sabato 17 dicembre 2016

Shuntaro Hida



 Un dottore ultranovantenne, un hibakusha [che in giapponese significa un ‘sopravvissuto alla bomba’], continua a urlare al mondo i pericoli e la barbarie della bomba atomica. Il suo nome è Shuntaro Hida.
Il primo agosto 1944, un anno prima del bombardamento, il Dottor Hida fu assegnato all’ospedale militare di Hiroshima come medico. Ha assistito all’impatto della bomba a meno di sei chilometri dall’epicentro, e da allora ha visto tutto quello che un medico specializzato nel trattamento delle vittime della bomba può vedere con i suoi occhi. Il Dott. Hida conosce bene gli effetti della bomba—non solo dalla prospettiva di chi era lì, ma anche dalla prospettiva di un medico militare specializzato. Non vi sorprenderà dunque che nel tempo quasi 6.000 pazienti affetti da disturbi legati alle radiazioni si siano rivolti a lui per una consulenza.
Cosa è successo allora quel giorno a Hiroshima? VICE ha parlato con il Dott. Hida, che di quell’esperienza ricorda ogni dettaglio.
VICE: Come riuscì a sfuggire all’impatto diretto della bomba, anche se si trovava a Hiroshima?
Dr. Hida:
La notte prima del 6 agosto stavo dormendo sul mio futon, quando qualcuno all’improvviso mi svegliò. Era un vecchio che veniva dal villaggio di Hesaka, a qualche miglio da Hiroshima. La sua nipotina aveva una disfunzione della valvola cardiaca e spesso aveva degli attacchi, per cui mi recavo regolarmente al villaggio a darle un’occhiata. Quella notte ne aveva avuto un altro, allora montai sulla bici del vecchio, e mi feci portare sul posto. Mi allontanai da Hiroshima giusto in tempo per sfuggire all’impatto diretto. Sono stato esposto alle radiazioni, ma da una distanza di circa cinque chilometri e mezzo dall’epicentro.

Ma lei vide il momento in cui la bomba colpì la città?
Sì. Credo di essere tra i pochi che lo videro con i propri occhi e poi ebbero la possibilità di scrivere la propria esperienza, perché la maggior parte degli abitanti di Hiroshima è rimasta uccisa nell’istante stesso in cui ha visto quel fulmine di luce accecante. Ti spiego come andò. Passai la notte in casa del vecchio a tenere d’occhio la bambina. La mattina dopo decisi di darle un sedativo prima di andare via, perché se si svegliava piangendo rischiava di avere un altro attacco. Presi una piccola siringa dalla tasca, e la sollevai davanti a me, premendo in modo da far uscire un po’ di liquido. In quel momento vidi un aereo che sorvolava Hiroshima, proprio di fronte a me.

Doveva essere Enola Gay. Ci racconti quello che vide quando la bomba colpì Hiroshima.
La prima cosa che vidi fu la luce. Era così intensa che sono rimasto accecato per un attimo. In quello stesso momento sono stato travolto da un calore molto forte. La bomba aveva rilasciato un’onda termica di 4.000 gradi nel momento in cui aveva colpito il suolo. Io entrai nel panico, mi coprii gli occhi, e rimasi accucciato per terra. Non si sentiva nulla, lo stormire degli alberi si era fermato. Sentii qualcosa muoversi, allora guardai prudentemente fuori dalla finestra, nella direzione da cui era venuta la luce. Il cielo era azzurro, e non c’erano nuvole, ma c’era un anello rosso di fuoco su nel cielo, sopra la città! Nel mezzo dell’anello c’era una grossa palla bianca che continuava a crescere come la nuvola di una tempesta—era perfettamente rotonda. Diventava sempre più grande, finché non raggiunse l’anello, e allora esplose tutto, formando un’unica grande palla di fuoco. Era come vedere nascere un nuovo sole. Da piccolo avevo visto l’eruzione del vulcano Asama da vicino, ma questo era molto più forte. Le nuvole erano bianche, ma brillavano come arcobaleni mentre si sollevavano nel cielo. Era davvero bello. Lo chiamano ‘fungo atomico’, ma in realtà è come una colonna di fuoco: la parte inferiore della colonna è in fiamme e la parte superiore è la palla di fuoco, che si tramuta in una nuvola mentre continua a salire nel cielo. Poi, da sotto la colonna di fuoco, cominciarono a diffondersi orizzontalmente delle nuvole nere come pece, fin sopra le montagne che circondavano Hiroshima. Erano nuvole di sabbia e polvere che venivano spinte su dalla pressione generata dall’impatto. Venivano verso di noi come una marea. Noi eravamo su una collina, accanto a noi c’era una rupe, ma la nuvola di polvere ci fu subito sopra. Prima che me ne rendessi conto la casa del vecchio fu inghiottita e schiacciata dall’onda. Fortunatamente il tetto di paglia fece da cuscino, e salvò me e la bambina. Allora mi resi conto che era successo qualcosa di terribile, e corsi all’ospedale di Hiroshima con la bicicletta del vecchio.

Il Dottor Hida nel 1942.

Quale fu il primo caso di vittima della bomba atomica che vide?
Incontrai la prima vittima a metà strada. Questa cosa nera venne fuori da dietro un angolo di strada, barcollando maldestramente. Non avevo idea di cosa fosse. Ho rallentato e mi sono avvicinato lentamente, e gradualmente mi sono accorto che era una persona. Cercai di guardarlo in faccia, ma non ce l’aveva. C’erano solo delle grosse palle al posto degli occhi, un buco aperto in corrispondenza del naso, e le labbra erano così gonfie che occupavano metà della faccia. Era una cosa mostruosa. E aveva questa cosa nera che sembrava una manica strappata, e così all’inizio pensai che indossasse degli stracci. Mi chiedevo come tutto questo fosse possibile, quando l’uomo cominciò a venire verso di me. La mia prima reazione fu di arretrare. Ma quella cosa inciampò sulla mia bici e cadde a terra. Essendo un dottore, mi precipitai verso di lui e cercai di sentirgli il polso. Ma tutta la pelle del braccio si era staccata, non sapevo da dove prenderlo. Mi accorsi che la persona non aveva addosso degli stracci, ma era completamente nuda. Quelli che avevo creduto stracci non erano altro che la pelle viva che si era staccata dal corpo e penzolava ancora. Anche la pelle della schiena era bruciata e si staccava, e c’erano decine di piccole schegge di vetro che la punteggiavano. Diede un paio di sussulti, e poi giacque del tutto immobile. Era morto.

