei fratelli, se voi voleste credermi: io sono riuscito a entrare nel pensiero del Papalagi e ho visto la sua volontà, come s'egli fosse illuminato dal sole di mezzogiorno. Poiché là dove egli arriva, distrugge le cose del Grande Spirito, e vuole poi riportare in vita con il proprio potere ciò che uccide, e con ciò far credere a se stesso di essere lui il Grande Spirito perché sa fare tante cose.
Fratelli, pensate se fra un'ora venisse la grande tempesta e sradicasse la foresta e portasse via le montagne con tutti gli alberi e tutte le foglie e trascinasse via con sé tutte le conchiglie e gli animali della laguna e non ci fosse più neppure un fiore di ibisco con cui le nostre fanciulle potessero adornarsi i capelli. Se tutto, tutto ciò che vediamo scomparisse e non restasse altro che sabbia, e la terra somigliasse a una nuda mano tesa o a una collina su cui è scivolata la lava incandescente, come piangeremmo sulle palme, sulle conchiglie, sulla foresta, su tutto. Là dove si trovano le molte capanne del Papalagi, nei luoghi ch'egli chiama città, là però la terra è nuda come una mano tesa, e per questo il Papalagi si smarrisce nella follia e gioca a fare il Grande Spirito: per dimenticare ciò che non possiede. Poiché egli é così povero e la sua terra così triste, afferra le cose, le raccoglie come il pazzo raccoglie le foglie secche e con esse riempie la sua capanna. Per questo però ci invidia e vorrebbe che noi diventassimo poveri come lui.
Grande povertà è quando l'uomo ha bisogno di tante cose: perché così egli dimostra di essere povero di cose del Grande Spirito. Il Papalagi è povero perché desidera tanto ardentemente le cose. Non può vivere senza di esse. Quando con il dorso di una tartaruga si costruisce un arnese per lisciarsi i capelli, quando vi ha messo dell'olio, fa ancora una pelle per l'utensile, una piccola cassa per la pelle e una cassa più grande per quella più piccola. Mette tutto in pelli e in casse. Ci sono casse per panni inferiori e superiori, per panni da lavare, panni da bocca e altri panni, casse per le pelli da mani e per le pelli da piedi, per il metallo rotondo e per la carta pesante, per le provviste di cibo e per il Libro Sacro, per tutto e per ogni cosa. Di tutte le cose ne fa tante, quando una sola basterebbe. Vai in una cucina europea e vedi moltissime ciotole per il cibo e altri strumenti per cucinare che non vengono mai usati. E per ogni cibo c'è una diversa ciotola: una per l'acqua diversa da quella per la kava europea, una per la noce di cocco diversa da quella per la colomba.
Una capanna europea ha tante cose, che se anche tutti gli uomini di un villaggio delle Samoa se ne caricassero completamente le mani e le braccia non basterebbero a portarle tutte. In una sola capanna ci sono un tal numero di cose, che tanti capi bianchi hanno bisogno di molti uomini e donne che non facciano altro che mettere tutte queste cose al loro posto e ripulirle della sabbia. E persino la più nobile vergine consuma molto del suo tempo a contare le molte cose, a sistemarle e a pulirle.
Fratelli, voi sapete che io non mento e vi dico tutto come io in verità ho veduto, senza nulla togliere o aggiungere. Così, credetemi, in Europa ci sono persone che si puntano la canna da fuoco alla fronte e si uccidono perché preferiscono morire piuttosto che vivere senza cose. Poiché il Papalagi inebria in mille maniere il suo spirito e così si convince di non poter vivere senza le cose, come nessun uomo può vivere senza cibo.
Per questo non ho mai trovato in Europa una capanna dove potessi stendermi bene sulla mia stuoia senza che qualcosa urtasse le mie membra quando mi allungavo. Tutte le cose mandavano lampi o gridavano forte con la bocca del loro colore, così che non potevo chiudere gli occhi. Mai riuscii a trovare un giusto riposo e mai provai maggior nostalgia per la mia capanna delle Samoa, nella quale non ci sono cose, se non la mia stuoia e il rotolo per poggiare la testa, e dove nulla arriva all'infuori del dolce aliseo che viene dal mare.
Chi possiede poche cose si considera povero e ne soffre. Non c'è Papalagi che canti e abbia uno sguardo lieto quando non ha nulla all'infuori della sua stuoia e della sua ciotola, come accade a ciascuno di noi. Gli uomini e le donne del mondo bianco piangerebbero di malinconia nelle nostre capanne, si affretterebbero a correre nella foresta per prendere legno e cercare il guscio della tartaruga, vetro, filo di ferro o pietre colorate o molte altre cose ancora, e continuerebbero da mattina a sera a tenere in moto le loro mani, fino a quando la loro casa delle Samoa si fosse riempita di cose grandi e piccole. Tutte cose che facilmente si rompono, che ogni piccolo fuoco e ogni pioggia tropicale possono distruggere e spazzar via, e che devono perciò essere continuamente rifatte.
Quanto più un uomo è un vero europeo, tanto maggiore è il numero delle cose di cui ha bisogno. Per questo le mani del Papalagi non stanno mai ferme, non riposano mai: per il gran fare le cose. Per questo i volti dei bianchi sono spesso così stanchi e tristi, e per questo pochissimi fra di loro arrivano a vedere le cose del Grande Spirito, a giocare sulla piazza del villaggio, a dire e cantare liete canzoni o, nei giorni di sole, a danzare nella luce e a rallegrarsi come a noi tutti è dato di fare. Loro devono fare cose. Devono custodire le loro cose. Le cose stanno loro addosso e strisciano loro intorno come le formichine della sabbia. Compiono con gelido cuore qualsiasi delitto, per ottenere le cose. Si fanno la guerra fra di loro, non per l'onore dell'individuo, o per misurare le loro vere forze, ma solo per amore delle cose.
Tuttavia, tutti loro sanno la grande povertà della loro vita, altrimenti non ci sarebbero tanti Papalagi che godono di grande onore perché passano tutta la loro vita a intingere ciuffi di peli in succhi di ogni colore, e con essi gettano belle immagini su bianche stuoie. Scrivono così tutte le belle cose di Dio, tanto variopinte e liete quanto loro riesce di fare. Con la terra molle danno forma a creature senza panni, fanciulle con i bei movimenti liberi di una vergine del villaggio Matautu, oppure a figure maschili che levano la clava, che tendono l'arco e spiano nella foresta la colomba selvatica. Creature di argilla alle quali il Papalagi costruisce intorno capanne a festa, dove la gente arriva da lontano per contemplarle e godere della loro bellezza e santità. Stanno davanti a esse avvolti fittamente nei loro molti panni e rabbrividiscono. Io ho visto il Papalagi piangere di gioia davanti a tanta bellezza, che lui stesso ha perduto.
Ora gli uomini bianchi vorrebbero portare a noi i loro tesori, perché anche noi diventiamo ricchi delle loro cose. Ma queste cose non sono che frecce avvelenate, di cui si muore quando colpiscono il petto. «Dobbiamo creare loro dei bisogni», ho udito dire da un uomo bianco che conosce bene la nostra terra; e bisogni vuol dire cose. «Allora diventeranno desiderosi di lavorare», diceva ancora quell'uomo sapiente. E intendeva dire che dovremmo impiegare anche noi la forza delle nostre mani per fare le cose. Cose per noi, ma in primo luogo per il Papalagi. Anche noi dobbiamo essere stanchi e grigi e curvi.
Fratelli delle molte isole, dobbiamo vegliare e stare all'erta, perché le parole del Papalagi sembrano dolci banane, ma sono piene di lance segrete che vogliono uccidere in noi la luce e la gioia. Non dimentichiamo mai che a noi occorre ben poco, all'infuori delle cose del Grande Spirito. Egli ci ha dato gli occhi per vedere le sue cose. E ci vuole più di una vita per vederle tutte. E non c'è mai stata menzogna più grande sulle labbra dell'uomo bianco di questa: che le cose del Grande Spirito non sono di utilità mentre le sue sarebbero molto più utili. Le sue cose sono così grandi in numero, che brillano e scintillano, e cercano in mille modi di conquistarci; non hanno però mai fatto un Papalagi più bello nel corpo, né i suoi occhi più brillanti o i suoi sensi più forti. Quindi anche le sue cose non servono a nulla, e dunque ciò che egli dice e vuol spingerci a fare appartiene al cattivo spirito e il suo pensiero è imbevuto di veleno.