È un’immagine davvero scioccante. Si imbattè in altre scene traumatiche?
Sì. In qualche modo riuscii a raggiungere l’ospedale ma c’era un grosso incendio, e non potei ad entrare. Mi misi a pensare al da farsi, e infine decisi che, visto che ero un dottore, e che ero ancora vivo, la cosa migliore da fare era tornare al villaggio. Hesaka era il villaggio più vicino a Hiroshima, per cui tutti gli sfollati sarebbero stati portati lì, e magari sarei riuscito a medicare qualcuno. Ci misi altre tre ore pedalando lungo il fiume, ma alla fine arrivai alla scuola elementare del villaggio. Diedi un’occhiata al cortile. Era pieno di corpi carbonizzati al suolo, come se qualcuno li avesse sparsi. Ci saranno state mille persone. Alla scuola trovai altri tre dottori dell’esercito, e ci mettemmo a pensare a un piano di azione. Ma le vittime erano tutte ustionate in maniera gravissima, e in condizioni critiche. Non c’era molto da fare. Quello che facemmo quella notte fu solo separare i morti dai vivi che giacevano al suolo, e cominciare a portare via i corpi. Mentre mi davo da fare, tutti gli hibakusha mi fissavano. Facevo del mio meglio per evitare di guardarli negli occhi. Ma poi incrociai lo sguardo di un uomo, e mi sentii obbligato ad andare a sentire come stava. Mentre mi avvicinavo lui mi fissava con gli occhi sgranati, uno sguardo orrendo. Le persone che stavano morendo lì non avevano neanche un’idea di cosa fosse successo, e per questo tutti avevano occhi come quelli degli animali. Hai mai visto gli occhi di un maiale quando viene sgozzato? Spaventoso, no? Questa persona mi guardava in quel modo. Me li sogno ancora oggi quegli occhi. Ogni anno, verso il 6 agosto, sogno quegli occhi, tutte le notti. Non voglio vederli mai più, ma loro continuano a comparire. Tanta è stata l’impressione che mi hanno fatto.

Quando ha cominciato a occuparsi degli hibakusha sopravvisuti?
Il terzo giorno dopo la bomba cominciammo ad occuparci di quelli che sembravano avere una possibilità di sopravvivere. Fu lì che scoprimmo gli effetti delle radiazioni. Per prima cosa, alle vittime viene la febbre, più di 40. Era così alta che i termometri si rompevano. Poi, avvicinandoci ai loro volti, notammo che avevano un alito spaventosamente fetido. Era impossibile avvicinarsi. Credo che in termini medici quell’odore sia una combinazione della necrosi e della decomposizione. Se gli esaminavamo la bocca, vedevamo che era completamente nera. I globuli bianchi nei loro corpi erano stati neutralizzati, e per questo i batteri nelle bocche si erano moltiplicati velocemente. E visto che non c’era nulla che le proteggesse, cominciavano a marcire molto prima che in normali casi di infezione, o di formazione di pus. Sentivamo l’odore, un odore che solo quelli che hanno visto le conseguenze della bomba conoscono. Poi cominciammo a riscontrare delle pustole viola sulla pelle non ustionata. In termini medici questo fenomeno si definisce ‘purpura’ e si forma di solito prima che un paziente affetto da una malattia come la leucemia muoia. I pazienti perdevano tutti i capelli, come se gli avessero spazzato la testa con una scopa. Le radiazioni di solito colpiscono le cellule sane, per cui le radici dei capelli sono le prime a morire. I sintomi terminali sono il vomito di sangue, e altre emorragie dagli occhi, dal naso, dall’ano, dai genitali. Le vittime resistono poche ore prima di morire. All’epoca eravamo tutti terrorizzati, perché nessuno sapeva cosa poteva aver causato tutto questo.

Ha detto che anche lei fu esposto alle radiazioni. Ne ha avvertito i sintomi in seguito?
Il sintomo più forte che ho sperimentato è stato un precoce invecchiamento delle ossa. La mia colonna vertebrale è in condizioni penose. Ho avuto problemi alla parte bassa della schiena dopo essere stato esposto alle radiazioni, e ho dovuto subire numerosi interventi chirurgici. Nei momenti peggiori mi sono ritrovato a strisciare a terra per il dolore. Comunque, l’invecchiamento sembra essersi fermato quando ho compiuto 80 anni, e ho cominciato una terapia basata sul camminare su e giù nell’acqua di una piscina. Nell’ultima Giornata della Memoria della Bomba Atomica ho passeggiato per Hiroshima e Nagasaki con il mio bastone. La paura più grossa per tutti gli hibakusha è quella, un giorno o l’altro, di sviluppare il cancro. Non possiamo pianificare le vite come gli altri. Quando ci iscriviamo all’università, quando ci sposiamo, quando abbiamo figli, dobbiamo sempre fare i conti con questa paura. Ci hanno derubato dei nostri diritti di esseri umani. Non è stato violato solo il nostro diritto a vivere come esseri umani, siamo anche stati costretti a vivere con la consapevolezza che un giorno avremmo sviluppato una malattia come risultato diretto dell’esposizione alla bomba. Ma non sappiamo esattamente quando succederà, e fino ad allora vivremo nella paura. Anche se facessimo causa al nostro Paese e ricevessimo dei soldi, non cambierebbe nulla. Qualsiasi somma di denaro non potra mai darmi indietro tutti questi anni di sofferenze.


fonte : http://www.vice.com/it/read/un-vecchio-dottore-giapponese-scampato-alla-bomba-atomica-a4n9



martedì 30 agosto 2016

Guy Debord est vivant!







Un avventuriero è colui che fa sì che un’avventura accada.
(Guy Debord)