Il Papalagi non ha tempo

Il Papalagi ama il metallo rotondo e la carta pesante, ama mettersi nella pancia molto liquido tratto da frutti uccisi e molta carne di maiale e bue e di altri terribili animali, ma sopra ogni cosa ama ciò che non si può afferrare e che pure è sempre presente: il tempo. E di questo fa grande scalpore e sciocche chiacchiere. Sebbene non ce ne sia mai più di quanto ne può stare fra il levarsi e il cadere del sole, lui non ne ha mai abbastanza.
Il Papalagi è sempre scontento del suo tempo e si lamenta con il Grande Spirito perché non gliene ha dato abbastanza. Sì, arriva a bestemmiare Dio e la sua grande saggezza, dal momento che taglia e ritaglia e divide e suddivide ogni nuovo giorno secondo un preciso sistema. Lo taglia proprio come si squarcia con il coltello una molle noce di cocco. E tutte le parti che taglia hanno un nome: secondi, minuti, ore. Il secondo è più piccolo del minuto, questo è più piccolo dell'ora; tutti insieme fanno le ore e bisogna avere sessanta minuti e molti più secondi prima di avere un'ora.
Questa è una faccenda molto complicata, che non sono mai riuscito a comprendere bene, perché mi fa star male rimanere più a lungo del necessario a riflettere su cose così infantili. Ma il Papalagi fa di questo un grande sapere. Gli uomini, le donne e persino i bambini piccoli, che appena si reggono sulle gambe, portano nei loro panni una piccola macchina rotonda appesa a una grossa catena che pende dal collo o è legata a un polso con una striscia di pelle, e in essa sanno leggere il tempo. Questa lettura non è affatto facile. La si insegna ai bambini, tenendo loro la macchina vicino all'orecchio perché si divertano.
Questa macchina, che si può facilmente portare su due dita tese, ha all'interno l'aspetto di una di quelle macchine che stanno nella pancia delle grandi navi, che voi tutti conoscete. Ci sono però anche macchine del tempo grandi e pesanti, che stanno ritte in piedi all'interno di una capanna o sono appese sulla punta più alta della casa e si possono vedere da lontano. Quando è trascorsa una parte del tempo, piccole dita poste sulla parte esterna della macchina lo mostrano, e nello stesso momento la macchina si mette a gridare, come se uno spirito battesse con forza contro il ferro del suo cuore. Sicuro, in una città europea c'è sempre un gran fragore quando è passata una certa parte del tempo.
Quando risuona questo baccano, il Papalagi si lamenta: «È un gran guaio che sia già passata un'ora». Di solito, dicendolo fa una faccia triste, come qualcuno che prova un gran dolore, sebbene dopo quella passata subito arrivi fresca fresca un'altra ora.
Non ho mai capito bene questa cosa e penso appunto che si tratti di una grave malattia. «Il tempo mi sfugge!» «Il tempo corre come un puledro impazzito!» «Dammi un po' di tempo!» Questi sono i lamenti più abituali che si sentono dall'uomo bianco.
Io dico che deve essere una strana sorta di malattia; perché anche supponendo che l'uomo bianco abbia voglia di fare una cosa, che il suo cuore lo desideri veramente, per esempio che voglia andare al sole o sul fiume con una canoa o voglia amare la sua fanciulla, così si rovina ogni gioia, tormentandosi con il pensiero: «Non ho tempo di essere contento». Il tempo è lì ma, con tutta la buona volontà, lui non lo vede. Nomina mille cose che gli portano via il tempo, se ne sta immusonito e lamentoso al suo lavoro che non ha alcuna voglia di fare, che non gli dà gioia e al quale nessuno lo costringe se non se stesso. Ma se poi all'improvviso si avvede di avere tempo, che il tempo è lì, oppure qualcuno gli dà dell'altro tempo (i Papalagi si danno sempre il tempo a vicenda, sicuro, niente è più altamente considerato di questo), allora gli manca di nuovo la voglia oppure è stanco del suo lavoro e senza gioia. E regolarmente vuole fare l'indomani ciò per cui oggi non ha più tempo.
Ci sono Papalagi che affermano di non avere mai tempo. Corrono intorno come dei disperati, come dei posseduti dal demonio e ovunque arrivino fanno del male e combinano guai e creano spavento perché hanno perduto il loro tempo. Questa follia è uno stato terribile, una malattia che nessun uomo della medicina sa guarire, che contagia molta gente e porta alla rovina.
Poiché ogni Papalagi è ossessionato dalla paura di perdere il suo tempo, sa anche molto bene (e non solo lo sa ogni uomo, ma anche ogni donna e ogni bambino piccolo) quanti soli e quante lune si sono levate e sono tramontate dal momento in cui egli ha visto la grande luce per la prima volta. Sicuro, questa è una cosa importante e quindi allo scadere di determinati periodi di tempo, si fanno grandi sacrifici con fiori e grandi banchetti. Quanto spesso mi sono accorto che molti credevano di doversi vergognare per me quando mi domandavano quanti anni avevo e io ridevo e non sapevo rispondere. «Ma devi pur sapere quanti anni hai.» Io tacevo e pensavo «È molto meglio che io non lo sappia».
Che età si ha, quante lune si sono viste. Questi calcoli e queste ricerche sono colme di pericolo, perché con ciò si capisce quante lune dura la vita della maggior parte degli uomini. E così ciascuno di loro sta attentissimo, e quando molte e molte lune sono trascorse, dice: «Dovrò presto morire». Così non ha più gioia e finisce che muore davvero.
Ci sono in Europa soltanto poche persone che hanno veramente tempo. Forse nessuna. Per questo, quindi, la maggior parte di esse corrono per la vita come una pietra che rotola. Tutti o quasi camminano tenendo gli occhi abbassati e dondolando le braccia avanti e indietro per andare più in fretta. Quando si vuole fermarli, gridano arrabbiati: «Perché mi disturbi? Non ho tempo, vedi piuttosto di usare bene il tuo». Fanno proprio come se un uomo che cammina in fretta avesse più valore e fosse più coraggioso di quello che cammina lentamente.
Ho visto un uomo farsi scoppiare la testa, roteare gli occhi e spalancare la bocca come un pesce che sta per morire, diventare rosso e verde e battere le mani e i piedi perché il suo servo era arrivato un momento più tardi di quanto aveva promesso. Quel minuto, lo spazio di un respiro, era per lui una perdita tanto grave che non si sarebbe mai potuta compensare. Il servo dovette abbandonare la sua capanna, il Papalagi lo scacciò e gli gridò «Mi hai rubato abbastanza tempo. Un uomo che non bada al tempo, non è degno di averne».
Una sola e unica volta incontrai un uomo che aveva molto tempo, che non si lagnava mai di averne perduto; ma era povero e sudicio e abbandonato. La gente gli girava al largo e nessuno aveva rispetto di lui. Io non compresi questo modo di fare, perché il suo passo era tranquillo e senza ansia e i suoi occhi avevano un quieto sorriso, silenzioso e gentile. Quando glielo domandai, il suo volto si piegò in una smorfia e disse con tristezza: «Io non ho mai saputo far uso del mio tempo, perciò sono un povero diavolo disprezzato da tutti». Quest'uomo aveva tempo, ma neppure lui era felice.
Il Papalagi impiega tutte le sue energie e consuma tutti i suoi pensieri per rendere sempre più pieno il suo tempo. Utilizza l'acqua e il fuoco, la tempesta, i lampi del cielo, tutto per trattenere il tempo. Si mette delle ruote di ferro sotto i piedi e dà ali alle sue parole, sempre per avere più tempo. E perché tutta questa gran fatica? Che cosa ne fa alla fine il Papalagi del suo tempo? Non sono mai riuscito a capirlo del tutto, sebbene lui faccia sempre tante parole e tanti gesti come se il Grande Spirito lo avesse invitato a un ricevimento.
Io credo che il tempo gli sfugga come una serpe sfugge da una mano bagnata, proprio perché lui cerca di tenerlo così stretto. Non gli lascia modo di riprendersi. Gli sta appresso e gli dà letteralmente la caccia con le mani tese, non gli consente alcuna sosta perché possa stendersi al sole. Il tempo deve essergli sempre accanto, deve dirgli e cantargli qualcosa. Ma il tempo è silenzioso e ama la pace e la calma e lo stare distesi su una stuoia. Il Papalagi non ha compreso il tempo, non lo riconosce per quello che è e perciò lo maltratta in quel modo con i suoi rozzi costumi.
O miei cari fratelli! Noi non ci siamo mai lamentati del tempo, lo abbiamo sempre amato; quando veniva non gli siamo mai corsi appresso, non abbiamo mai voluto né costringerlo né disfarlo. Per noi non è mai stato fonte di pena o di fastidio. Si faccia avanti quello fra noi che non ha tempo! Ciascuno di noi ha tempo in quantità; ma noi però siamo anche contenti e soddisfatti di lui, non ce ne occorre più di quanto ce ne è dato e ne abbiamo sempre quanto basta. Sappiamo di arrivare sempre abbastanza in tempo alle nostre mete e sappiamo anche che il Grande Spirito ci chiama secondo la sua volontà, anche se non abbiamo contato il numero delle nostre lune. Dobbiamo liberare il povero, smarrito Papalagi dalla sua follia, dobbiamo ridargli il suo tempo. Dobbiamo distruggere la sua piccola macchina del tempo e annunciargli che dal levarsi al calare del sole c'è molto più tempo di quanto un uomo può aver bisogno.

Il Papalagi ha impoverito Dio

Il Papalagi ha una maniera di pensare curiosa e stranamente contorta. Pensa sempre come meglio trarre profitto da qualcosa e averne ragione. Soprattutto pensa solo per uno e non per tutti gli uomini. E questo uno è egli stesso.
Quando un uomo dice: «La mia testa è mia e non appartiene ad altri che a me», allora per lui è veramente così e nessuno può avere qualcosa da ridire. Nessuno ha maggior diritto alla propria mano destra che il possessore di quella mano.
Fin qui do al Papalagi tutte le ragioni. Ma lui dice anche: «La palma è mia». Solo perché cresce proprio davanti alla sua capanna. Come se l'avesse fatta crescere lui stesso. La palma però non è affatto sua. Mai. È la mano di Dio che l'ha fatta uscire dalla terra. Dio ha molte mani. Ogni albero, ogni fiore, ogni filo d'erba, il mare, il cielo, le nuvole che in cielo camminano, tutto questo sono le mani di Dio. Noi possiamo afferrare queste cose e goderne, ma non possiamo dire... «La mano di Dio è la mia mano». Il Papalagi però lo fa.
«Lau» si chiama nella nostra lingua il mio e il tuo, ed è quasi una sola e unica cosa. Nella lingua del Papalagi non ci sono parole che significhino due cose ben diverse meglio de... «il mio» e «il tuo». Mio è tutto ciò che appartiene solo e unicamente a me. Tuo è ciò che appartiene solo e unicamente a te. Per tale ragione, di tutto ciò che sta nella cerchia della sua capanna il Papalagi dice: «È mio». E nessuno ha diritto su queste cose all'infuori di lui. Quando vai da un Papalagi e presso di lui vedi qualcosa, un frutto, un albero, un'acqua, un bosco, un mucchio di terra, subito egli dice: «Questo è mio. Guardati dal toccare ciò che è mio!» Ma se tu lo fai ugualmente, allora si mette a gridare, ti chiama ladro, una parola che rappresenta una grande vergogna, e questo soltanto perché hai osato toccare un «mio» del tuo prossimo. Accorrono i suoi amici e i servi del grande capo, ti mettono in catene e ti conducono nella fale pui pui e tu sei messo al bando per tutta la vita.
Perché uno non abbia a prendere le cose che sono dell'altro, questo, e cioè il ciò che è mio e il ciò che è tuo, è accuratamente regolato da leggi speciali. E in Europa ci sono persone che non fanno altro che badare a che nessuno trasgredisca queste leggi, che al Papalagi nulla venga portato via di ciò ch'egli ha fatto suo. Con questo il Papalagi vuol dare a vedere di avere un reale diritto su queste cose, come se Dio stesso gli avesse concesso ciò che possiede per tutti i tempi. Come se davvero la palma, l'albero, il fiore, il mare, il cielo con le sue nuvole gli appartenessero.
Il Papalagi deve fare queste leggi e deve avere tutti questi difensori per il suo molto «mio», affinché coloro che hanno poco o nessun «mio» non prendano dal suo «mio». Poiché là dove molti prendono molto per sé, ci sono anche molti che hanno le mani vuote. Non tutti conoscono le astuzie e i modi segreti per giungere a molto «mio» e occorre uno speciale coraggio per questo, che non sempre si concilia con ciò che noi chiamiamo onore. E può anche ben darsi che coloro che hanno le mani vuote, perché non vogliono offendere Dio e non vogliono portargli via nulla, siano i migliori fra i Papalagi. Ma di questi sicuramente ce ne sono pochissimi.
La maggior parte deruba Dio senza vergogna. Non conoscono altro modo di vivere. Spesso non sanno neppure di fare qualcosa di male; appunto perché tutti fanno così, non ci fanno più caso e non provano alcuna vergogna. Molti ricevono anche molto «mio» dalle mani del padre, al momento in cui vengono al mondo. In ogni modo Dio non ha quasi più nulla, gli uomini gli hanno portato via quasi tutto per farne il mio e il tuo. Egli non può più dare il suo sole che è destinato a tutti, non può più darlo a tutti in parti uguali, perché alcuni ne vogliono più di altri. Sulle belle piazze assolate spesso siedono soltanto pochi, mentre gli altri molti nell'ombra carpiscono solo qualche raggio stentato. Dio non può più provare una vera gioia perché non è più il grandissimo signore nella sua grande casa. Il Papalagi lo rinnega in quanto dice: «Tutto è mio». Ma a tanto non arriva il suo ragionamento, sebbene passi molto tempo a pensare. Al contrario, egli dichiara il suo fare equo e giusto. Invece è iniquo e ingiusto davanti a Dio.
Se il Papalagi pensasse in modo giusto, dovrebbe anche sapere che nulla ci appartiene di ciò che non possiamo tenere stretto. E che in effetti noi non possiamo tenere stretto nulla. In tal caso comprenderebbe anche che Dio ha dato la sua grande casa perché tutti in essa trovino posto e gioia. E questo posto sarebbe anche abbastanza grande perché ciascuno trovi un angolino di sole e una piccola gioia, e perché ciascuno abbia una piccola ombra di palma e un posticino su cui posare i piedi. Come Dio vuole e ha stabilito. Come potrebbe del resto Dio aver dimenticato anche uno solo dei suoi figli! Eppure quanti sono coloro che ancora cercano l'angolino a loro destinato.
Poiché il Papalagi non ascolta il comandamento di Dio e vuol farsi da sé le proprie leggi, Dio gli manda molti nemici della sua proprietà. Manda l'umidità e la calura a distruggere il suo «mio», gli manda la vecchiaia, la dissoluzione. Dà potere sopra i suoi beni anche al fuoco e alla tempesta. Ma soprattutto Egli depone nell'animo del Papalagi la paura. L'aver paura per ciò che ha preso per sé. Il sonno del Papalagi non è mai del tutto profondo perché deve star sveglio affinché di notte nulla gli venga portato via di ciò che egli stesso ha messo insieme durante la giornata. Deve sempre avere le mani e i sensi tesi a controllare il suo «mio». E come tutto quel «mio» lo tormenta continuamente e si prende gioco di lui e gli dice: «Poiché tu mi hai portato via a Dio, per questo io ti tormento e ti procuro molte sofferenze»!
Ma Dio ha dato al Papalagi ben più gravi castighi che la sua paura. Gli ha dato la lotta fra coloro che hanno soltanto un piccolo o addirittura nessun «mio» e coloro che si sono presi un grande «mio». Questa lotta è dura e spietata e continua sempre, giorno e notte. È la lotta di cui tutti soffrono, che a tutti toglie la gioia della vita. Coloro che hanno devono dare, ma non vogliono dare. Coloro che non hanno nulla vogliono anche loro avere, ma non ricevono nulla. Questi però sono raramente in disaccordo con Dio. In primo luogo sono arrivati troppo tardi per rubare o sono stati troppo maldestri o è mancata loro l'occasione. Che Dio sia il derubato, questo sono solo in pochissimi a pensarlo. E solo ben di rado si ode il richiamo di un uomo giusto, che invita a rimettere tutto nelle mani di Dio.
O fratelli, che cosa ne pensate di un uomo che ha una capanna, grande abbastanza da contenere un intero villaggio delle Samoa, e non dà al viandante un tetto per la notte? Che cosa pensate di un uomo che tiene in mano un grappolo di banane e non dà un solo frutto a colui che è affamato e lo prega? Io vedo l'ira nei vostri occhi e il grande disprezzo sulle vostra labbra. Così pensate: ...«Questo è il fare del Papalagi a ogni ora. E anche se ha cento stuoie, non ne dà una a chi non ne ha. Al contrario, fa piuttosto all'altro una colpa di non averla. Può avere la sua capanna colma di provviste di cibo fin sotto la punta più alta del tetto, molte, molte di più di quelle che la sua famiglia può consumare in un anno, ma non andrà a cercare coloro che non hanno da mangiare, che sono pallidi e affamati. E ci sono molti Papalagi pallidi e affamati.
La palma dà le sue foglie e i suoi frutti quando sono maturi. Il Papalagi vive come se la palma volesse tenersi stretti i suoi frutti e le sue foglie. «Sono mie! Non dovete averne e non dovete mangiarne.» Come potrebbe una tale palma portare nuovi frutti? La palma possiede assai maggior saggezza di un Papalagi.
Anche fra di noi ci sono molti che hanno più degli altri e noi rendiamo onore al capo che ha molte stuoie e molti maiali. Questo onore però è riservato a lui e non alle stuoie e ai maiali. Perché questi li abbiamo dati noi a lui come dono, per mostrargli la nostra gioia e per rendere omaggio al suo grande valore e alla sua saggezza. Il Papalagi invece onora nel proprio fratello le molte stuoie e i molti maiali, non gli importa nulla del suo valore e della sua saggezza. Un fratello senza stuoie o senza maiali ha per lui ben poco onore o addirittura nessuno.
Ma poiché le stuoie e i maiali non possono andare da soli verso i poveri e gli affamati, il Papalagi non vede neppure una buona ragione per portarli lui stesso ai suoi fratelli. Perché egli non onora il fratello, ma le stuoie e i suoi maiali.
Se amasse il fratello e lo onorasse e non fosse sempre in lotta con lui per il «mio» e il «tuo», allora gli porterebbe le stuoie, perché anche lui possa aver parte del suo grande «mio». Dividerebbe con lui la sua stessa stuoia, invece di gettarlo fuori nella notte buia.
Ma il Papalagi non sa che Dio ci ha dato la palma, le banane, il delizioso taro, tutti gli uccelli della foresta e tutti i pesci del mare affinché tutti ne possiamo godere ed essere felici. Ma questo non è solo per pochi, mentre altri soffrono nella fame e nella miseria. Colui al quale Dio mette molto nella mano, deve darne al fratello, affinché il frutto non gli marcisca nella mano. Poiché Dio porge a tutti gli uomini le sue molte mani; non vuole che uno abbia più degli altri in maniera disuguale o che uno dica «Io sto al sole, tu devi restare all'ombra». Noi tutti abbiamo lo stesso diritto al sole.
Là dove Dio tiene tutto nella sua giusta mano, non c'è lotta né miseria. L'astuto Papalagi può raccontarci: «Nulla appartiene a Dio! Tutto ciò che puoi tenere nelle mani appartiene a te solo!»