giovedì 4 agosto 2016

Noterelle sull'autogestione




Uno dei motivi per cui di autogestione, nella ormai lunga storia della sovversione,  molto si è parlato e scritto e molto meno si è fatta materiale esperienza, è che con questo nome, sovente si è cercato di camuffare e infiocchettare quello che, in un momento di bella lucidità, i rivoluzionari hanno smascherato come “comunismo noioso”.
Vale a dire la presa in carico da parte di ciascuno dell’onere di amministrare collettivamente l’amministrazione dell’esistente, convertendosi ciascuno in burocrate e travet dell’economia sociale. A lungo riflettendo sull’allocazione dei beni, sulle priorità della produzione, sulle corvée obbligatorie, sulla perequazione del dare e dell’avere: il tutto con un perenne sorriso sulle labbra, lieti della conquistata libertà di faticare in prima persona, cessando di delegare incombenze così triviali a degli specialisti prezzolati, come accade oggi.
Di fronte a questa prospettiva, ben prima che le circostanze imponessero una verifica materiale, i più si ritraevano all’inglese, in cuor loro augurandosi di non dover mai pervenire a una liberazione di tal fatta; mentre un gruppo meno numeroso ma anch’esso nutrito, si figurava con largo anticipo assiso in un consiglio (più simile a un consiglio di amministrazione che a un consiglio operaio) a distribuire incarichi a destra e a manca, ritagliando per sé un ruolo di “organizzatore permanente”.
D’altronde, piccole anticipazioni di queste due tendenze molti di noi le hanno potute assaporare negli esperimenti comunitari che sono stati tentati da decenni da volenterosi e fiduciosi compagni: da una parte un buon numero di oziosi quasi del tutto passivi, dall’altra un manipolo di stakanovisti dell’organizzazione, alcuni più coerenti (e che finivano per faticare per tutti), altri neppure coerenti (e che stavano seduti a capotavola a decidere per tutti, prima che qualcuno potesse decidere per loro).
La spiegazione è semplice: l’autogestione possibile e desiderabile  (e possibile in quanto desiderabile, perché masochismo e sovversione seguono percorsi inevitabilmente divergenti) è cosa ben diversa: più precisamente non ha alcunché in comune con l’amministrazione e con l’economia. Essa nasce precisamente dall’abolizione definitiva della subordinazione della vita agli imperativi economici e agli obblighi sociali.
In questo senso va chiarito una volta per tutte il concetto, introdotto dai situazionisti, di “autogestione generalizzata”, vale a dire estesa a tutti gli aspetti della vita. Si tratta di una concezione condivisibile, e assai felice, alla sola condizione che si premetta chiaramente che i soggetti dell’autogestione SONO GLI INDIVIDUI, fra loro liberamente, variamente e non necessariamente, associati.
L’autogestione quindi non è una forma di società, nella quale una volta ancora gli esseri umani sarebbero sottomessi alle necessità collettive, con  divisione del lavoro, diffusione di vecchi e nuovi specialisti, gerarchie occulte come inevitabili corollari.
Ma indica proprio ciò che il vocabolo stesso suggerisce: la gestione autonoma da parte di ciascuno dei propri affari, dei quali ognuno sarebbe unico legislatore, esecutore e giudice.
Questa visione, come già suggerito da Vaneigem più di quaranta anni fa, capovolge la funzione spettante alle assemblee: nelle quali le decisioni non si situano a valle, come frutto della discussione collettiva, ma a monte, come presa di posizione che ciascuno porta, se e quando lo ritiene opportuno, porta al cospetto di chi gli è prossimo, per informare delle sue intenzioni, e per proporre a ciascuno di dialettizzarsi, facendo conoscere a propria volta il proprio giudizio e, se del caso, ideando delle collaborazioni, dei miglioramenti, delle aggiunte, delle modifiche.
Si tratta in sostanza di capovolgere (né potrebbe essere altrimenti) il famoso slogan social-nazionale di Kennedy: non chiediamoci che cosa noi  possiamo fare per la comunità, ma chiediamoci invece se  e come la comunità può fare qualcosa per noi: non l’individuo al servizio della comunità ma la comunità al servizio dell’individuo e delle sue passioni.
L’assemblea in tal modo si convertirebbe in una contesa di passioni, tutte parimenti legittime.
Naturalmente una tale concezione presuppone  una comprensione, non solo superficialmente intellettuale, ma profondamente vissuta, della distinzione fra spazio pubblico e ambito privato.
L’uno e l’altro intesi a reciproca salvaguardia.
Perché la riedificazione del mondo e della sua civiltà, sotto forma di rete universale di comuni (che era poi il significato originario di “comunismo”) sarà forse un giorno possibile se si sarà chiarito che “il personale non è politico”, e la vita di ciascuno sarà protetta da ogni forma di ingerenza dei molti e delle loro pretese; questo traguardo potrà essere raggiunto unicamente se avremo compreso come l’idea della comune sia una grande idea politica, ma la comune nella sua esistenza materiale, (in quanto superamento e negazione tanto della famiglia, quanto dell’azienda, dell’atelier), è integralmente inerente all’ambito privato.
Sarà forse inutile farlo, ma, per concludere, vogliamo prudenzialmente precisare che, ad ogni livello, dal momento che la nostra non può che essere, contro la società di massa, la rivoluzione della qualità, è esclusa e inconcepibile qualsiasi conta delle opinioni, qualsiasi divisione delle persone in maggioranza e minoranza, qualsiasi subordinazione della minoranza alla maggioranza, e parallelamente della massa agli specialisti, agli scienziati, ai competenti, ai meritevoli.
Per fare un esempio volutamente casereccio, perché l’autogestione si colloca precisamente a questo livello, se di dieci persone, sei preferiscono la pastasciutta e quattro il risotto,  la soluzione non sarà mai imporre la pastasciutta ai fautori del risotto, e neppure di preparare sei giorni la pastasciutta e quattro il risotto. Ma che gli uni si prepareranno la pastasciutta e gli altri il risotto, al massimo sforzandosi di sedurre con il profumo e le attrattive dei propri piatti gli appartenenti all’altro gruppo.
Infatti, quanto di inevitabilmente meccanicista può sopravvivere in argomentazioni come quelle sopra esposte, non potrebbe che evaporare se tali questioni venissero affrontate con una vivace sensibilità fourierista, fondata su un’attenzione acuta per l’equilibrio e l’armonia nell’azione degli individui, sempre cosciente dell’altrui presenza e sempre intenzionata a non rischiare collisioni con il libero dispiegarsi delle passioni altrui.
In poche parole, l’autogestione è possibile e verosimile alla sola condizione che essa preveda un tale grado di autonomia del singolo, da rendere superflua ogni attenzione alla protezione della propria sfera privata, vissuta come un indiscusso a priori, e consentendo perciò di dedicare tutte le energie alla ricerca di un’efficace piacevolezza e qualità delle relazioni.
Paolo Ranieri 4 agosto 2016

martedì 28 giugno 2016

Sostegno alla ZAD di Notre-Dame des Landes








Dovunque nel mondo dove le imprese finanziarie e le multinazionali inquinano e distruggono sistematicamente, dei movimenti di resistenza appaiono per difendere quel che sussiste di vita e di biodiversità, contro la violenza mafiosa del profitto, contro la dittatura del denaro che propaga la barbarie senza nemmeno bisogno, il più delle volte, di pretesti religiosi o ideologici.
Nella confusione e nel caos dei valori antichi e di quelli nuovi, nascono dei territori che la solidarietà di donne e uomini tenta di liberare dal giogo della merce e dello Stato che le serve da gendarme. Rivendicare la priorità dell’umano sull’economia è diventato il motore di un movimento che fluttua, conosce alti e bassi, sembra a volte sparire ma rinasce incessantemente con un’ostinazione crescente. La Zad di Notre-Dame des Landes fa parte di questa tendenza. Essa concretizza oggi un progetto che le multinazionali e lo Stato al loro servizio cercano di annientare. Poiché la sola repressione poliziesca rischia di urtare le sensibilità (come si è visto nella lotta contro il barrage di Testet) la buffoneria governativa ha fatto appello al voto clownesco di cittadinanza.
Accordando libertà di parola secondo il principio “mezzora a Hitler, mezzora agli ebrei” non si rischiano troppe sorprese. Se quello stesso governo che esiterebbe a proporre un referendum sull’eventuale uscita dall’Europa ha preso l’iniziativa di proporre un referendum sulla scelta tra l’aeroporto di Vinci e un pugno di innamorati delle piante verdi, è perché era sicuro del risultato così come lo sono tutti quelli che persistono a chiamare democrazia un regime corrotto, infeudato alle oligarchie che consegnano la terra al rullo compressore della redditività. Come gli zapatisti del Chiapas ne hanno fatto l’esperienza, non esiste dialogo possibile tra donne e uomini che rivendicano il diritto di vivere e delle istanze statali, burocratiche, politiche che sostengono gli avvelenatori dell’agroalimentare, gli inquinatori del petrolchimico, i paesaggisti del gas di scisto, dei giacimenti auriferi, dei grandi lavori di “interesse pubblico”, i colleghi e i concorrenti di Goldman-Sachs e via dicendo.
La vita è la sola arma che non uccide ed è la nostra sola difesa. Non ci sono soluzioni che vengono dall’alto. Tutto viene dalla base e deve restare alla base. Viva i territori liberati dalla predazione statale e mercantile!