Il Grande Spirito è più forte della macchina

Il Papalagi fa molte cose che noi non sappiamo fare, che non comprenderemo mai, che per la nostra mente non sono che pietre pesanti... Cose per le quali non proviamo grande desiderio, ma che possono mettere in grande stupore i più deboli fra noi e porli in falsa umiltà. Perciò osserviamo senza vergogna o timore le meravigliose arti del Papalagi.
Il Papalagi ha il potere di tramutare ogni cosa in sue lance e in sue clave. Si prende il lampo, il fuoco e l'acqua e li sottomette alla sua volontà. Li rinchiude e dà loro ordini. E loro ubbidiscono. Queste forze sono i suoi più forti guerrieri. Egli conosce il grande segreto di rendere il lampo accecante ancor più rapido e luminoso, il caldo fuoco ancor più caldo, l'acqua veloce ancor più veloce.
Il Papalagi pare davvero essere colui che ha bucato il cielo, il messaggero di Dio, poiché domina il cielo e la terra a suo piacimento. È pesce e uccello e verme e cavallo nello stesso tempo. Passa sotto i più grandi fiumi d'acqua dolce. Scivola fra rocce e montagne. Si lega ruote di ferro sotto i piedi e corre più veloce del più veloce destriero. Si solleva nel cielo. Sa volare. L'ho visto muoversi sull'acqua come un gabbiano. Possiede una grande canoa con la quale può viaggiare sull'acqua e ha anche una canoa per viaggiare sotto il mare. E con un'altra canoa viaggia da nuvola a nuvola.
Cari fratelli, io rendo testimonianza della verità con le mie parole e voi dovete credere al vostro servo, anche se le vostre menti conoscono dubbi su ciò che io vi annuncio. Poiché grandi e ammirevoli sono le cose del Papalagi e io temo che ci siano molti fra di noi che potrebbero sentirsi deboli davanti a tanto potere. E da dove potrei cominciare se volessi raccontarvi tutto ciò che i miei occhi hanno visto con grande stupore?
Voi tutti conoscete la grande canoa che il bianco chiama piroscafo. Non è forse come un grandissimo, possente pesce? Come è possibile ch'esso navighi da isola a isola più velocemente di quanto il più forte dei nostri giovani rematori sa fare con una canoa? Avete visto alla sua estremità la grande pinna della coda quando è in movimento? Essa si muove e si piega esattamente come quella dei nostri pesci nella laguna. Questa grande pinna spinge avanti la grande canoa. E come questo sia possibile, è il grande segreto del Papalagi. Il segreto è nella pancia del grande pesce. Là sta la macchina che dà alla grande pinna la grande forza. La macchina, è questa che racchiude in sé la grande forza. Una forza che un uomo non potrebbe mai avere.
La macchina è l'arma più potente del Papalagi. Dategli il più robusto albero di ifi della giungla: la mano della macchina abbatte il tronco, come una madre spezza il frutto di taro per darlo ai suoi bambini. La macchina è la più grande meraviglia d'Europa. La sua mano è forte e non si stanca mai. Se vuole taglia cento, mille tanoe in un giorno. L'ho vista tessere panni, così fini e delicati come quelli usciti dalle mani più delicate di una giovane vergine. Lavorava dalla mattina a notte fonda. Sputava panno, fino a che ne aveva fatto un mucchio alto quanto una collina. Miserevole e pietosa è la nostra forza in confronto alla forza possente della macchina.
Il Papalagi è un mago. Canti una canzone, e lui raccoglie il tuo canto e te lo ridà in qualunque momento lo vuoi sentire. Ti mette davanti una lastra di vetro e ci imprigiona la tua immagine. E te la rifà mille volte, tutte le volte che vuoi.
Ma ho visto magie ben più grandi di questa. Vi ho detto che il Papalagi afferra i lampi del cielo. Lui li afferra e la macchina li deve divorare e distruggere, e di notte li sputa di nuovo in mille stelle, stelline, lucciole e minuscole lune. Per lui sarebbe cosa da nulla cospargere durante la notte le nostre isole di luce, così che possano essere chiare e luminose come di giorno. Spesso manda fuori di nuovo i lampi per suo uso e ordina loro la strada e dà loro notizie da portare a fratelli lontani. E i lampi gli ubbidiscono e portano con sé le notizie.
Il Papalagi ha rafforzato tutte le sue membra. Le sue mani arrivano oltre i mari e fino alle stelle e i suoi piedi superano il vento e le onde. Il suo orecchio ode ogni sussurro a Savaii e la sua voce ha ali come un uccello. Il suo occhio vede nella notte. Vede anche dentro il suo corpo, come se la sua carne fosse trasparente come l'acqua, e vede ogni sporcizia sul fondo di questa acqua.
Tutto ciò di cui sono stato testimone e che vi racconto è soltanto una piccola parte di quello che i miei occhi hanno potuto vedere con grande ammirazione. E, credetemi, l'ambizione del bianco di compiere sempre nuovi miracoli è grande, e a migliaia essi stanno alzati a pensare nella notte e studiano come possono riportare una nuova vittoria su Dio. Perché questa è la verità: il Papalagi vorrebbe vincere Dio. Vorrebbe abbattere il Grande Spirito e prendere egli stesso le sue forze e i suoi poteri. Ma ancora Dio è più forte e più potente del più grande dei Papalagi e delle sue macchine e ancora è Lui che decide chi di noi e quando deve morire.
Ancora il sole, l'acqua e il fuoco servono in primo luogo Lui, Dio. E ancora nessun bianco ha potuto decidere quando deve salire la luna o ha saputo dirigere i venti a sua volontà.
Fintanto che ciò rimane così quei miracoli sono poca cosa. E debole è colui fra di noi, o fratelli, che si sottomette a questi miracoli dei Papalagi; che adora il bianco per i suoi miracoli e per le sue opere e si dichiara per questo povero e indegno, perché le sue mani e il suo spirito non sanno fare le stesse cose. Poiché per quanto tutte le meraviglie dei Papalagi possano colmarci di stupore, osservate alla limpida luce del sole, esse significano poco più che l'intaglio di una clava e l'intreccio di una stuoia, e ogni suo fare assomiglia solo al gioco di un bambino nella sabbia. Poiché non c'è nulla, che il bianco ha fatto, che possa anche solo lontanamente uguagliare i miracoli del Grande Spirito.
Splendide e possenti e ben decorate sono le capanne dei grandi signori, che essi chiamano palazzi; e ancor più belle le alte capanne che essi hanno eretto in onore di Dio, che spesso si levano più alte delle cime del monte Tofua. Tuttavia ciò è rozzo e grossolano e senza il caldo sangue della vita in confronto a un semplice arbusto di ibisco con la sua fioritura color del fuoco; in confronto alla cima svettante di ogni palma o a una foresta dei nostri coralli, ebbra di forme e di colori. Mai finora il Papalagi ha intessuto un panno così fine come Dio tesse in ogni ragnatela, e mai una macchina ha lavorato in modo così sottile e abile come la più piccola formichina della sabbia che vive nelle nostre capanne.
Il bianco vola sulle nuvole come un uccello, ve l'ho detto. Ma i grandi gabbiani volano ancora più alti e più veloci dell'uomo e in tutte le tempeste, e le ali nascono dal loro corpo, mentre le ali del Papalagi sono soltanto un inganno e si possono spezzare facilmente e farlo cadere.
Così tutti i suoi miracoli hanno dunque una piccola, nascosta imperfezione; e non c'è macchina che non abbia bisogno di un custode e di qualcuno che l'aiuti a muoversi. E ciascuna porta dentro di sé la sua segreta maledizione. Poiché anche se la forte mano della macchina fa tutto, essa consuma con il suo lavoro anche l'amore che si nasconde in ogni cosa che esce dalle nostre mani.
Che cosa varrebbe per me una canoa o una clava tagliata dalla macchina, un oggetto freddo e senza sangue che non sa parlare del suo lavoro, che non sa sorridere quando è finito e che non posso portare alla madre o al padre perché se ne rallegrino? Come posso amare la mia tanoa come l'amo, se una macchina me la potesse rifare in ogni momento senza che io vi metta mano? Questa è la grande maledizione della macchina: che il Papalagi non ama più nulla, perché può sempre rifare subito ogni cosa. Per accogliere i suoi miracoli privi di amore, egli deve nutrirli del proprio cuore.
Il Grande Spirito vuole decidere esso stesso le forze del cielo e della terra e distribuirle secondo il suo giudizio. Questo non è mai concesso all'uomo.
Non impunemente il bianco tenta di fare di se stesso pesce e uccello, cavallo e verme. E il guadagno è molto più piccolo di quanto egli stesso osi confessarsi.
Quando io cavalco attraverso un villaggio, arrivo certo più in fretta; ma quando vado a piedi, vedo di più, e gli amici mi chiamano nelle loro capanne. Arrivare veloci a una meta è di rado un vero vantaggio. Il Papalagi vuole sempre arrivare in fretta alla meta. La maggior parte delle sue macchine servono solo allo scopo di arrivare più in fretta. È giunto alla meta e già un'altra lo chiama. E così il Papalagi passa nella vita senza un momento di riposo, dimentica sempre più la gioia di camminare e di vagabondare e la letizia del muoversi verso la meta che ci viene incontro, che non andiamo a cercare.
Perciò io vi dico: la macchina è un bel giocattolo dei grandi bambini bianchi e tutte le sue arti non ci devono spaventare. Il Papalagi non ha ancora costruito una macchina che lo preservi dalla morte. Non ha ancora fatto niente che sia più grande di ciò che Dio fa in ogni ora. Tutte le macchine e le altre sue arti e magie non hanno ancora prolungato la vita di un uomo, non lo hanno neppure reso più lieto e felice. Teniamoci perciò alle meravigliose macchine e alle grandi arti di Dio e disprezziamo il bianco quando gioca a fare Dio.

Del mestiere del Papalagi e di come egli in esso si smarrisce

Ogni Papalagi ha un mestiere. È molto difficile spiegare che cosa sia un mestiere. È qualcosa che si dovrebbe aver voglia di fare, ma il più delle volte non se ne ha. Avere un mestiere vuol dire fare sempre, ogni giorno, la stessa cosa. Farla così spesso da poterla fare a occhi chiusi e senza alcuno sforzo. Se io con le mie mani non faccio altro che costruire capanne o intrecciare stuoie, costruire capanne o intrecciare stuoie diventa il mio mestiere.
Ci sono mestieri maschili e mestieri femminili. Lavare biancheria nella laguna o tirare a lucido le pelli da piedi sono mestieri femminili, guidare una imbarcazione in mare e sparare agli uccelli nella foresta sono mestieri maschili. Nella maggior parte dei casi la donna rinuncia al suo mestiere quando si sposa. L'uomo, al contrario, comincia proprio allora a farlo con maggior lena.
Ogni signore dà sua figlia solo a un pretendente che abbia un buon mestiere. Un Papalagi senza mestiere non si può sposare. Ogni uomo bianco quindi può e deve avere un mestiere. Per questa ragione ogni Papalagi, molto prima che venga il momento di farsi tatuare, deve decidere quale lavoro vuol fare per tutta la vita. Questo lo chiamano: scegliere una professione. Si tratta di una cosa molto importante e la famiglia ne parla tanto come di ciò che vuol mangiare il giorno seguente. Se vuole iniziare il mestiere di intrecciatore di stuoie, allora il signore anziano porta il giovane signore da un uomo che non fa altro che intrecciare stuoie. Quest'uomo deve spiegare al giovane come si intreccia una stuoia. Deve insegnargli a farlo così bene da poterlo fare a occhi chiusi. Spesso per questo ci vuole molto tempo, ma non appena ha imparato il giovane lascia l'uomo, e allora si dice che ha imparato il mestiere.
Quando il Papalagi, più avanti nella vita, si avvede che preferirebbe costruire capanne invece che intrecciare stuoie, allora si dice che ha sbagliato mestiere, che in altre parole vuol dire ha mancato il bersaglio. Questo è un grande dolore, perché è contro i buoni costumi mettersi a fare un altro mestiere; è contro l'onore del buon Papalagi dire: «Questo non lo so fare, non ne ho voglia», oppure «Le mie mani non mi vogliono ubbidire».
Il Papalagi ha tanti mestieri quante sono le pietre della laguna. Di ogni cosa che si può fare, lui fa un mestiere. Se uno raccoglie le foglie avvizzite dell'albero del pane, questo è il suo mestiere. Se pulisce le stoviglie, anche questo è u n mestiere. Mestiere è tutto ciò che deve essere fatto con le mani o con la testa. Mestieri sono anche avere dei pensieri nella testa o osservare le stelle. Non c'è nulla in effetti che un uomo possa fare, di cui il Papalagi non faccia un mestiere.
Quindi quando il bianco dice: «Io sono un impiegato», questo è il suo mestiere; vuol dire che lui non fa altro che scrivere una lettera dopo l'altra. Non arrotola la sua stuoia sulla trave non va in cucina ad arrostirsi un frutto, non lava la sua ciotola. Mangia pesce ma non va a pescare, mangia frutti ma non coglie un frutto dall'albero. Scrive una lettera dopo l'altra; l'impiegato è appunto il suo mestiere. Esattamente come ogni cosa in sé può essere un mestiere deporre le stuoie sulla trave, arrostire frutti, pulire ciotole, pescare pesci o cogliere frutti. Solo il mestiere dà all'uomo il pieno diritto al suo fare.
Così succede che la maggior parte dei Papalagi sanno fare soltanto quello che è il loro mestiere, e il più grande capo, che ha molta saggezza in testa e molta forza nel braccio, non è capace di deporre la sua stuoia sulla trave o di pulire la sua ciotola. E così succede anche che colui che è capace di scrivere una lettera di molti colori deve per forza non essere capace di portare al largo nella laguna una canoa, o viceversa. Avere un mestiere vuol dire: solo camminare, solo assaggiare, solo combattere; insomma: saper fare solo una cosa..........
In questo saper-fare-solo-una-cosa vi sono una grande manchevolezza e un grande pericolo, poiché a ciascuno può capitare di trovarsi una volta fuori nella laguna e dover guidare una canoa. Il Grande Spirito ci ha dato le mani perché possiamo cogliere i frutti dagli alberi, per prendere dalla palude le radici del taro. Ce le ha date per proteggere il nostro corpo e difenderlo da tutti i nemici. e ce le ha certamente date per la nostra gioia nella danza e nel gioco e negli altri piaceri. Ma non ce le ha certamente date per la nostra gioia nella danza e nel gioco e negli altri piaceri. Ma non ce le ha certamente date solo perché costruissimo capanne, o cogliessimo frutti, o strappassimo tuberi; esse devono essere al nostro servizio in ogni momento e in tutte le occasioni.
Questo però il Papalagi non lo comprende. Ma che il suo modo di fare è sbagliato, profondamente sbagliato e contro tutti i comandamenti del Grande Spirito, lo comprendiamo dal fatto che ci sono dei bianchi che non sanno più camminare; che mettono su pancia come un maiale, perché devono sempre star fermi a causa del loro mestiere; che non sanno più sollevare o gettare una lancia, perché le loro mani sanno tenere solo l'osso per scrivere, sedere all'ombra e non fare altro che scrivere lettere; che non sanno più guidare un puledro, perché devono contemplare le stelle o spremersi pensieri dalla testa.
Raramente un Papalagi adulto è ancora in grado di saltare e correre come un bambino. Cammina trascinando il corpo e si muove come se fosse sempre impedito. Maschera e rinnega questa debolezza dicendo che correre e saltare non sono cose adatte a un uomo della sua dignità. Ma questo è un motivo ipocrita, perché le sue ossa sono indurite e inabili e tutti i suoi muscoli hanno perso la loro gioia, perché il mestiere li ha condannati al sonno e alla morte. Anche il mestiere è un demone che distrugge la vita. Un demone che offre all'uomo belle menzogne, ma che gli succhia il sangue dal corpo. Inoltre il mestiere danneggia il Papalagi anche in un altro modo e si rivela demone anche per un altro aspetto.
È una gioia costruire una capanna: abbattere gli alberi nel la foresta e tagliarli per farne dei pali, poi infiggere i pali nel terreno, intrecciarvi sopra il tetto e alla fine, quando i pali e le travi e tutto quanto è ben legato con i fili di cocco, ricoprire ogni cosa con le foglie secche della canna da zucchero. Non occorre che vi dica quale grande gioia è quando un intero villaggio ha costruito la capanna del capo e persino le donne e i bambini prendono parte alla grande festa.
Ma che cosa direste se solo pochi uomini del villaggio potessero andare nella foresta per tagliare gli alberi per farne dei pali? E se questi pochi non potessero poi aiutare a piantare i pali, perché il loro mestiere è soltanto abbattere gli alberi? E se quelli che hanno piantato i pali nel terreno non potessero aiutare a intrecciare il tetto, perché il loro mestiere è solo piantare pali? E se quelli che intrecciano il tetto non potessero poi ricoprirlo di fogliame, perché il loro mestiere è soltanto intrecciare il tetto? In tal caso nessuno di tutti questi potrebbe dare una mano a raccogliere la ghiaia fine della spiaggia per fare il pavimento della capanna, perché questo lo potrebbero fare soltanto coloro che portano ghiaia per mestiere. E allora a inaugurare la nuova capanna e a fare la grande festa dovrebbero essere soltanto quelli che ci devono abitare, non tutti coloro che l'hanno costruita.
Voi ridete e certamente direste: «Se di noi soltanto uno e non tutti insieme potessimo lavorare, e se non potessimo aiutare in ogni lavoro per il quale occorra la forza dell'uomo, allora la nostra gioia sarebbe solo metà, anzi, non sarebbe gioia affatto». E voi certamente chiamereste pazzo colui che pretende di avere da voi la vostra mano per un solo scopo, come se tutte le altre membra e i sensi del vostro corpo fossero paralizzati o morti.
Da qui viene quindi al Papalagi la sua grande infelicità. È bello andare una volta al ruscello a prendere l'acqua, è bello anche farlo parecchie volte in un giorno; ma se uno dal levarsi al calare del sole non dovesse fare altro che prendere acqua al ruscello, e questo tutti i giorni e ogni giorno tutte le ore, fino a che le sue forze lo consentono, sempre e continuamente, alla fine costui verrebbe colto dall'ira e scaglierebbe il secchio lontano da sé, infuriato per le catene che legano il suo corpo. Poiché nulla è così pesante per l'uomo come fare continuamente la stessa cosa.
Ci sono però dei Papalagi che non raccolgono solo acqua giorno dopo giorno sempre alla stessa fonte (questo potrebbe ancora essere un grande piacere), no, vi sono anche quelli che solo alzano una mano o l'abbassano oppure la spingono contro un bastone, e questo in un luogo sporco, senza luce e senza sole; che non fanno nulla che sia prova di forza e dia qualche gioia, gente che dal pensiero del Papalagi è costretta a levare o abbassare la mano oppure batterla contro una pietra, perché con ciò si mette in moto o si regola una macchina che taglia anelli bianchi o insegne da petto o conchiglie da calzoni o qualche altra cosa. In Europa ci sono più uomini di quante palme ci siano nelle nostre isole i cui volti sono grigi come la cenere, perché non conoscono gioia alcuna nel loro lavoro, perché il mestiere divora ogni piacere e dal loro lavoro non nasce alcun frutto, neppure una foglia di cui poter gioire.
E per questo negli uomini cova un odio cocente per il proprio mestiere. Tutti hanno nel cuore una qualche cosa, come un animale che è tenuto alla catena e si ribella e vuol liberarsi e non vi riesce. E tutti confrontano i loro mestieri gli uni con gli altri, e sono pieni di invidia e di malcontento, e si parla di mestieri più elevati e più bassi, sebbene tutti i mestieri siano soltanto un fare a metà. Perché l'uomo non è soltanto mano o piede o soltanto testa; tutto in lui è unito. Mano, piede, testa vogliono stare insieme. Quando tutte le membra e i sensi lavorano insieme, solo allora il cuore dell'uomo può godere in sana letizia; mai però quando solo una parte dell'uomo vive e le altre devono essere come morte. Questo porta l'uomo allo smarrimento, alla disperazione e alla malattia.
Il Papalagi vive nello smarrimento a causa del suo mestiere. Per la verità, non vuole saperlo e sicuramente, se mi sentisse raccontare tutto questo, vorrebbe dichiararmi pazzo, come colui che vuole essere giudice e che però non può giudicare, perché lui stesso non ha mai avuto un mestiere e neppure ha mai lavorato come un europeo.
Ma il Papalagi non ci ha portato mai la verità né la spiegazione del perché noi dovremmo lavorare più di quanto Dio può chiederci di fare per saziare la fame, avere un tetto sopra la testa e trovare gioia e piacere alla festa sulla piazza del villaggio. Piccolo può sembrare questo lavoro, e la nostra esistenza può apparire povera di mestieri. Ma colui che è uomo giusto e fratello delle molte isole fa con gioia il suo lavoro, mai con sofferenza. Piuttosto non lo fa. E questo è ciò che ci distingue dai bianchi. Il Papalagi sospira quando parla del suo lavoro, come se fosse oppresso da un peso. I giovani delle Samoa vanno cantando nel campo di taro; cantando le giovani donne lavano i panni nei ruscelli. Il Grande Spirito non vuole certamente che diventiamo grigi nel nostro mestiere e strisciamo come lumache nella laguna. Egli vuole che restiamo ben ritti e fieri in tutto il nostro fare, e sempre uomini con occhi lieti e membra sciolte.