Solidarietà senza frontiere



Soutien à la Zad de Notre-Dame des Landes.

Partout dans un monde, que les entreprises financières et multinationales polluent et détruisent systématiquement, des mouvements de résistance apparaissent pour défendre ce qui subsiste de vie et de bio-diversité contre la violence mafieuse du profit, contre la dictature de l'argent qui propage la barbarie, sans même avoir besoin, le plus souvent, de prétextes religieux ou idéologiques.
Dans la confusion et le chaos des valeurs anciennes et nouvelles, naissent des territoires que la solidarité d'hommes et de femmes tente de libérer de l'emprise de la marchandise et de l’État, qui lui sert de gendarme. Revendiquer la priorité de l'humain sur l'économie est devenu le moteur d'un mouvement qui fluctue, connaît des hauts et des bas, semble parfois disparaître mais renaît sans cesse avec une obstination accrue. La Zad de Notre-Dame des Landes participe de cette tendance. Elle concrétise aujourd'hui un projet que les multinationales et l’État à leur botte vont s'efforcer d'anéantir. La seule répression policière risquant de heurter les sensibilités (comme on l'a vu dans la lutte contre le barrage de Testet) la bouffonnerie gouvernementale a fait appel à la clownerie citoyenne.
En accordant la liberté de parole selon le principe « une demi-heure pour Hitler, une demi-heure pour les Juifs » on ne risque pas trop de surprise. Si le gouvernement, qui hésiterait à proposer un référendum sur le maintien ou le retrait de l'Europe, a pris l'initiative de proposer un vote sur le choix entre Vinci et une poignée d'amoureux de plantes vertes, c'est qu'il était aussi sûr du résultat que ceux qui persistent à appeler démocratie un régime corrompu, inféodé aux oligarchies livrant la terre au rouleau compresseur de la rentabilité. Comme les zapatistes du Chiapas en ont fait l'expérience, il n'y a pas de dialogue possible entre des hommes et des femmes qui revendiquent le droit de vivre et des instances étatiques, bureaucratiques, politiques qui cautionnent les empoisonneurs de l'agro-alimentaires, les pollueurs de la pétrochimie, les paysagistes du gaz de schiste, des gisements aurifères, des grands travaux « d'intérêt public », les collègues et concurrents de Goldman-Sachs et tutti quanti.
La vie est la seule arme qui ne tue pas. Elle est notre seule défense. Il n'y a pas de solutions venues d'en haut. Tout vient de la base et doit rester à la base. Vivent les territoires libérés de la prédation étatique et marchande !

Solidarité sans frontières

domenica 22 maggio 2016

Democrazia versus libertà

 


Molte persone intelligenti, anche molto intelligenti (ad esempio David Graeber, che + uno dei più acuti pensatori dell'epoca, uno dei pochi emersi di recente che porti qualche cosa di efficacemente innovativo)paiono non riconoscere la contrapposizione assoluta che esiste fra democrazia e libertà.
La questione è tornata a galla, in occasione del cordoglio per la morte di un estremista della democrazia come Marco Pannella, cordoglio che chi quella contrapposizione ha colto, prendendo partito per la libertà, ha ben poco, o addirittura per nulla, condiviso.
Il grande, e a prima vista efficace, argomento contro una libertà totale, non impastoiata da istituzioni e da riti e da distinguo, è: "non vedi che la maggioranza dei nostri contemporanei è del tutto immatura e incapace di autogestirsi, che necessita di essere governata. che, lasciata a sé stessa, farebbe il male proprio ed altrui?" Innanzi tutto però non si comprende perché quella stessa maggioranza di immaturi diverrebbe improvvisamente matura allorché sceglie dei rappresentanti destinati a governare su tutti quanti. 
Decidiamoci: se la maggioranza è immatura, allora sarebbe più logico che decidesse per tutti la minoranza matura (peccato che ciascuno pensi che gli immaturi siano gli altri, e maturi solo lui e i suoi simili); se non lo è perché deve essere governata e non può governarsi da sé.
Rousseau, che sovente viene tirato in ballo, diceva (oltre a un discreto numero di cazzate) che, DOPO UN'AMPIA E PROFONDA DISCUSSIONE CHE COINVOLGA TUTTI, finirà per emergere un'idea maggioritaria adeguata. E che quindi la decisione della maggioranza sarà quella migliore per tutti. E' chiaro però che l'ampia e profonda discussione, doveva coinvolgere, non solo gli eletti, ma gli elettori, cui invece ogni spazio di discussione è precluso. Da quando lo è meno, grazie ai moderni strumenti, infatti l'idea della democrazia maggioritaria fa acqua ogni giorno di più.
In sostanza, la libertà di tutti e per tutti e fra tutti, coincide e presuppone l'autonomia del singolo.
Ora, per la mia autonomia, quale differenza fa che le decisioni grandi e piccole che mi riguardano, siano prese da uno, da pochi autonominati, da pochi eletti da molti, oppure anche da molti direttamente (come presupporrebbe la democrazia diretta)? La vera differenza è: quanto alla mia vita, decidono altri o decido io? Solo la seconda si inscrive nel quadro della libertà, si chiama autogestione generalizzata. La prima è solo oppressione, più o meno camuffata. La democrazia che è la forma camuffata per eccellenza, al danno unisce la beffa, visto che le decisioni le prendono sempre altri, MA IN MIO NOME, cosicché uno si ritrova, oltre tutto, ad essere corresponsabile di quel che non si è mai sognato di decidere
La libertà è nemica implacabile della democrazia, anche se mostra di non esserne sempre consapevole.
Il punto è che la democrazia, perfino quella referendaria, tanto cara a Pannella e a quelli come lui, presuppone comunque un governo che applichi le decisioni. La libertà non sta solo nell'essere noi direttamente a decidere ma noi DIRETTAMENTE A ESEGUIRE le decisioni che abbiamo preso.
Se non si dà questo, staremo sempre a parlare di mali maggiori e di mali minori

Paolo Ranieri


domenica 8 maggio 2016

Ripartire dalla prima internazionale


Ripartire dalla prima internazionale

Ovvero riprendere l'esame del superamento teorico necessario con l'analisi e la critica delle posizioni storiche anarchiche e utopistiche antistataliste e la teoria marxiana con attenzione ai "consigli" e all'analisi economica del capitale come forma organizzata di controllo sociale autonomizzato.

Studiare l'utilità di Hannah Arendt per la critica della società come dissoluzione del Pubblico e invasione del sociale per la egemonia del bisogno come schiavitù e come priorità.

Critica dell'umanesimo come "natura umana" idealizzata nonché della "natura umana" come istinto bestiale che ci vede tutti l'uno contro l'altro e che prevede l'unica unità possibile contro la natura madre e matrigna per difendersi dal clima e dalla carestia saccheggiando e stravolgendo il funzionamento delle specie animali e vegetali ovvero delle “razze umane inferiori socialmente” per dare l'opportunità ad una elite di consumatori di esserlo fino al parossismo.

Critica della politica come cassa di risonanza di false critiche, analisi e contraddizioni dove il dialogo o lo scontro politico si nutrono del vuoto (assenza di qualsiasi azione e di qualsiasi poesia) in modo complice più o meno consapevole ma misurabile dalla continua progressione della depressione e del silenzio.

Critica della passività come separazione dall'esperienza possibile

Promozione della creazione di attrezzatura teorica e pratica per la produzione di azioni esemplari con chiare indicazioni tutte verificabili
1. originalità del soggetto e cioè i protagonisti esercitino la propria unicità e partecipino lasciando a casa ogni etichetta passata e/o futura
2. autenticità dell'azione che deve essere studiata e creata senza mediazioni in totale autogestione
3. le azioni devono prevedere una reale soddisfazione dei soggetti agenti - non si fanno le cose a nome di nessun altro
4. le persone interessate dovranno dichiarare la propria disponibilità in modo esplicito e personale con serietà e prendersi incarichi da svolgere di cui poi dovranno rispondere
5. la gratuità deve essere il peso e la misura per la verifica qualitativa e quantitativa delle azioni

boccadorata alias gilda caronti

(un mio personale manifesto ...all'incirca dalla primavera 2001 in poi)

mercoledì 6 aprile 2016

La Banda di Benevento - 6 Aprile 1877




preso da: qui
... e grazie

Nevesck
«Ai primi dell'Aprile 1877, una trentina di persone, venute non si sa donde, si riuniva tutte le sere in una casa di San Lupo, villaggio perso nelle gole del Beneventano. La notte del 6 Aprile i carabinieri che sorvegliavano la casa furono ricevuti a colpi di fucile e due tra essi rimasero sul terreno gravemente feriti.
 Dopo queste prime avvisaglie la banda, lasciata la casa, si dirige al vicino villaggio di Letino preceduta da un orifiamma rosso e nero. Occupa il palazzo del Comune e ne caccia il Consiglio Municipale a cui rilascia pel debito scarico la seguente dichiarazione: "Noi sottoscritti dichiariamo d'aver preso possesso del Municipio, di Letino a mano armata, in nome della Rivoluzione Sociale".

E i banditi pongono in calce, l'un dopo l'altro, le proprie firme.
Si portano in piazza, a piedi della croce che vi troneggia, i registri del catasto, quelli dello stato civile, e se ne fa una fiammata.

I contadini accorrono in folla e ad essi uno degli insorti [*] rivolge la parola: "il movimento è generale, il popolo è affrancato, il re decaduto, la Repubblica Sociale proclamata". Si applaude. Le donne chieggono che si proceda subito alla ripartizione delle terre. "Voi avete delle armi, voi siete liberi, fate tra voi le ripartizioni" risponde la banda. Il curato Fortini — che è anche Consigliere comunale — monta sul piedestallo della croce e dice che gli uomini della banda sono venuti a ristabilire sulla terra l'uguaglianza, come vuole il vangelo, e che si debbano quindi accogliere come gli apostoli del Signore, e gridando: "Viva 
la Rivoluzione Sociale!" si pone a capo del drappello e lo guida al prossimo villaggio di Gallo.

A Gallo il parroco Tamburini si fa loro incontro, li accoglie bene e li presenta ai suoi parrocchiani con queste semplici parole: "sono buona gente! non abbiate paura di essi. Il governo è mutato e si dà il fuoco alla cartaccia". La folla, rapita ed entusiasta, riceve i fucili della guardia nazionale. I registri della locale agenzia delle imposte sono recati in piazza ed arsi tra gli evviva, mentre ai molini si tolgono e si distruggono gli odiosi contatori del macinato. L'entusiasmo è al colmo. Il parroco abbraccia il capo della banda, le donne piangono di gioia: non più imposta! non più affitti! eguali tutti, emancipazione generale.

Se non che.... si apprende dopo qualche giorno che le regie truppe accorrono. La banda si rifugia nella foresta del Matese e, disgraziatamente, il cielo è meno clemente dei contadini. Neve dappertutto, il freddo orribilmente intenso, i liberatori muoiono di fame.

Sono arrestati in blocco e nell'Agosto del 1878 compaiono dinnanzi alla Corte d'Assise di Capua...

La catastrofe giudiziaria non è meno strana degli incidenti che l'hanno indotta: gli avvocati sostengono che si tratta di delitto politico coperto dall'amnistia accordata da Umberto I salendo al trono, ed i giurati assolvono...».
 
Fin qui il socialista cristiano Emilio De Laveleye nel suo Socialisme contemporaine (Parigi, Felix Alcan Editeur, 1902) laddove parlando dell'Alleanza Universale della democrazia e di Bakunin apostolo del nihilismo, sintetizza gli episodi e le vicende di quella che i giovani compagni ignorano, ed i vecchi ricordano sempre con ammirazione ed affetto: la banda di Benevento, di cui oggi abbiamo voluto nel trentesimo anniversario suscitare pei lettori della Cronaca il simpatico ricordo.

Perché a costituire la trentina di persone, piovute non si sa di dove, come dice il rugiadoso De Laveleye, che il 6 Aprile 1877 ritentarono nel Beneventano l'eroica iniziativa che sulla terra di Sapri aveva condotto vent'anni avanti i Pisacane, i Nicotera, i Rota, l'eroica iniziativa di dare ad un popolo di ombre il pensiero e 
l'animo dei vivi, di dare ad uno strupo d'iloti un bagliore di coscienza, di verità, di diritto, di speranza e di libertà erano Carlo Cafiero, Alvino, Covelli, Errico Malatesta, Sergio Stepniak e cento altri che la morte ha falciato poi, e che le persecuzioni, le delusioni, le miserie hanno reso superstiti a se stessi, fatta la dovuta parte a coloro che sulla breccia rimasero e rimangono, come Errico Malatesta, immutati, tenendo il loro posto di battaglia coraggiosamente, gloriosamente.

Era insomma il fior fiore dell'intelligenza e dell'energia libertaria germogliato sotto l'alito ardente della parola e dell'esempio di Michele Bakunin nel campo irrequieto della grande Internazionale.

Quarantottate! ghignano in coro i piccioletti ladruncoli bastardi del socialismo scientifico e palancaiolo; e, nello stesso dispregio per le vittime e nella stessa adorazione pel successo: quarantottate! gridano nel sarcasmo nietzschiano gli apologisti eunuchi del dominatore e del superuomo.