Del luogo della falsa vita e delle molte carte

Molto, miei cari fratelli del grande mare, molto avrebbe da raccontarvi il vostro umile servo, per darvi un'idea della verità sull'Europa. Per far questo, il mio discorso dovrebbe essere come un ruscelletto di montagna che scorre dalla mattina alla sera, e ancora la verità non sarebbe completa, perché la vita del Papalagi è come il mare di cui non si può vedere con precisione l'inizio e la fine. Essa ha altrettante onde quante la grande acqua, rugge e infuria, sorride e sogna.
Come un uomo non potrà mai svuotare il mare con il cavo della mano, così io non posso portare a voi il grande mare dell'Europa con il mio piccolo spirito.
Ma per questo non voglio tralasciare di riferirvi che, come il mare non può essere senz'acqua, così la vita dell'Europa non può esistere senza il luogo della falsa vita e senza le molte carte. Portate via queste due cose al Papalagi e allora lui sarà come un pesce che l'onda ha sbattuto sulla riva non può far altro che sussultare con tutte le sue membra, ma non può più nuotare e muoversi come gli piace.
Il luogo della falsa vita. Non è facile descrivervi questo luogo, che il bianco chiama cinema, in modo che voi possiate comprenderlo e immaginarlo chiaramente con i vostri occhi In ogni città o villaggio d'Europa c'è uno di questi luoghi misteriosi che gli uomini amano più della casa del missionario. Di cui già i bambini sognano e con il quale volentieri giocano nel pensiero.
Il cinema è una capanna, più grande della grande capanna del capo di Upolu, sì, molto più grande. È buia anche in pieno giorno, tanto che ciascuno non può riconoscere chi gli sta accanto. Così che si resta accecati quando si entra, ma ancora più accecati quando si torna fuori. Qui la gente entra e si avvia tastando il muro, fino a che una vergine arriva con un piccolo lampo nella mano e la guida dove c'è posto per sedere. Stretti stretti i Papalagi siedono tutti in fila nel buio, nessuno vede il vicino, la buia capanna è colma di gente in silenzio. Ciascuno siede sulla sua piccola panca e tutte le piccole panche sono volte verso una parete.
Dal fondo di questa parete, come dal profondo di un burrone, sale un gran rumore e un ronzio, e, non appena gli occhi si sono abituati all'oscurità, si riconosce un Papalagi che, seduto, lotta con un cassone. Con le dita tese di entrambe le mani batte sopra tante minuscole lingue bianche e nere che il cassone butta fuori, e ogni lingua stride forte e dà a ogni tocco un suono diverso, così che ne nasce uno stridore furioso come in un grande litigio in un villaggio.
Questo rumore dovrebbe distrarre i nostri sensi e indebolirli, affinché crediamo a ciò che vediamo e non dubitiamo che è vero e reale. Proprio davanti alla parete si irradia una luce molto forte, come se sulla parete battesse un fortissimo raggio di luna, e in questa luce ci sono uomini che sembrano e vestono come veri Papalagi, che si muovono e vanno avanti e indietro, camminano, ridono, saltano, proprio come in Europa si fa dappertutto. È come il riflesso della luna nella laguna. È la luna eppure non lo è. Così anche questo è soltanto un riflesso. Ciascuno muove la bocca, nessuno dubita che parlino, eppure non si ode un solo suono e parola alcuna, per quanto si faccia attenzione ad ascoltare e per quanto sia fastidioso non udire nulla. E questo è anche il motivo principale perché quel Papalagi batte sul cassone nero: esso deve dare l'impressione che le voci non si possano udire a causa di quel rumore. E per questo sulla parete di tanto in tanto appaiono delle scritte che annunciano ciò che il Papalagi ha detto o dirà.
Tuttavia, queste persone non sono creature vere. Se si volessero afferrare, ci si accorgerebbe che sono fatte di luce e che non si possono prendere. Sono lì soltanto per mostrare al Papalagi le sue gioie e i suoi dolori, le sue follie e le sue debolezze. Così lui vede le donne e gli uomini più belli proprio vicinissimi. Anche se sono muti, lui vede i loro movimenti e il luccichio dei loro occhi. Anzi, sembra che gli sorridano e gli vogliano parlare. Così vede anche i massimi capi, con cui mai potrebbe parlare, li vede da vicino e indisturbato, come fossero suoi pari. Prende parte ai grandi banchetti, a ricevimenti e ad altre feste, così che gli pare di essere dappertutto, sedere a banchetto e far festa con loro. Ma vede anche come un Papalagi rapisce una fanciulla alla famiglia. O come una fanciulla è infedele al suo giovane amante. Vede come un uomo cattivo afferra alla gola un ricco signore e come le dita affondano nella carne della sua gola e gli occhi del signore escono dalle orbite, lo vede morto e vede l'uomo cattivo strappargli dai panni il metallo rotondo e la carta pesante.
Mentre l'occhio del Papalagi guarda tutte queste cose liete o orribili, lui se ne deve stare seduto immobile; non può ammonire la fanciulla infedele, non può accorrere in aiuto del ricco signore per salvarlo. Ma questo non dà alcun dolore al Papalagi; anzi, egli guarda ogni cosa con grande voluttà, come se non avesse cuore. Non prova nessuno spavento e nessun orrore. Osserva tutto come se lui stesso fosse una creatura del tutto diversa. Poiché colui che sta a guardare è sempre fermamente convinto di essere migliore degli uomini che vede nella luce, e che lui non farebbe mai tutte le follie che gli vengono mostrate. Sta zitto, trattenendo il respiro, e i suoi occhi pendono dalla parete, e, non appena vede un cuore forte o una nobile immagine, se la prende nel cuore e pensa: «Questa è la mia immagine». Siede lì completamente immobile sulla sua panca e fissa la ritta parete liscia su cui nulla vive, se non ingannevoli riflessi che un mago vi getta da dietro, da una stretta apertura nella parete opposta. Per cui, così tante cose vivono di una falsa vita. Assorbire dentro di sé queste false immagini, che non hanno una vita reale, questo è ciò che procura al Papalagi un così intenso godimento. In questa stanza buia egli può entrare nella falsa vita senza vergogna e senza che gli altri vedano i suoi occhi. Il povero può fare la parte del ricco, il malato quella del sano, il debole quella del forte. Ciascuno lì nel buio può prendere quello che vuole e vivere una falsa vita, fare ciò che nella vita reale mai e poi mai riuscirebbe a fare.
Darsi in tal modo alla falsa vita è diventata una grande passione del Papalagi, una passione spesso così grande che in essa egli dimentica la sua vita vera. Questa passione è una cosa malata, perché l'uomo giusto non vuole vivere una vita falsa nel buio di una stanza, ma vuole viverne una calda e reale alla luce del sole. La conseguenza di questa passione è che molti Papalagi che escono dal luogo della falsa vita non sanno poi più distinguere questa dalla vita reale e restano confusi e smarriti, si credono ricchi quando sono poveri, o belli quando sono brutti. Oppure fanno cose orribili, che mai avrebbero fatto nella loro vita reale, ma le fanno perché non sanno più distinguere ciò che è vero da ciò che non lo è. È uno stato molto simile a quello che noi tutti conosciamo negli europei quando hanno bevuto troppa kava europea e credono di camminare sul mare.
Anche le molte carte ottengono sul Papalagi un effetto molto simile di ebbrezza e di frenesia Che cosa sono le molte carte? Immaginate una stuoia di tapa sottile, bianca, ripiegata, divisa e poi ancora ripiegata, con tutti i lati ricoperti da segni fittissimi queste sono le molte carte o, come il Papalagi le chiama, i giornali.
In queste carte si trova la grande intelligenza del Papalagi. Lui ogni mattina e ogni sera deve tenerci dentro la testa per riempirla e saziarla, per poter meglio pensare e avere dentro tante cose; come il cavallo che corre meglio se ha mangiato molte banane e ha la pancia ben piena. Il signore sta ancora sulla sua stuoia, che già i messaggeri corrono per tutto il paese e distribuiscono le molte carte. È la prima cosa che il Papalagi fa quando si sveglia dal sonno. Legge. Affonda gli occhi in quello che le molte carte gli raccontano. E tutti i Papalagi fanno la stessa cosa, leggono. Leggono quello che i grandi capi e i massimi oratori d'Europa hanno detto nei loro ricevimenti. Tutto ciò sta esattamente segnato sulla stuoia bianca, anche se é una cosa molto stupida. Anche i panni che avevano addosso sono minutamente descritti, e quello che i grandi signori hanno mangiato, come si chiama il loro cavallo, se soffrono di elefantiasi o se hanno deboli pensieri.
Ciò che loro raccontano, nel nostro paese si potrebbe leggere come segue: «Il giudice di Matautu questa mattina, dopo un buon sonno, ha per prima cosa mangiato un avanzo del taro della sera precedente, poi è andato a pescare, a mezzogiorno è tornato nella sua capanna, si è steso sulla sua stuoia e ha cantato e ha letto la Bibbia fino alla sera. Sua moglie Sina ha dapprima allattato il suo bambino, poi è andata al bagno e lungo la strada ha trovato un bel fiore di pua, che si è messa come ornamento nei capelli». E via di questo passo.
Tutto, tutto ciò che accade e che la gente fa e non fa, tutto viene raccontato: i loro buoni e cattivi pensieri, se hanno ammazzato una gallina o un maiale, se si sono costruiti una nuova canoa. Non succede nulla in tutto il paese che queste stuoie bianche non riportino fedelmente. Il Papalagi chiama questo: essere ben informato. Vuole essere al corrente di tutto quello che da un tramonto all'altro accade nel paese. È indignato se qualcosa gli sfugge. Beve tutto con grande avidità. Sebbene vi trovi anche le cose più orribili e tutto ciò che la sana mente di un uomo vorrebbe al più presto dimenticare. Già, proprio queste, le cose cattive, che fanno male, vengono raccontate ancor più dettagliatamente delle cose buone, in tutti i minimi particolari, come se raccontare il buono non fosse meglio e più importante e più allegro che raccontare tutto il male.
Quando tu leggi il giornale, non hai più bisogno di andare ad Apolima, a Manono o Savaii per sapere che cosa fanno i tuoi amici, che cosa pensano e che cosa festeggiano. Puoi stare tranquillamente sulla tua stuoia le molte carte ti racconteranno tutto. Questo sembra bello e gradevole, ma è soltanto un inganno. Perché quando tu incontri tuo fratello e ciascuno dei due ha già tenuto la testa affondata nelle molte carte, allora non avrete più niente di speciale da raccontarvi a vicenda, perché ciascuno avrà già nella testa esattamente le stesse cose, e allora o resterete in silenzio o vi ripeterete soltanto quello che dicono le molte carte. Sono invece cose tanto più belle cantare una canzone o festeggiare un evento o soffrire una pena, che non trovarsi tutto raccontato da bocche straniere e non averlo visto con i propri occhi.
Ma ciò che fa i giornali così dannosi per il nostro spirito, non è quello che ci raccontano, ma piuttosto il fatto che essi ci dicono anche ciò che dobbiamo pensare di questo e di quello, dei nostri grandi capi o dei capi di altri paesi, degli avvenimenti e di tutto il fare degli uomini. Il giornale vorrebbe fare di tutti gli uomini una testa sola, esso è nemico della mia testa e del mio pensiero. Pretende di imporre a ciascuno la propria testa e il proprio pensiero. E riesce anche a ottenerlo. Quando tu la mattina leggi le molte carte, sai già a mezzogiorno che cosa ogni altro Papalagi ha nella testa e che cosa pensa.
Il giornale è anche una specie di macchina che fabbrica ogni giorno nuovi pensieri, molti di più di quanto una sola te sta possa fare. Ma la maggior parte di essi sono deboli pensieri, senza fierezza né forza; riempiono, sì le nostre teste con molto nutrimento, ma non le rendono più forti. Potremmo nello stesso modo anche riempire le nostre teste di sabbia. Il Papalagi riempie la sua testa con tutto questo grande nutrimento di carta. Prima che possa buttarne via uno, già ha davanti il seguente. La sua testa è come le paludi delle mangrove, che soffocano nel loro stesso limo, dove non crescono più né verde né frutti, dove salgono solo cattivi vapori e ronzano intorno sciami di insetti pungenti.
Il luogo della falsa vita e le molte carte hanno reso il Papalagi ciò ch'egli è ora: un uomo debole e smarrito, che ama ciò che non è vero, che non riconosce più ciò che è vero, e prende il riflesso della luna per la vera luna e una stuoia scritta per la vita stessa.

La grave malattia del pensare

Quando la parola «spirito» sale alle labbra del Papalagi, i suoi occhi si ingrandiscono, si fanno tondi e fissi; gonfia il petto, respira pesantemente e si stira come un guerriero che ha sconfitto il proprio nemico. Perché questo «spirito» è qualcosa di cui è particolarmente fiero. Qui non si tratta del grande, possente spirito che il missionario chiama «Dio», di cui tutti non siamo che miserevoli riflessi, ma del piccolo spirito, quello che appartiene all'uomo e fa i suoi pensieri.
Se io da qui vedo l'albero di mango dietro la chiesa della missione, ciò non è spirito, perché io vedo soltanto. Ma se riconosco che è più grande della chiesa della missione, allora ciò è spirito. Devo cioè non soltanto vedere qualcosa, ma anche sapere qualcosa. Questo sapere il Papalagi lo usa dall'alba al tramonto. Il suo spirito è sempre come una canna da sparo piena di polvere o come un amo gettato. Per questo egli ha compassione di noi, popoli delle molte isole, perché non usiamo alcun sapere. Dice che noi siamo poveri di spirito e stupidi come l'animale della giungla.
Questo è certo vero, che noi usiamo poco ciò che il Papalagi chiama «pensare». Ma ci si può domandare chi è lo stupido, se colui che non pensa molto o colui che pensa troppo. Il Papalagi pensa continuamente: «La mia capanna è più piccola della palma. La palma si piega nella tempesta. La tempesta parla con una gran voce». Queste cose lui pensa; alla sua maniera, naturalmente. Ma pensa anche su se stesso: «Io sono piccolo di statura. Il mio cuore è sempre lieto alla vista di una fanciulla. Mi piace molto fare un viaggio, e così via. Ciò è bello e buono e può anche essere utile per colui che ama questo gioco nella sua testa. Ma il Papalagi pensa tanto, che il pensare è diventato per lui abitudine, necessità, costrizione addirittura. Lui deve sempre pensare. Ben difficilmente riesce a non pensare e a vivere invece con tutte le sue membra. Lui vive soltanto con la testa, mentre tutti gli altri suoi sensi giacciono nel sonno profondo. Sebbene egli intanto cammini diritto, parli, mangi e rida. Il pensare, i pensieri (questi sono il frutto del pensare) lo tengono prigioniero. Si inebria dei suoi stessi pensieri. Quando splende il sole, lui subito pensa: «Come splende magnificamente il sole in questo momento». E continua a pensare: «Come splende». Questo è sbagliato. Assolutamente sbagliato. Stolto. Perché quando il sole splende è assai meglio non pensare affatto. Un saggio samoano distende le sue membra nella calda luce e non pensa a niente. Accoglie il sole non solo con la testa, ma anche con le mani, con i piedi, i fianchi, il ventre, con tutte le membra. Lascia che la pelle e le membra gioiscano e si rallegrino per conto loro e pensino per lui. Ed esse certamente pensano, anche se in maniera diversa dalla testa. Ma il Papalagi ne è in molte maniere impedito; il molto pensare gli sta davanti come un gran blocco di lava ch'egli non può togliere di mezzo. Ha, certo, pensieri allegri, ma non ride; ha pensieri tristi, ma non piange. Ha fame, ma non va a prendersi del taro e del palusami (piatto tipico samoano, n.d.r.). Il più delle volte è un uomo i cui sensi vivono in lotta con lo spirito: un uomo diviso in due parti.
La vita del Papalagi assomiglia molto spesso a quella di un uomo che deve andare con la barca a Savaii e che, non appena lasciata la riva, pensa: «Quanto tempo potrò impiegare per arrivare a Savaii?» Pensa, e intanto non vede il bel paesaggio che attraversa nel corso del suo viaggio. Ora gli si presenta sulla sinistra il dorso di una montagna. Non appena il suo occhio l'ha afferrata, non può più lasciarla: «Che cosa ci può essere dietro quella montagna? Ci sarà una baia profonda oppure piccola?» E per il molto pensare dimentica di cantare le belle canzoni dei giovani navigatori, e neppure ode le parole scherzose delle fanciulle. Appena la baia e la montagna sono alle sue spalle, subito lo tormenta un nuovo pensiero: se prima di sera non verrà una tempesta. Sicuro: se verrà la tempesta. E cerca nel cielo limpido le nuvole nere. Continua a pensare alla tempesta che potrebbe venire. La tempesta non viene e lui giunge a Savaii la sera stessa senza danno. Ma per lui è come se non avesse neppure fatto il viaggio, perché i suoi pensieri per tutto il tempo sono stati lontani dal corpo e fuori dell'imbarcazione.
Ma uno spirito che ci tormenta in tal modo è un demonio e io non capisco perché molti lo debbano amare. Il Papalagi ama e venera il suo spirito e lo nutre con i pensieri della sua testa. Non lo lascia mai languire, ma gli è anche di poco incomodo quando i pensieri si divorano a vicenda. Fa molto rumore con i suoi pensieri e lascia che diventino chiassosi come bambini maleducati. Si comporta come se i suoi pensieri fossero splendidi come fiori, come montagne o foreste. Di essi parla come se al confronto un uomo valoroso o una fanciulla di animo lieto non avessero alcun valore. Fa esattamente come se ci fosse un comandamento che ordina all'uomo di pensare molto. Sicuro, come se questo comandamento venisse da Dio. Quando le palme e le montagne pensano, non fanno certo tanto baccano. E, sicuramente, se le palme pensassero con tanto rumore come fa il Papalagi, non avrebbero foglie così verdi e belle e non darebbero frutti così dorati. I frutti cadrebbero prima di essere maturi. Ma è molto più probabile che esse pensino assai poco.
Oltre a ciò ci sono moltissime maniere di pensare e innumerevoli bersagli per la freccia dello spirito. Triste è la sorte di colui che va molto lontano con il pensiero. «Che accadrà quando verrà la prossima aurora? Che cosa vorrà da me il Grande Spirito quando io arriverò nell'oltretomba? Dov'ero prima che i messaggeri delle divinità mi facessero dono dell'anima?» Questo pensare è tanto inutile quanto voler vedere il sole con gli occhi chiusi. Non si può. Perciò non è neppure possibile pensare fino in fondo l'inizio e la fine delle cose. Se ne avvedono coloro che ci si provano. Dai loro giovani anni fino alla maturità restano fermi su un punto, come il martin pescatore. Non vedono più il sole, il vasto mare, le dolci fanciulle; non provano più alcuna gioia, niente di niente. Persino la kava non piace più loro e durante le danze sulla piazza del villaggio tengono gli occhi abbassati e guardano a terra. Non vivono, anche se non sono morti. Sono stati colpiti dalla grave malattia del pensare.
Questo pensare dovrebbe rendere grande e nobile la mente. Se uno pensa molto e in fretta, in Europa si dice che è una grande testa. Invece di provare compassione per queste grandi teste, esse sono oggetto di particolare ammirazione. I villaggi eleggono questi uomini loro capi e, là dove arriva, una grande testa deve pensare in pubblico, davanti alla gente, così che tutti ne hanno gran piacere e l'ammirano. Quando muore una grande testa, tutto il paese è in lutto e grandi sono il dolore e le lamentazioni per ciò che si è perduto. Si fa un'immagine di pietra della grande testa del defunto e la si mette davanti agli occhi di tutti, sulla piazza del paese. Queste teste di pietra sono molto più grandi di com'erano quelle vive, affinché tutti le possano bene ammirare e ricordarsi con umiltà di quanto sono piccole le loro.
Quando si domanda a un Papalagi: «Perché pensi tanto?» Lui risponde: «Perché non voglio restare stupido».
Io credo però che questo sia soltanto un pretesto e che il Papalagi segua un cattivo impulso; che il vero scopo del suo pensare sia di arrivare a capire ciò che sta dietro le forze del Grande Spirito. Un fare che egli stesso definisce con l'altisonante parola «conoscenza». Conoscenza vuol dire avere una cosa così vicina agli occhi che ci si batte il naso. Questo battere il naso nelle cose e frugarci dentro è una brutta e deprecabile voglia del Papalagi. Afferra la scolopendra, la trafigge con una minutissima lancia, le stacca una zampa: «Che aspetto ha una zampa staccata in quel modo dal corpo? Come era attaccata?» Taglia la zampa, la apre per misurarne la grandezza. Questo è importante, è essenziale. Stacca una scheggia dalla zampa, piccola quanto un granello di sabbia, e la mette sotto un lungo tubo che ha una forza segreta e rende gli occhi tanto più acuti. Con questo occhio magico il Papalagi studia e controlla ogni cosa, le tue lacrime, un pezzetto della tua pelle, un capello, tutto. Spezzetta tutte le cose fino a quando arriva al punto in cui non c'è più nulla da tagliare e da dividere. Sebbene questo punto sia il più piccolo, di solito è più importante, perché è un accesso alla grande conoscenza che soltanto il Grande Spirito possiede.
Questo accesso non è aperto al Papalagi e anche i suoi occhi magici più acuti non hanno ancora potuto guardarvi dentro. Nessuno è mai salito più alto di quanto lo fosse il tronco della palma che le sue gambe stringevano. Giunto sulla cima della pianta, gli veniva a mancare il tronco per salire più su. Il Grande Spirito non ama la curiosità degli uomini, per questo ha teso sopra tutte le cose grandi liane che sono senza principio e senza fine. Perciò chiunque indaghi con attenzione su tutto il pensare dovrà alla fine avvedersi che rimane sempre stupido e che deve lasciare al Grande Spirito tutte le risposte che lui stesso non può dare. Questo, d'altronde, i Papalagi più coraggiosi e più intelligenti lo ammettono. Tuttavia, molti di quei malati del pensiero non sanno rinunciare a tale piacere; e per questo il pensare degli uomini conduce allo smarrimento per tante e diverse vie, esattamente come se camminassero in una giungla dove non c'è ancora alcun sentiero. Nel pensare consumano a tal punto i loro sensi che poi, come in effetti è già accaduto, improvvisamente non sanno più distinguere tra uomo e animale. Affermano che l'uomo è un animale e che l'animale è umano.
Deprecabile e fatale è perciò che tutti i pensieri, non importa se buoni o cattivi, vengano subito buttati sulle bianche stuoie sottili «Vengono stampati», dice il Papalagi. Che vuol dire che ciò che quei malati pensano viene poi scritto con una macchina molto misteriosa, che ha mille mani e la fortissima volontà di molti grandi capi. Ma non solo una o due volte, bensì tantissime volte, infinite volte essa riscrive sempre gli stessi pensieri. Molte stuoie di pensieri vengono poi legate in fasci e schiacciate insieme (libri, li chiama il Papalagi) e inviate in tutte le parti del grande paese. Così ben presto tutti coloro che prendono dentro di sé questi pensieri ne vengono contagiati. E divorano queste stuoie di pensieri come dolci banane, esse si trovano in ogni capanna, se ne colmano interi cassoni, e giovani e vecchi vi rosicchiano intorno come i topi rosicchiano la canna da zucchero. Perciò sono così pochi coloro che ancora possono pensare ragionevolmente, con pensieri naturali, come li ha qualsiasi onesto samoano.
Allo stesso modo anche ai bambini vengono messi in testa tanti pensieri finché ce ne stanno. Ogni giorno sono obbligati a ingoiare una certa quantità di stuoie di pensieri. Solo i più sani respingono questi pensieri o li lasciano cadere dal loro spirito come attraverso una rete. La maggior parte invece se ne riempie la testa a tal punto che poi non vi resta più spazio e non vi entra più alcuna luce. Questo lo si chiama «educare lo spirito» e lo stato permanente di questo smarrimento si chiama «cultura», cosa generalmente diffusa.
Cultura vuol dire colmare le proprie teste fino all'orlo estremo con le conoscenze. L'uomo colto conosce la lunghezza della palma, il peso della noce di cocco, i nomi di tutti i grandi capi e l'epoca delle loro guerre. Conosce la grandezza della luna, delle stelle e di tutte le terre. Conosce per nome ogni fiume, ogni animale, ogni pianta. Sa tutto. Fai una domanda a un uomo colto e lui ti spara addosso la risposta prima ancora che tu abbia finito di chiudere la bocca. La sua testa è sempre carica di munizioni, è sempre pronta a sparare. Ogni europeo consuma gli anni più belli della sua vita per rendere la sua testa simile alla più rapida canna da sparo. Chi vuole sottrarsi a questo, vi viene costretto. Ogni Papalagi deve sapere, deve pensare.
L'unica cosa che potrebbe ancora guarire tutti questi malati di pensiero, l'oblio, il cacciar via i pensieri, è un'arte che non viene praticata. Sono quindi pochissimi quelli che lo sanno fare. La maggior parte porta dentro la testa un tale peso che il corpo è stanco e perde energie e appassisce prima del tempo.
Dobbiamo noi dunque, cari non pensanti fratelli, dopo tutto quello che vi ho in verità raccontato, veramente imitare il Papalagi e imparare tutti quei pensieri come lui? Io dico: «No!» Perché noi non dobbiamo fare nulla che non sia ciò che ci rende più forti nel corpo e più lieti e migliori nell'animo. Dobbiamo guardarci da tutto ciò che ci potrebbe derubare della nostra gioia di vivere, soprattutto da ciò che può oscurare il nostro spirito e togliergli la sua chiara luce, ciò che mette la nostra testa in lotta con il nostro corpo. Il Papalagi ci dimostra col suo fare che il pensare è una grave malattia che riduce di molto il valore di un uomo, lo rende più piccolo.