Quarantottate? può essere; ma intanto contro gli arnesi da forca dell'antico regime superstite, l'Internazionale ergeva temeraria i postulati del nuovo diritto umano ed i suoi vessilli sanguigni.
Quarantottate? evidentemente: ma intanto il nuovo regno, il primo regno d'Italia si conchiudeva senza le sintomatiche carneficine proletarie, che sono la gloria del secondo e del terzo.

Quarantottate? non v'è il minimo dubbio; ma sotto la ferula cantelliana della vecchia destra non s'accucciava — anestetizzato dal cloroformio delle conquiste graduali e soprattutto pacifiche; avvilito e castrato dalle fervide obiurgazioni modernissime sulla schiavitù degli umili, perenne ineluttabile e necessaria — il proletariato della patria con cui, allora, vivevamo la vita, il palpito, il pensiero di ogni ora.
Ora siamo grandi e... furbi.

Abbiamo detto un grande addio alle quarantottate ed abbiamo messo giudizio.

Il quarantotto imperversa, è vero, nella reazione: sazia di piombo i ventri vuoti, sazia di menzogne i cervelli vergini; rifugia in galera i vecchi tronchi da cui non può più spremere né sudore né lavoro né quattrini; ci affoga nella strozza la libertà di pensiero e di parola e lo statuto; mitraglia per le risaie, per le miniere, per le
 brughiere il diritto alla vita, il diritto di associazione, il diritto di coalizione... 
Ma è la reazione.

Possiamo essere reazionari noi, e ricorrere al quarantotto dell'insurrezione, delle barricate, delle rivolte sguaiate perché le classi dominanti tornano al quarantotto del crimenlese, della tortura e della forca?
Ohibò! noi siamo, oggi, tutti filosofi.

Noi non comprometteremo coi moti inconsulti della ribellione primitiva le libertà consolidate onde sorride benigno dai cieli benedetti della terza Italia il regime liberale al nostro ravvedimento addomesticato; e se v'è ancora in mezzo a noi qualche semi-selvaggio che raccogliendo nel cuore ingenuo e primitivo i dolori e le onte del volgo ne temperi una folgore pei simboli dell'onnipotenza borghese, noi gli mozzeremo le unghie e le temerità in nome della fatalità darwiniana per cui spetta ai forti il dominio per cui sono retaggio ineluttabile degli umili la miseria e la vergogna.

Noi pieghiamo il groppone, la coscienza, la viltà, la bandiera, maestri di raccoglimento e di rassegnazione...

E i banditi di Benevento li ricordiamo tutt'al più per la nostra... mortificazione.

 
[*] Carlo Cafiero
 
[Cronaca Sovversiva, anno V, n. 14, 6/4/1907]

Comprendere Debord dialetticamente











 "Le idee situazioniste, senza dubbio, andranno molto al di là di questa delimitata organizzazione, per quanto indispensabile debba essere riconosciuto il suo ruolo, e proprio perché essa si è sempre pronunciata per l'autonomia di tutti" Asger Jorn 1971

 *****

grazie a Van Thuan Nguyen
Versione italiana di Understanding Debord Dialectically


I


[Risposta ad una lunga serie di domande su Debord e i situazionisti]
Le tue domande sono piuttosto lunghe e complesse. Spero che mi perdonerai se non cercherò di rispondere a tutte le tue domande in maniera dettagliata, poiché questo risulterebbe alquanto dispendioso e richiederebbe molto tempo.

Mi sembra che le tue domande riflettano ciò che io ritengo essere una concezione errata fondamentale (e molto comune): ossia, considerare “lo spettacolo” (e vari altri concetti — per esempio, “il soggetto”, “la merce”, “il capitale”) come categorie logiche rigidamente fisse. Se fai questo, automaticamente incapperai in ogni sorta di dilemmi apparenti, o addirittura di paradossi — Debord crede che lo spettatore sia totalmente dominato dallo spettacolo, o solo in parte? Se totalmente, allora come potrà mai avvenire la rivolta?  Se solo in parte, allora come mai Debord formula sempre le questioni in modi così apparentemente totalistici?

Credo che tali problemi risiedano nel modo in cui ti relazioni col libro. (Per semplicità mi riferirò a “te”, ma per favore non prenderla sul personale. Le tue domande e le tue perplessità sono abbastanza ragionevoli, e sicuramente sono più serie delle sciocche reazioni della maggior parte delle persone alla teoria situazionista. Le stesse critiche si potrebbero applicare praticamente a tutti quelli che discutono di Debord.)

A mio parere, il libro di Debord — come gli scritti di Marx e la teoria dialettica in generale — viene generalmente frainteso quando viene visto “oggettivamente”, come se fosse una descrizione ordinaria della realtà, usando le categorie ordinarie del pensiero. Invece, credo che possa essere giustamente compreso solo se viene utilizzato. Utilizzato non in un modo imitativo e meccanico come un libro di cucina o un manuale per la riparazione dell’auto, ma comunque utilizzato in un modo pratico.

Considera il famoso graffito del Maggio del ’68, “Siate realisti, chiedete l’impossibile”.

Se interpreti quella frase da un punto di vista logico di comune buon senso, ti sembrerà insensata. Per definizione, l’impossibile non può mai accadere, quindi come può essere realistico chiederlo? Probabilmente è effettivamente così che era sembrata quella frase a molte delle persone che l’avevano vista per la prima volta su un muro nel 1968. Ma molte altre persone la capirono perché in seguito furono coinvolte in azioni pratico-critiche. A causa di tale coinvolgimento, poterono quindi osservare come il solito concetto apparentemente pratico per cui ci si dovrebbe limitare a lottare per ciò che è “realisticamente possibile” fosse, in realtà, parte del problema, in quanto presumeva l’esistenza del sistema che invece necessitava davvero di essere trasformato radicalmente. Le cose desiderate dai ribelli erano in effetti impossibili all’interno del contesto del sistema attuale, ma potrebbero diventare possibili se qualcuno andasse oltre quel sistema. E in una certa misura, anche mentre il sistema persisteva, la semplice azione di opporsi al sistema aveva già creato un nuovo spazio mentale, liberando l’immaginazione delle persone in modo che esse potessero immaginare cose che in precedenza sarebbero sembrate impossibili. (La stessa idea, facendo lo stesso ironico gioco con l’apparente paradosso, è stata espressa da Oscar Wilde nell’epigramma al capitolo 4 di “The Joy of Revolution”.)

Un altro graffito simile dello stesso periodo, dice: “In una società che ha distrutto ogni avventura, l’unica avventura possibile è la distruzione di questa società”.

Anche in questo caso, se prendi questa frase troppo rigidamente alla lettera, ti sembrerà in sé una contraddizione (un’avventura rimane ancora possibile, quindi evidentemente non proprio “ogni” avventura è diventata impossibile). Ma se alleggerisci e prendi lo slogan solo un po’ più liberamente, non avrai nessun problema a capire quello che vuol dire.

Questi esempi possono essere un po’ semplicistici, ma penso che più o meno valga lo stesso per molti fraintendimenti sulle tesi del libro di Debord, anche se i suoi aspetti sono in genere più complessi e sottili.

A un certo punto dici: “Mi sembra che la natura stessa delle descrizioni di Debord dello spettacolo, il soggetto e la situazione escludono in modo efficace qualunque tipo di interazione tra queste due figure (lo spettacolo e la sua opposizione) che potrebbe consentire la generazione di qualcosa di nuovo.”

Se fosse davvero così, la teoria di Debord sarebbe stupida e assurda, e pochissime persone avrebbero prestato ad essa qualche attenzione. In realtà, le descrizioni di Debord non hanno a che fare con quasi nulla eccetto tali interazioni. Sono esattamente ciò che viene esaminato e analizzato in tanti modi diversi in tutte le sue opere.

Di nuovo, dici: “Se qualcosa è sorretto dallo spettacolo, non è esso stesso spettacolo?”

La risposta è che, guardando da un angolo potrebbe esserlo, ma da un altro potrebbe non esserlo.

E ancora: “lo spettacolo e i soggetti al suo interno sono effettivamente bloccati in un circolo vizioso.”

Potrebbe essere così se li guardi in modo puramente schematico, come se si trattasse di una formula matematica che dice: “A causa B, e B causa A.” Ma devi tenere a mente che entrambi, sia lo spettacolo che i vari soggetti, sono “più confusi” di ciò, più complicati, più variabili e mutevoli e multidimensionali. La Tesi # 3, per esempio, dice che lo spettacolo si presenta sia come la società stessa, sia come una parte di questa società. Molte altre tesi considerano la questione da molte altre angolazioni apparentemente contraddittorie reciprocamente. C’è abbastanza “continuità” che ha senso parlare di “spettacolo” (cosicché, invece di un insieme caotico di fenomeni disparati, è più una questione di analizzare i vari sviluppi e le mutazioni di una singola, più o meno coerente, tendenza sociale sottostante), e ci sono già abbastanza variabili che è necessario che tu sia consapevole del fatto che “lo spettacolo” non rappresenta un’unica “entità” distinta ed eterna.

Ancora una volta, dici: “Penso che le tesi come questa, che emergono in tutto il libro, mostrano che lo spettacolo deve penetrare lo spettatore. Con ’penetrare’ intendo: suggerire qualcosa di diverso da un soggetto che oppone resistenza in maniera totale — un soggetto che non è invulnerabile agli effetti dell’ambiente. La base di un rifiuto situazionista dello spettacolo è l’importanza primaria di un soggetto che è nella sua essenza assolutamente distinto dalla struttura che vincola le sue possibilità”.

Perché “assolutamente” distinto? (Non potrebbe essere solo parzialmente diverso?) Perché un soggetto deve opporre resistenza “in maniera totale”? (Non potrebbe essere semplicemente un po’ ribelle in determinate circostanze e relativamente sottomesso in altre?) Non vedi che ti stai solamente incasinando la vita con queste affermazioni estreme su “pure” entità fantasticate? L’acqua può inondare un “intero” paese senza necessariamente trasformare il paese in acqua al 100%. Le persone possono resistere all’inondazione, o cercare di rimanere sopra il livello dell’acqua nuotando o salendo su una barca, senza necessariamente opporre resistenza all’acqua “in maniera totale”. In realtà, lungi dall’essere “assolutamente distinti e separati” dall’acqua, i corpi delle persone sono composti in gran parte d’acqua, e morirebbero subito nel giro di poco tempo se venissero privati di essa. Questo può sembrare un esempio stupido — non ho la pretesa che l’analogia sia esatta — ma sto cercando di farti notare che il problema risiede in gran parte nel modo in cui ti poni verso di esso — questa fantasia di entità pure, antagoniste assolutamente.

Questa sorta di manicheismo è ereditata dalla religione e dalle ideologie politiche come l’anarchismo che inconsciamente continuano ad andare avanti con lo stesso punto di vista rigido e dualistico. L’idea, per esempio, che l’umanità sia “intrinsecamente buona”, mentre qualcos’altro (il diavolo, il capitalismo, lo Stato, lo spettacolo) siano totalmente malvagi. In realtà le cose sono solitamente molto più sfocate. “Lo spettacolo” non è un’entità totalmente malvagia, è semplicemente un processo storico-sociale che è sfuggito di mano negli ultimi secoli (o, più precisamente, si tratta di un sintomo dell’estremo sviluppo di un altro processo storico-sociale: il capitalismo). Di per sé non c’è niente di intrinsecamente sbagliato se le persone guardano le cose passivamente (come se “attivo” fosse sempre un bene, e “guardare” e “passivo” fossero sempre un male). Debord — come Hegel e Marx prima di lui — utilizza semplicemente dei termini/concetti molto taglienti per chiarire e rendere incisive le questioni. Egli non sta cercando di costruire una “filosofia” o di fornire una descrizione “scientifica” della realtà.

Queste osservazioni non rispondono alle tue domande, semplicemente equivalgono a dire che le cose sono più complesse di quanto possano sembrare se ti attieni troppo rigidamente alle parole di Debord (trattandole, di fatto, come uno spettacolo). Ma spero che possano aiutarti a fare un passo indietro (e/o andare “avanti”) e a vedere le cose da una prospettiva leggermente diversa, come se dovessi provare ad affrontare tali questioni.

Per esempio, è vero che Debord nella Società dello spettacolo è un po’ più “ottimista” riguardo alle possibilità della rivoluzione, e più pessimista nei suoi successivi Commentari [Commentari sulla Società dello spettacolo]. Ma anche in quest’ultimo libro, se leggi con attenzione, vedrai che egli non vede le cose in maniera poi così tanto totalistica come potrebbe apparire a prima vista. Credo che i passaggi a cui ti riferisci, che sembrano indicare una sconfitta “totale”, siano più che altro un modo di dire. Nel contesto più ampio, c’è stata davvero una grande sconfitta in quanto molte possibilità aperte fino a pochi decenni fa, sono ora (più o meno) chiuse (per il momento). Ma qua e là nei Commentari ci sono degli indizi che ci dicono che questa sconfitta potrebbe non essere definitiva, e che anche il sistema ha ancora le sue proprie gravi contraddizioni. Anche se lo spettacolo integrato “permea tutta la realtà”, ciò non significa che esso domini totalmente e permanentemente tutto o tutti.

Il punto, a mio avviso, è che questo problema possa essere meglio dibattuto in maniera più libera e più aperta, mettendo in considerazione ogni sorta di dati ed esperienze, piuttosto che farsi coinvolgere da noiosi dibattiti accademici-ideologici su tali vaghezze come “la natura del soggetto” o come la “posizione” di Debord sul “soggetto come un processo generativo” che si differenzia da Althusser ecc.