I Papalagi vogliono trascinarci nella loro oscurità

Miei cari fratelli, ci fù un tempo in cui tutti noi vivevamo nell'oscurità e nessuno conosceva la brillante luce delle scritture. Quindi vagavamo come bambini perduti che non riescono a trovare la strada per tornare alle loro capanne, perchè i nostri cuori non conoscevano il Grande Amore, e le nostre orecchie erano ancora sorde alle parole di Dio. I Papalagi ci hanno portato la luce. Sono venuti da noi per liberarci dall'oscurità. Ci condussero a Dio e ci insegnarono ad amarlo. Ed è per questo che li rispettiamo come portatori di luce, come gli uomini che ci parlarono del Grande Spirito, colui che i Papalagi chiamano Dio. Abbiamo riconosciuto i Papalagi come nostri fratelli e non li abbiamo cacciati dal nostro paese, invece abbiamo diviso con loro tutta la nostra frutta e il nostro pane, come figli di un solo padre.
Gli uomini bianchi non hanno lesinato mezzi per portarci le loro scritture, incluso quando ci siamo comportati come bambini cattivi e abbiamo rifiutato i loro insegnamenti. Gli saremo sempre grati per i problemi e le sofferenze che sopportarono nel nostro interesse, e sempre li rispetteremo come portatori di luce.
La prima cosa che il missionario ci spiegò furono le forme di Dio e ci allontanò dai vecchi Dei, quelli che chiamava «Falsi» perchè in essi non era presente il vero Dio. Per questo abbiamo smesso di adorare le stelle della notte, la forza del fuoco e del vento, e cerchiamo il suo Dio, il Grande Padre del Cielo.
In seguito, attraverso i Papalagi, Dio ci fece abbandonare il nostro palo di fuoco e altre armi, in modo da poter vivere uniti come buoni Cristiani. Quindi tutti voi conoscete la volontà di Dio «Non ucciderete e vi amerete gli uni con gli altri» che è il più elevato dei suoi pensieri. Obbedientemente tutti noi abbiamo abbandonato le nostre armi e a partire da questo momento gli eserciti che distruggevano la nostra isola hanno smesso di attaccarci, e ognuno ama l'altro come un fratello. Abbiamo appreso che i comandamenti di Dio erano buoni, perchè adesso viviamo in pace e i villaggi vicini vivono uniti, mentre prima erano divisi e il caos e l'agitazione non avevano fine. Incluso se il Gran Dio non vive nel mondo, possiamo comunque proclamare la nostra gratitudine perchè le nostre vite sono migliorate da quando adoriamo Dio come il padre onnipotente sovrano del mondo. Grati e con devozione ascoltiamo le sue parole saggie e profonde che alimentano il nostro amore e ci riempiono ogni volta di più del suo Grande Spirito.
Come dicevo i Papalagi ci hanno portato la luce che si è stabilita nei nostri cuori ardenti e ha riempito i nostri sensi di felicità e gratitudine. Hanno ricevuto la luce prima di noi, i Papalagi conoscevano la luce prima che il più vecchio di noi fosse nato. Però il Papalagi unicamente porta la luce nelle sue mani spargendola per lasciarla brillare sopra gli altri; lui, il suo corpo, rimane nell'oscurità, e il suo cuore è lontano da Dio, anche quando nomina Dio e quando la luce è nelle sue mani. Niente è più difficile e mi riempie la testa come dover dire questo. Però non possiamo ne vogliamo essere accecati dai Papalagi; altrimenti ci trascineranno nella loro oscurità. Portarono la parola di Dio, però non compresero il suo messaggio ed i suoi insegnamenti. Con le loro mani e le loro bocche lo hanno fatto, ma non con i loro corpi. La luce non li ha penetrati nonostante brillino esternamente e illuminino tutto intorno a loro. Una luce che qualche volta è chiamata «Amore».
Non si accorgono della falsità delle loro parole e del loro amore. Così potete accorgervi che un Papalagi non può dire «Dio» con tutto il cuore. Quando lo dice fà una faccia come se fosse stanco o annoiato. Però ogni uomo bianco chiama se stesso il figlio di Dio e la sua fede è confermata dalle scritture. Dio è ancora un estraneo per loro, sebbene tutti ricevettero i suoi insegnamenti e lo conoscono. Incluso quelli che si suppone parlano di Dio dentro le loro monumentali capanne, costruite in suo onore, non portano Dio dentro e le loro parole se le porta il vento al grande vuoto. I predicatori non riempiono i loro sermoni con Dio e i loro discorsi sono come onde che si infrangono sulla scogliera: continua continua e nessuno lo sente.
Posso dire questo senza provocare la collera di Dio; noi i bambini dell'isola non eravamo peggiori che i Papalagi adesso, quando pregavamo le stelle e il fuoco. Eravamo cattivi e vivevamo nell'oscurità perchè non conoscevamo la luce. Però i Papalagi conoscono la luce e sono comunque cattivi, e vagano nell'oscurità. La cosa peggiore è che chiamano se stessi i figli di Dio e cristiani, e vogliono farci credere che sono il fuoco, quando sono solo i portatori di luce.
Un Papalagi rare volte pensa a Dio. Unicamente quando una tormenta lo minaccia o quando teme che la sua lampada della vita smetta di ardere; allora ricorda che esistono poteri più forti di lui che lo governano. A la luce del giorno Dio disturba le sue particolari abitudini e vizi. Sà che mai Dio perdonerebbe questi vizi e che dovrebbe prostrarsi al suolo se realmente Dio fosse dentro di lui, poichè è pieno di lussuria, odio e animosità. Il suo cuore si è trasformato in un affilato amo, buono solo per rubare, invece di essere una luce che conquista l'oscurità e conduca lontano dal freddo.
Il bianco chiama se stesso cristiano. Una parola come una bella melodia. Un cristiano. Oh se potessimo chiamarci così sempre! Essere un cristiano significa amare Dio e tuo fratello, e solo allora amare te stesso. Amare fare ciò che è giusto, deve essere parte di noi come il nostro sangue, la nostra testa o le nostre mani. I Papalagi portano le parole «Dio», «Amore» e «Cristianesimo» solo sulle labbra. Le mettono sopra la lingua e le lasciano rimbombare. Però i loro cuori ed il loro amore non si inchinano davanti a Dio, se non di fronte agli oggetti ed alle macchine. Non sono pieni di luce se non di desiderio ingordo per il tempo e per l'insensatezza delle loro professioni. Sono dieci volte più ansiosi di visitare i posti di pseudovita che di intraprendere la ricerca di Dio, che è lontano, molto lontano.
Cari fratelli, oggi il Papalagi ha più idoli che noi un tempo, se intendiamo per idolo qualsiasi cosa adori oltre Dio e che porti nel cuore come la cosa più preziosa. Dio non è il bene più prezioso che il Papalagi porta nel cuore. Per questo non obbedisce ai suoi desideri, mentre obbedisce a quelli di un aitu. Vi dico questo come risultato dei miei pensieri: i Papalagi ci hanno portato le scritture come una specie di oggetto da barattare, per cambiarle con frutta e per le migliori e più belle parti dell'isola. Credo che sono molto capaci in questo, quindi ho scoperto molti sudici peccati nei cuori dei Papalagi; e sò che Dio ci ama più di quanto ama loro, che ci chiamano selvaggi, parola che evoca animali con zanne, privi di anima.
Però Dio prese i loro occhi e li aprii lacerandoli per farli vedere. Dio disse ai Papalagi: Non potete vivere come volete. A voi non darò più comandamenti. Allora l'uomo bianco venne e si mostrò nella sua vera forma. Oh disgrazia! Oh terrore! Con voce ruggente e parole orgogliose presero le nostre armi e come Dei dissero; «Amatevi gli uni con gli altri». E adesso? Avete sentito le terribili notizie? Queste notizie blasfeme, amare e senza amore? L'Europa è impegnata ad assassinarsi! I Papalagi sono frenetici. Si uccidono gli uni con gli altri. Tutto si stà distruggendo in sangue, paura e terrore. Alla fine i Papalagi hanno ammesso che Dio non è con loro. La luce che portavano in mano se ne è andata, l'oscurita è sul loro cammino, non si sente nulla salvo il terrificante battito di ali del pipistrello l'ululare dei gufi.
Fratelli, il mio amore per Dio e per tutti voi mi possiede; per questo motivo Dio mi diede la mia piccola voce, per raccontarvi tutte queste cose che vi ho detto. Di modo che resisteremo e non ci faremo sedurre dalla lingua fluida e rapida dei Papalagi. Quando tornano teniamo le braccia davanti agli occhi e gridiamogli di tacere le loro voci strepitose, perchè a noi le loro voci suonano come il ruggire delle onde e il sibilare delle palme, però niente di più. E finchè non avranno volti forti e felici, e dai loro brillanti occhi l'immagine di Dio non irradi come il sole, lasciamoli permanere lontano.
Promettiamocelo e gridiamogli: State lontani da noi con i vostri abiti e vizi, con la vostra folle corsa al denaro che ostacola le mani e la testa, la vostra passione per riuscire ad essere migliori dei vostri fratelli, le vostre molte imprese senza senso, i vostri curiosi pensieri e la conoscenza che non porta da nessuna parte, e altre stupidaggini che vi disturbano il sonno. Noi non abbiamo bisogno di tutto questo: siamo felici con i piaceri gradevoli e nobili che Dio ci ha donato per non essere accecati dalla sua luce e che ci possa aiutare a non perderci, e brilli sempre sulla nostra strada di modo che possiamo seguire il suo sentiero e assorbire la sua meravigliosa luce, che significa amarsi gli uni con gli altri e portare molta tafola nei nostri cuori.

Quest'edizione digitale preparata da Martin Guy <martinwguy@gmail.com>
Prima edizione: marzo 2002; ultima revisione: 1 luglio 2010.

ringraziamo tentissimo la fonte: http://martinwguy.co.uk/martin/libri/Papalagi/papalagi.html