La stessa cosa si potrebbe dire dei problemi “psicologici” che hai menzionato. Sono problemi reali, e si possono trovare un sacco di intuizioni proficue nel Trattato del saper vivere di Vaneigem e nei primi lavori di Reich. Il breve testo di Voyer su Reich è interessante (anche se non ho una buona opinione degli altri scritti di Voyer), e inoltre in Double-Reflection e Case Study e in alcune parti di The Joy of Revolution discuto di alcune questioni correlate. Ma ti suggerisco di non prendere troppo sul serio “i punti di vista opposti” apparentemente  — come per esempio, fantasticando una scissione tra i King Mobbers presumibilmente più Reichiani-Vaneigemisti  e i Debordisti  presumibilmente  più “rigidi” o “dogmatici”. (Come spesso accade in queste scissioni, i problemi reali sono stati in larga misura più banali — vedi il resoconto dell’Internazionale Situazionista nel fascicolo #12 delI’ I.S.: “Le ultime esclusioni”)

Senz’altro, in tale analisi è compreso un attento studio degli scritti di Debord. Ma ti suggerisco di prenderli in maniera solo un po’ più leggera di quanto mi sembra che tu stia facendo, tenendo presente che sono stati scritti da un essere umano vero e molto vivace che si aspettava che i lettori fossero anch’essi esseri vivaci che sperimentano, affrontano e vivono esperienze, e che di conseguenza (anche se non sempre lo dice in modo così esplicito come fa Vaneigem) presuppone sempre che la vita, la rivolta, ecc siano sempre in gioco, nonostante le apparenze superficiali. Le sue dichiarazioni apparentemente pessimistiche sono in qualche misura soltanto dei colpi diretti (jabs) per destare le persone su qualche problema o altro. “Svegliati! Guarda la realtà! Abbiamo perso in quella battaglia laggiù, smettila di fingere il contrario! Fatti coraggio e cerchiamo invece di capire dove andremo da qui in avanti (tenendo conto dei seguenti fattori . . .)!” Questo è veramente ciò che gli scritti di Debord fanno da sempre, non importa quanto astrusi e complessi possano sembrare.
[Gennaio 2005]

II


[Risposta ad una domanda su Debord e i situazionisti da parte di un ammiratore dei pensatori accademici come Theodor Adorno, Jean Baudrillard e Jean-Luc Nancy]

Apprezzo il tuo impegno apparentemente serio con queste domande, quindi anche se non ho tempo per risponderti in dettaglio, ho comunque intenzione di provare a dare una risposta ad alcuni dei tuoi punti.
Forse sono io l’unico a pensarlo, ma sembra che ci sia una tendenza molto “assolutistica” in queste prospettive [situazioniste], in quanto ogni spettacolo è cattivo, non importa quale. Ogni spettacolo deve essere abbandonato. Questo è precisamente quello che Nancy sottolinea che sia impossibile (questo è il modo in cui mette in discussione l’adesione dei situazionisti ad una metafisica delle verità più profonde e dell’autenticità rivelatrice, a scapito di pensare attraverso “apparenze” in quanto tali).
I situazionisti non hanno la prospettiva assolutistica che tu gli stai attribuendo. Non ritengono che ogni spettacolo sia “cattivo” o che “deve essere abbandonato”. Il fatto che Nancy pensi questo, indica solamente la sua ignoranza su di loro. Citare fuori contesto alcune frasi liriche dalle opere situazioniste non dimostra nulla sulla loro fantasticata “metafisica”. Devi valutare tali frasi nel loro contesto, che nella maggior parte dei casi è piuttosto concreto.
Si tratta solo di capire realmente cosa significhi azione rivoluzionaria pratica quando ogni tentativo è ridotto a spettacoli (penso che questo sia ciò che Debord sta intuendo quando scrive di “possibilità di alienazione costantemente ricorrenti che sorgono all’interno della lotta stessa contro l’alienazione” e quindi la necessità di affrontare questo dialetticamente).
Debord non dice che “ogni tentativo è ridotto a spettacoli”, ma che il sistema tende a fare questo. Ciò non significa che tutti questi tentativi siano destinati ad essere sconfitti, bensì che dobbiamo esaminare i molti modi in cui il sistema ha sconfitto o corrotto tali tentativi, in modo da scoprire i metodi che saranno più efficaci. Ovvero, come dici tu, abbiamo bisogno di affrontare queste questioni in maniera dialettica. La Società dello spettacolo non si occupa di nient’altro che di questo.
Ancora, non è la “situazione” più efficace che Debord aveva costruito attraverso la sua opera scritta e mediante l’archiviazione di filmati di film e sceneggiature  —  e di radici filosofiche che stanno alla base di essi?
No. La situazione più significativa che Debord aveva costruito (in collaborazione, ovviamente, con innumerevoli altre persone in vari modi e a vari gradi) fu la rivolta del Maggio del 1968. Tra l’altro, durante lo stesso periodo, Baudrillard, lungi dall’avere alcuna idea di quello che stava succedendo, era un Maoista (cioè uno Stalinista), e Adorno si era dimostrato un completo idiota (scioccato e turbato all’idea che la gente potesse realmente tentare di mettere in pratica tutte quelle sue idee perspicaci, chiamò la polizia).
La mia più grande domanda è dove potresti indirizzarmi specificamente per quanto riguarda le “strategie” che sarebbero in contrasto con le “filosofie” —  finora tutto quello che vedo è un grave castigo della società, un tentativo di “dimostrare” che il tempo di pendolarismo, i film popolari , ecc. sono tutte cose “cattive”.
Gli articoli nell’ Antologia dell’I.S. sono pieni di esempi concreti. Per citarne solo uno, vai a vedere I nostri fini e i nostri metodi nello scandalo di Strasburgo. Dove sta la “filosofia” in questo articolo? È un’analisi concreta di un tentativo molto concreto e di grande successo per minare l’istituzione in cui persone come Adorno, Baudrillard e Nancy sono così comodamente sistemate. “Noi vogliamo che le idee tornino a farsi pericolose. Non è possibile permettere di sopportarci, non possiamo accettarci nella codardìa di falsi interessi eclettici, come se fossimo dei Sartre, Althusser, Aragon o Godard”.
Mi chiedo che “intervento” reale sarebbe  — poiché concordo con l’idea che ci sono modalità di inautenticità che possono essere modificate, modalità di consumo/svago che possono essere liberate in ambiti più creativi/trasformativi.
È un bene che tu abbia posto questa domanda. Ma per trovare la risposta, devi spingerti oltre e iniziare a sperimentare tali interventi. Per fare ciò, dovrai uscire fuori dal tuo guscio lasciandoti alle spalle i tuoi soliti preconcetti e le abitudini usuali. E dovrai avere il coraggio di rischiare di renderti ridicolo e di fare la figura del fesso. È l’unico modo per imparare veramente cosa significa tutta questa roba.
Questa, perlomeno, è stata la mia esperienza. (Vedi Come diventai situazionista.)


[Ottobre 2010]

 

Versione italiana di Understanding Debord Dialectically, traduzione dall’inglese di Van Thuan Nguyen.
No copyright.